2. MAI FIDARSI DI UN MONTAYNE

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Juliette   

-Questi documenti non sono falsi- Cloe puntò le mani sui fianchi e roteò gli occhi. Il preludio del disastro. Mia cugina non aveva mai avuto un bel carattere. A meno che con bel carattere non s'intendesse un vulcano pronto ad eruttare.  

-Come se fossi nata ieri, ragazzine, tornatevene a casa, questo non è il posto per voi, dovete avere almeno ventun anni- la buttafuori scosse la testa. I neon dietro di lei creavano uno strano effetto, come se fosse stata circondata da una luce blu.

-Ragazzine!- Cloe ringhiò. -Ti sembriamo delle ragazzine?-

-Credo che dovremmo andarcene- l'afferrai per il braccio. Il gioco era durato troppo. Non aveva senso insistere.

-Non ci penso nemmeno-

Aprii la bocca, ma non riuscii a parlare. Di nuovo quella sensazione. Quasi stessi per esplodere. Le cose avevano assunto un andamento strano negli ultimi tempi. Soprattutto da quando le voci di una fuga d'amore avevano iniziato a diffondersi senza che nessuno potesse fermarle. Come se fosse possibile che Nathan ed Ellen fossero fuggiti insieme.

-Dicono che siano fuggiti insieme, che si amino- mi aveva sussurrato Cloe, ciocche bionde sulla faccia. -Ma lui ce l'avrebbe detto- aveva socchiuso gli occhi blu, il pigiama azzurro troppo largo. -Non devi credere a tutte le sciocchezze che dice la gente-

-Non può averci lasciati- dovevo avere gli occhi gonfi per le lacrime. Avevo puntato i talloni contro il bordo del letto, carica di una rabbia che mi faceva tremare. -Non per lei-

Non per Ellen Montayne con i suoi occhiali da sole enormi, le labbra ricoperte da un rossetto fucsia, i capelli biondissimi lasciati liberi al vento. Non per quella reginetta della scuola che aveva fatto a pezzi la mia vita. Non per una Montayne. Non mio fratello, incentrato sullo studio e sulla disciplina. Non lui, sempre disordinato e perso nei libri.

-Non crederci- Cloe era scivolata giù per atterrare in ginocchio sul pavimento. Le iridi lampeggiavano nel buio soffocante. Un buio pesante come una cappa di velluto. -Non se n'è andato per lei- e mi aveva stretta con forza mista a rabbia. -Nathan non avrebbe mai tradito la nostra famiglia-

Avevo cominciato a passare la sera seduta sul davanzale. Ad aspettarlo e a fantasticare. Era lì che era nato il gioco. Quell'immaginare qualcosa che non avrei mai potuto essere.

Da qualche parte c'era un'altra Juliette con una vita normale. Una Juliette che andava al campus, che camminava sul marciapiede con i tacchi a spillo e l'espressione sorridente. Una Juliette che se ne stava sdraiata sotto le stelle. Una Juliette che non doveva nascondersi dai mostri. Reali o immaginari che fossero. Il pensiero mi confortava e mi turbava. Era come essere legati a catene che tiravano da parti opposte.

In quelle notti, quando il mondo intero sembrava esplodere, fissavo la strada. Un labirinto d'asfalto e buche. Mi rannicchiavo, le ginocchia contro il petto, il cuore che mi batteva all'impazzata. Quella non era una strada. Non solo. Era un confine, intessuto di crepe e di rancore. Posavo la fronte contro il vetro tanto gelido da provocarmi un brivido. Una finestra della casa di fronte era illuminata. Un'altra vita. Una in cui non avevo nemici per il mio cognome.

In quelle notti non potevo fare a meno di guardare la villa davanti alla nostra.

Un tempo le due case erano state unite. Prima che iniziasse la faida tra le famiglie. Prima che ogni pace andasse in frantumi.

Due case. Due torri a vegliare su un muro invisibile, ma solido come pietra. E le persone che passavano, come se nulla fosse. Come se non vedessero tutto quell'odio. Qualche volta avevo cercato di scorgere una persona. Qualcuno che mai avrei dovuto cercare. La sua stessa esistenza era un fuoco per me. Una maledizione. Il desiderare qualcosa di sbagliato. Come la vecchia leggenda di Prudence e Spencer.

Una notte avevo visto una luce che graffiava il cielo. Una lama che lo tagliava. Lo avevo fissato, un desiderio che mi sgorgava dalle labbra. Un desiderio a cui non avevo potuto dare un nome. A cui non sapevo dare un nome. La voglia di altre vite. Volevo vivere una di quelle altre vite.

Blake mi avrebbe detto che ero una stupida, che tantissime persone avrebbero dato qualsiasi cosa per essere al mio posto, per avere la protezione della nostra famiglia, per avere i nostri soldi, per portare il nostro cognome. Un cognome che odiavo perché portava con sé catene invisibili. Le sentivo stringermi i polsi.

Una gabbia per quanto bella sia resta una gabbia. Volevo assaporare la libertà. Quella sera avevo appoggiato una mano contro il vetro. Il palmo premuto sulla superficie liscia. E mi ero goduta l'illusione. Nulla era abbastanza solido. Sicuro. Libero. Socchiusi gli occhi. Quanto costa la libertà?

-Tu non sai chi è mio fratello!- le urla di Cloe mi rimbombavano nelle orecchie e mi riportarono a quel locale dalle luci brucianti.

C'eravamo. Trattenni il respiro. Ero consapevole che avrei dovuto fermarla, ma non sapevo come.

-E chi sarebbe?-

-Blake Capulet- si mise le mani sui fianchi. Non riuscivo a vederla in faccia, ma sospettavo che stesse sorridendo. Lo stomaco mi si chiuse. Non doveva nominare Blake. Avrebbe potuto essere una condanna.

La ragazza con i capelli viola sussultò, le mani davanti alla bocca. -Non sai a cosa stai giocando- una vibrazione sbagliata nel suo tono.

-Ce ne andiamo- afferrai Cloe per un braccio e cercai di trascinarla via. Sfortunatamente mia cugina non si mosse di un centimetro.

-Voglio entrare- pestò i piedi.

-Perché dobbiamo sempre farci conoscere?- mormorai.

-Dovete farci entrare- urlò Cloe.

Di male in peggio.

-Dovre... -

-Credo che ci sia un malinteso-

Mi voltai. Un uomo ci fissava, le braccia conserte, un completo nero. Sentii Cloe gemere. Sapevo che lo aveva riconosciuto.

Non c'era persona a Veroka che non lo conoscesse. Deglutii, la gola secca. Quegli occhi azzurri e sottili mi facevano sentire una bambina. Aveva tratti duri, sopracciglia folte, capelli neri lasciati liberi sulle spalle.

Peter Montayne sorrise. Un sorriso falso. La somiglianza con Romeo mi fece sussultare il cuore.

-Siete mie ospiti- aveva un tono basso e suadente, con una punta di durezza.

Una sensazione amara mi scivolò in gola. Mai fidarsi di un Montayne. Tutti i presenti ci stavano fissando.

-Visto?- Cloe fissò la ragazza che ci aveva fermate. -Siamo sue ospiti- e non nascose il tono di vittoria. A Cloe piaceva vincere. A ben vedere vinceva ben poche volte e non ero sicura che questa fosse una di quelle.

-Voglio porgervi le mie scuse- Peter fece un inchino, gli zigomi resi ancora più pronunciati dalle luci. -Cosa posso fare per farmi perdonare?-

Qualcosa non andava. Ci aveva riconosciute, non poteva essere altrimenti. Allora perché era così gentile?

-Offrirci un drink- Cloe ammiccò, un ampio sorriso a illuminarle il viso.

Peter rise e le storie di sangue che giravano su di lui sembrarono impossibili. -Drink sia allora, volete seguirmi?- le porse il braccio.

Cloe si appoggiò, una risatina sulle labbra, le unghie che scintillavano sulla giacca nera. -Con vero piacere-

S'immersero tra la folla. Re e regina. E per un attimo mi sembrò di vedere Nathan ed Ellen che camminavano fianco a fianco.

Una bugia. Nathan ed Ellen a malapena si conoscevano. Con questo pensiero li seguii.

NOTE DELL'AUTRICE:

Eccomi qua!

In questo capitolo compare il primo Montayne. Nel prossimo conoscerete Romeo.

Fatemi sapere che ne pensate 😘

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