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La spilla bianca talvolta rappresenta affidabile lasciapassare, talvolta - quando ci sono capi di Corpo ai controlli - no.
All'uscita Gate mi chiedono il codice identificativo e, più volte, anche cosa ci faccio a mille chilometri dal mio dipartimento, neanche fossi un turista sospetto in un paese dell'est. La risposta se la danno da soli quando sui monitor dei loro tablet compare il mio permesso di viaggio.
«Può andare, soldato Hoover» dice un Maggiore, «condoglianze.»

Uno zaino piccolo sulla spalla, un anfibio quasi slacciato, la pistola nella fondina sotto l'ascella e vestiti civili che fanno di me un bersaglio facile, soprattutto dato che questo è il mio primo spostamento in solo e non so cosa aspettarmi da una regione del sud martoriata dalle guerriglie popolari e dalle azioni confuse di sovversivi fuori controllo perfino alla Resistenza stessa.

Nessun blindato ad accogliermi, neppure un'auto del Corpo. Mi butto su un taxi e mi sorbisco pure l'occhiata storta del conducente.
«Istituto Maddalena» dico soltanto.
Lui annuisce e parte. Uno schifoso Gatto può avere parenti solo lì, sta pensando.
Percorre una vecchia autostrada dismessa la cui carreggiata destra è occupata da vecchi veicoli a benzina abbandonati. Una lunga fila di auto d'epoca in decomposizione. Più volte, nonostante sia quasi mezzogiorno, deve rallentare per non scontrarsi con alcuni cinghiali che attraversano. In lontananza c'è una fitta colonna di fumo, e so che si tratta di una casa che va a fuoco.
Appoggio la testa indietro e mi pento di averlo fatto giusto un poco: pensavo di avere qualcosa in sospeso con cui dovermi rapportare e ora, invece, me ne tornerei volentieri nella mia parvenza di serenità.
L'autista mi sbircia dallo specchietto più volte.
A un certo punto sulla strada c'è un posto di blocco. Mi controllano ancora.
«Condoglianze soldato Hoover» sento dire di nuovo e nemmeno rispondo.
Non c'è nessuna doglia. Nessun dolore. C'è solo il resto di un conto pagato ventitré anni fa, pochi spicci neanche buoni a prendersi un caffè, ma che sono miei e che devo andare a ritirare perché nessun altro li vorrebbe.

Qualche chilometro dopo, il tassista si ferma nella strada principale di un piccolo e desolato paese di periferia. Un istituto attempato di cemento rosa, con le sbarre alle finestre ma senza recinzione, appaga una delle curiosità che ho da tutta la vita: chissà dove vive.
Non provo nulla quando un assistente e due suore mi scortano fino alla camera mortuaria, le luci basse, rumore dei passi, un altro corpo morto accanto al suo. Esito a varcare la soglia e mi rivolgo a loro parlando a voce bassa.
«Come si chiamava?»
Le due suore non possono guardarmi ma una delle due, non potendomi nemmeno parlare direttamente, si rivolge all'altra: «Rosalie.»
Rosalie.

L'assistente, un uomo con una spalla più alta dell'altra, parla prima che le due donne col velo aggiungano dell'altro, «non possiamo dare informazioni, mi dispiace. Ha fatto il suo dovere verso la società, è tutto.»
Entro nella stanza e mi accorgo di essermi aspettato che ci fosse qualcun altro a parte me. Un parente, un altro figlio, un'amica, non lo so.
Invece io, uno sconosciuto come chiunque altro, sono il solo a chinarmi sul viso di una donna che non conosco e osservarla, e non per la prima volta.
Forse dovrei ricordarmi di questi lineamenti, ricollegarli in qualche modo a un volto che sarebbe dovuto rimanere impresso nella mente di un neonato, e invece non c'è nulla. Cerco somiglianza, qualcosa di me in lei o viceversa, inutilmente. Il suo ovale è delicato ma più vecchio di quanto dovrebbe, i suoi capelli sono stati chiari ma ora sono crespi e incolori. Il suo corpo è esile e sfinito dalle gravidanze. I suoi occhi... non lo saprò mai.

Questa è solo una donna senza vita. Ne ho viste tante altre prima, ne vedrò tante altre dopo.
Indossa una veste rosa che sembra di carta, ha la I tatuata sulla mano destra immobile, fredda e ingrigita.
Poi mi siedo qualche metro più in là, su una sedia posta da parte nella stanza, e aspetto solo che un tempo minimo passi, quello sufficiente a dire a me stesso che l'ho fatto, che andava fatto, che è okay così, e nel frattempo guardo il sole fuori dalla finestra cercando di scrollarmi di dosso quest'onere.
Sono stato io a volerlo. Ne ho fatto richiesta quando, a sedici anni, mi è stata posta dinnanzi la prima scelta della mia vita: se, qualora fosse morta, avrei voluto salutarla.
Ora invece mi chiedo cosa ci faccio qua, con questa persona esanime che non conosco, in una città che non volevo vedere, mentre i miei compagni di squadra sono di turno senza di me.

A tratti riesco perfino a dare la colpa a lei, che chissà per quale motivo ha deciso di morire proprio adesso, quando non c'entrava nulla, quando non la pensavo nemmeno più.
È una risposta che mi impatta addosso in tutta la sua assurdità quando rispondo allo smartphone che mi suona nella tasca.

«Hoover, devi rientrare immediatamente. La tua squadra è saltata in aria. Un'autobomba contro tre blindati all'altezza dei centri sociali Teatro. Tutti morti tranne te.»

Ancora con lo smartphone nell'orecchio volto lo sguardo verso Rosalie e ho la stupida sensazione che abbia voluto fare qualcosa per me, qualcosa che mi salvasse la vita.

Tuo, LuisNơi câu chuyện tồn tại. Hãy khám phá bây giờ