Ero felice.

Avevo rivisto e riabbracciato la mia amata mamma e avevo rivelato tutta la mia storia a Weston sentendomi di conseguenza più leggera.

Stavamo insieme.

Weston non mi aveva abbandonata.

Certo, una parte di me temeva che mi avrebbe lasciata, esattamente come avevano fatto George e Monica, però mi ero prefissata di non ascoltarla. Avevo un altro motivo per il quale lottare. Il sonno molto probabilmente non sarebbe ritornato e la cicatrice sulla coscia avrebbe continuato a far male, ma avevo un po' più di forza e di speranza.

L'amore, cosa che ancora non credevo di provare, non mi avrebbe di certo guarita perché per quanto avessi voluto, quella non era una fiaba, ma la vita reale. Potevamo dire che la mia relazione con Weston aiutava. In quel momento non ero più sola intenta a percorrere quel percorso buio e tortuoso, ma avevo una persona che mi avrebbe appoggiata a sostenuta lungo il cammino fin quando entrambi non avremmo trovato un percorso migliore da seguire.

Il moro aveva ragione. Nessuno dei due stava bene e avremmo sicuramente dovuto chiedere aiuto a qualcuno di esperto. Per le nostre vite, per il nostro lavoro e, soprattutto, per noi stessi.

Avevo già intrapreso un percorso con una psicoterapeuta anni prima, subito dopo la morte di George. Insomma, non che avessi avuto molta scelta.

Scesi le scale con la valigia e fissai quel punto davanti alla porta e, come per magia, la figura di mio padre accasciata al suolo comparve davanti ai miei occhi. Le urla degli agenti di polizia e le sirene delle loro auto si propagarono attorno a me. Spostai lo sguardo e accanto a mio padre vidi la me di otto anni che guardava pietrificata il corpo di quello che ormai non riconosceva più. Sorrisi amaramente quando percepii nuovamente le braccia dell'agente che mi strinse contro il suo giubbotto antiproiettile affinché non continuassi a vedere quella scena.

«Claire?» chiamò ad alta voce Weston toccandomi il braccio. «Tutto bene?» continuò con aria preoccupata.

Weston mi ricordava un po' quegli agenti che avevo incontrato vent'anni prima. Anche lui si era armato di pazienza e aveva atteso l'attimo giusto.

Quella era la mentalità degli agenti che non sempre era quella giusta.

"Meglio avere un trauma che perdere la vita". Ero certa che tutti quegli agenti avevano pensato la stessa cosa.

E io ero incerta.

Insomma, certo, era bello essere vivi, ma sarebbe stato decisamente stupendo riuscire a dormire la notte e non avere problemi di fiducia.

L'unica cosa positiva di tutta quella faccenda? Mio padre era morto. Io e mia madre eravamo vive. Quello era ciò che più importava.

«Ricordi» sussurrai voltandomi verso di lui con un sorriso triste. Ormai era inutile mentirgli dato che in un modo o in un altro riusciva sempre a capire quando non mi sentissi bene come in quel momento.

«Andiamo?» domandò accarezzandomi i capelli che avevo fatto ritornare lisci.

Annuii per poi chiamare a gran voce il nome di mia madre che subito accorse verso di noi.

«State già andando via?»

«Abbiamo l'aereo tra un paio d'ore» risposi mentre stringeva tra le sue braccia Weston che dovette chinarsi un po' data la bassa statura di mia madre.

«Va bene. Mi raccomando, non fatevi male, non mettetevi in pericolo, se succede qualcosa chiamate Mary e fatevi aiutare. E tu, signorina, una volta finita questa missione prenditi una pausa e vieni a visitare la tua vecchia mamma. Weston, lo stesso discorso vale ovviamente anche per te, intesi?» continuò mia madre puntandoci un dito contro con un'espressione severa in viso.

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