10. Sei nuda, Raven

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«Resta qui con noi. Ci sono io», gli dico a bassa voce in modo tale che mi senta soltanto lui.

«A volte vorrei che fosse più semplice», bisbiglia e io gli stringo la mano.

«Lo so, ma siamo ancora tutti uniti», gli dico cercando di rassicurarlo. Combatte contro l’ansia sociale da anni. Spesso appare pieno di vita e super socievole, ma se lo si osserva con attenzione, si capiscono tante cose. Sorride per ogni stronzata, ride anche quando le battute non sono per niente divertenti, si torce le dita o si gratta il braccio mentre parla, sembra immerso nelle conversazioni degli altri ma in realtà mentalmente è altrove.

Peter è così. E fortunatamente ho imparato a conoscerlo.

«Lucy sta venendo qui», ci informa Mallory.

Peter si illumina ancora di più. Sento un ticchettio delicato alle mie spalle, ma non mi giro.

«Ehi!», le dice timidamente Peter. «Sono qui», inizia a torcersi le dita e io sospiro. «Lo so, è folle. Ma è vero. Sono davvero qui, cavolo!»

«Già», risponde Lucy.

Un suono secco, privo di alcuna emozione.

Il mio stomaco si serra in una morsa d’acciaio e inizio a elencare tutti gli aspetti positivi di questa scuola per tenere impegnata la mia mente. Tutto pur di non lanciarmi su di lei come un giocatore di rugby e romperle la faccia.

Ma il sorrisetto timido di Peter non mi sfugge.

Non vedo mio fratello per quello che è adesso. Io vedo il mio fratellino che si emoziona per le cose più banali e vedo mia madre che sbuffa e alza gli occhi al cielo perché la sua immotivata felicità le dà sui nervi.

Vedo questo.

E mi fa male.

Stringo i pugni e mi giro verso di lei. Nello stesso momento Lucy indietreggia, come se il mio malumore l’avesse colpita dritto nello stomaco. «Che piacere vederti, Raven. Stai davvero bene», mi squadra dalla testa ai piedi e mi sorride amichevolmente.

Sbuffo una mezza risata colma di disprezzo. «Non dire stronzate, Howard.»

«No, sono davvero felice di trovarvi qui. Finalmente io e Peter potremo passare più tempo insieme. Sarà fantastico», lo guarda e per un attimo il suo sorriso pare sincero. «Però al momento qui intorno regna il caos e finché non verrà qualcuno a sistemare questo casino, starò insieme a Adie. Ti scriverò tra poco, okay?», mi guarda e poi scende i gradini e gli lascia un bacio casto sulle labbra.

Se ne va quasi trotterellando su per le scale. Peter ha le guance rosse e gli occhi che traboccano d’amore.

«Dio, sei davvero perso», mormoro.

Mio fratello si stringe nelle spalle.

«Porca puttana, mamma, certo che ho messo tutte le mutande nella valigia!», grida qualcuno in italiano. Io e miei fratelli drizziamo subito le orecchie.

Nostra madre è italiana e quando eravamo piccoli ci parlava la maggior parte del tempo nella sua lingua madre. Ma nostro padre, americano fino al midollo, ci ha sempre parlato in inglese e dato che siamo nati qui, è diventata la lingua dominante, anche se, a mio parere, la lingua italiana ha il suo fascino.

Nostra madre imprecava un sacco, esattamente come il tizio moro dalla pelle olivastra che sta gridando animatamente contro il cellulare, fregandosene degli altri.

«Avete sentito anche voi, vero? Non me lo sono immaginata», guardo i miei fratelli e trovo la conferma nello stupore che riempie i loro occhi.

Sembra che Peter si sia resettato. Si gira verso di me con un sorrisone da far paura. «Parla la nostra seconda lingua», dice completamente su di giri. «Ehi, ciao!», si gira verso quel tizio e inizia a muovere energicamente la mano per attirare la sua attenzione.

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