Melissa

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Martedì 29 Giugno 2004, 7:55 del mattino, sono nata.
"Melissa" il nome che i miei genitori scelsero per me, anche se mia mamma avrebbe preferito chiamarmi Ginevra.
Le motivazioni dietro la scelta del nome non lo è mai sapute, come non ho mai saputo perché mi sono meritata quello che mi sarebbe successo.
Una bambina normalissima, terzogenita di tre sorelle e fisicamente in salute.
Vorrei poter rivedere l'espressione dei miei genitori quando mi hanno guardata negli occhi la prima volta pieni di amore, incuranti che non sarei stata una bambina normale, ma per una volta, meritavano di viversi quella Melissa, che presto non ci sarà più.
Dall'infanzia non ricordo molto, ricordo la nonna che veniva a prendermi all'asilo con le buste della spesa in mano, ricordo il parco dove passavo i pomeriggi, ricordo l'amore della mia famiglia, che anche se non me ne rendevo conto sarebbe stato quello a tenermi in vita.
A 9 anni chi mi stava intorno iniziava ad accorgersi che qualcosa non andava in me, ma tutto veniva addossato al fatto che stessi crescendo, e nessuno si preoccupò d'avvero.
Sempre in quell'anno iniziai ad andare forzata dai miei genitori dalla prima psicologa. Piangevo, mi agitavo, urlavo, ero solo una bambina, io non ero "pazza", io non avevo bisogno di uno psicologo.
All'età di 12 anni, i miei genitori riproposero lo psicologo.
Dopo quella brutta prima esperienza e la paura del giudizio sociale, fui restia ad iniziare un nuovo percorso, ma decisi di dargli un'opportunità.
Capelli neri, occhi che ti sorridevano, occhiali sulla testa e un completo verde, la psicologa mi fa entrare.
Mi ritrovo davanti ad una sconosciuta, chiusa in una stanza e con i miei genitori fuori dalla porta. Non sapevo cosa fare, cosa dire e soprattutto, perché ero lì.
A dire la verità io avevo capito che in me ci fosse qualcosa che non andasse, io non ero come le altre bambine, ma volevo soffocare talmente tanto questi pensieri che andare dalla psicologa significava  solo riportarli in vita.
La psicologa inizia a farmi domande, io non rispondo, io non so cosa dire.
Mi ricordo una frase in particolare "i tuoi genitori mi hanno detto che non esci di casa, che piangi sempre e non hai le forze di fare nulla" dopo quelle parole il mondo mi cadde addosso, perché era tutto vero ma non lo avevo mai sentito dire ad alta voce.
Anche questo percorso finì qualche mese dopo, ma in me quel vuoto incolmabile che mi impediva di essere felice, non se ne era mai andato. Nonostante tutto il mio ingresso nell'adolescenza continuava, sembravo una ragazza normale, andavo a scuola, iniziavo a fare le prime esperienze, le prime uscite, le prime amiche, ma in tutto questo dentro di me, pezzo dopo pezzo, qualcosa si stava rompendo e io non me stavo accorgendo.

Ottobre 2021. Questa la data in cui è iniziato tutto.
Erano i primi anni della pandemia covid-19, il modo di vivere, per come lo intendevo prima, non esisteva più; non sapevo se per sempre, ma per un po' era certo. All'improvviso tutto intorno era cambiato radicalmente.
Ci siamo chiusi in casa nel tentativo di arginare la diffusione di questo virus, e la nostra finestra sul mondo è diventata internet, che mai come ora è diventato importante: per distrarci, per informarci, per comunicare e connetterci con gli altri.
Fu in questo periodo, nel mio isolamento interiore, che iniziai ad accorgermi dei pezzi che si erano frantumati dentro di me negli anni, ed ora era troppo tardi per riunirli.
Non mi sentivo adeguata, io non ero bella come le altre, socievole come le mie amiche, non ero particolarmente brava a scuola e non eccellevo in niente: non sapevo quale fosse la mia identità o quale fosse il mio scopo nella vita. Sentivo il bisogno estenuante di sfogare tutto questo odio che provavo per me stessa, perché non mi accettavo per chi ero, non l'ho mai fatto.
Dentro di me io sapevo che volevo amarmi, ma in questo corpo mi era impossibile, io odiavo il mio corpo. Iniziai così a controllare quello che mangiavo, una dieta innocua che presto mi avrebbe fatto sprofondare in un tunnel senza fondo e senza speranza: l'anoressia.
Io non sapevo, o forse non volevo saperlo, di soffrire di un disturbo del comportamento alimentare, ma le persone intorno a me se ne erano accorte, la mia famiglia, i miei professori, i miei amici, tutti tranne me.
Un giorno mia mamma decide di portarmi al pronto soccorso per problemi intestinali, ero seduta sulla barella e la vedo allontanarsi con l'infermiera, non sento bene il discorso ma riesco a percepire un "non mangia niente" da parte di mia mamma. A questo punto l'infermiera mi porta dentro una stanza bianca, dove c'era solo una dottoressa dai capelli bianchi e con una spilla a forma di fiocchetto lilla sul camice. "Melissa, tua mamma ci ha detto che hai perso tanto peso ultimamente e che non mangi, abbiamo deciso di inserirti in un day hospital per disturbi alimentari". Quelle parole mi fecero provare dei sentimenti misti di rabbia, collera, dolore, sdegno, io non volevo curarmi. Nessuno poteva decidere per me, io non volevo guarire.
La malattia era diventata il mio luogo sicuro, senza il quale non sapevo quale fosse la mia identità o come fosse la vita al di fuori della malattia. Il senso di controllo, i sentimenti di vuoto, i meccanismi di difesa erano diventati l'unica via di fuga da quel dolore immenso.
Fui obbligata a girare tra dietisti, psicologi, psicofarmaci, psichiatri come se fossi un fantasma che vagava senza meta.
Piano piano riuscivo a vedere la luce in fondo al tunnel, iniziai a riassaporare i gusti della vita, e stavo rincominciando a vivere, non più a sopravvivere, a vedere il cibo solo come un contorno della mia vita. Anche se dall'esterno le cose sembravano riprendere il loro posto, dentro di me c'era un male ancora più grande che stava crescendo e che presto sarebbe esploso, trasformando la mia vita e quella di chi mi ama un inferno.
Durante il quarto anno di liceo iniziai a soffrire di bulimia nervosa, mi abbuffavo cercando di riempire quel vuoto incolmabile che sentivo dentro e che sembrava niente potesse riempire.
Il cibo non mi bastava, avevo bisogno di più, dovevo provare delle emozioni forti, dovevo punirmi, me lo meritavo.
Iniziai a provocarmi qualche graffietto superficiale e realizzai che mi provocavano proprio quelle sensazioni che cercavo.
L'autolesionismo non era altro che un tentativo illusorio di  controllare interrompere, un dolore mentale troppo forte, un'angoscia troppo intensa e insostenibile: preferivo soffrire nel corpo che psicologicamente, preferivo il dolore fisico al dolore mentale.
Fui vista da vari specialisti, in varie parti d'Italia e dopo una serie di ricoveri psichiatrici mi dissero che soffrivo di "disturbo di personalità borderline" quando sentì queste parole mi bloccai, adesso avevo un nuovo mostro contro cui combattere, e quel mostro aveva un nome.
Le ferite inflitte al corpo non erano altro che  un mezzo estremo con cui lottare contro la sofferenza psicologica, il problema? Non bastava mai, era una dipendenza.
Ogni volta per riprovare quelle emozioni dovevo andare sempre più in profondità, dovevo provocarmi sempre più dolore per poter sentirmi viva, fino a che un giorno tutto si fermò.

Era il 15 agosto 2022, mia mamma si sveglia e inizia ad urlare e a chiamare mia sorella piangendo. Io ero inconsciente stesa sul divano in una pozza di sangue, con le braccia tagliate, ma miracolosamente ero ancora viva.
Non ricordo tanto di quella notte, ricordo che volevo morire, l'ambulanza, la polizia, la mia famiglia in lacrime e i medici che non sapevano se ce l'avrei fatta. Quando mi sono svegliata, con i polsi fasciati, chiusa in una stanza d'ospedale, sola, senza ricordare cosa fosse successo.
"Perché?" "Perché lo hai fatto? Cosa abbiamo sbagliato?" la risposta non la so nemmeno io, non so cosa ci sia di sbagliato in me, ma dopo quel tentativo, ho capito che la vita mi aveva dato una seconda possibilità e io non ho intenzione di buttarla via.
Il desiderio di suicidarsi, tuttavia, ha come base la convinzione che la vita possa o non possa migliorare. La morte, tuttavia, esclude la speranza in tutti i casi.
Il percorso è lungo, difficile, ma ogni vita è una vita che merita di essere vissuta e ognuno di noi ha uno scopo nella vita e se siamo su questo mondo è perché abbiamo un ruolo e un progetto.

Borderline: distruggere se stessi e gli altriWhere stories live. Discover now