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Giulio, quella mattina, era andato a scuola con l'obiettivo di uscirne vivo e senza nessuna crisi di nervi o perdita di neuroni: cosa che, di recente, aveva cominciato a parergli sempre più difficile.

Giulio aveva sempre detestato la scuola.

Non perché odiasse studiare, anzi: quella, per lui, era la parte migliore.

Detestava la scuola per le persone che la bazzicavano.

E, in particolare, la detestava per la sua classe: nonostante fosse ormai in quinto, nessuno era mai riuscito a entrare nelle sue simpatie.

Certo, le sue simpatie erano composte solamente dal suo cane Argo e sua sorella Arianna, ma quello era un altro discorso.

Ed eccolo lì: prendeva appunti con precisione e misura, tentando di segnare tutto ciò che sentiva nel minor tempo possibile.

Il professor Vitelli, loro professore di latino e greco dal primo anno, stava parlando della vita di Seneca, il personaggio latino preferito di Giulio. Il ragazzo, perciò, quella mattina era anche stranamente felice.

«Prof! Prof!» Matteo, uno dei suoi compagni di classe, aveva alzato la mano.

Giulio sospirò: era pronto a sentire un'idiozia e a trattenersi dallo sbattere la testa contro il muro fino a svenire.

Il professore tentò prima di ignorarlo, poi accettò quello che era il proprio destino e, alzando leggermente gli occhi al cielo, disse: «Sì, Piazzini?»

Il ragazzo sembrò tentare di trattenere delle risatine, per poi porre il suo decisamente utile intervento: «Prof, ma è vero che Seneca si tagliò le vene di fronte a tutti i commensali?»

Il professore inspirò ed espirò profondamente. «Sì, Piazzelli, è vero».

Giulio sapeva già dal momento in cui il ragazzo aveva alzato la mano che la classe sarebbe scoppiata in putiferio, ma non se l'aspettava così agguerrita anche con il severo professor Vitelli.

«Noi prima degli esami!» esclamò Pietro, una delle micce della classe.

Tutti, meno Giulio, che guardò verso l'alto, scoppiarono a ridere.

«Ma letteralmente noi!» aggiunse Sara, provocando un'altra risata da parte dell'intera classe.

A quel punto, però, nacque un chiacchiericcio comune, che si tramutò in caos puro sotto gli occhi del professore. Tale disordine venne tuttavia interrotto da un semplice urlo: «Bene, ragazzi, visto che avete tanta voglia, che ne diciamo di interrogare?»

La classe scese improvvisamente in quello che sembrava un silenzio religioso. Tutti cominciarono a guardarsi intorno persi: Dante, pensò Giulio, in confronto si orientava perfettamente su quella che era la giusta via religiosa.

«Beh, qualcuno che vuole venire?»

Tutti si girarono verso di lui, ovviamente. Giulio, l'unica persona dell'intera classe che aveva un effettivo interesse per lo studio, era l'unico a cui potevano rivolgersi quando si trattava di volontari. Giulio sospirò. In fin dei conti era da un po' che voleva fare un'interrogazione di latino per alzare quel 9-.

Finita l'interrogazione di latino —dove lui aveva ovviamente racimolato un 10—, tutti lo acclamarono e ringraziarono per averli salvati dalle "terrificanti" interrogazioni del professor Vitelli e da quello che si sarebbe evidentemente trasformato in un impreparato di classe, anche definita strage.

Ma queste preghiere, queste acclamazioni, questi ringraziamenti, non sarebbero cessati già a partire dal giorno dopo, per ridare spazio all'indifferenza che provavano per lui? Eppure, eccolo lì.

Ennesimo buon voto —non andava mai sotto il nove e mezzo, se non in educazione fisica, la sua acerrima nemica—, ennesima interrogazione fatta sotto le preghiere dei suoi compagni di classe.

Quel giorno, però, qualcosa sarebbe cambiato: se lo sentiva nello stomaco e la cosa non gli piaceva affatto. Al suono della campanella, mentre il professore se ne andava dalla classe raccomandando inutilmente ai ragazzi di rimanere calmi, Diana, la loro rappresentante di classe, sbatté sulla cattedra della classe un fascicoletto.

«Ragazzi, cominciamo l'assemblea!»

Se Dante, pensò Giulio, fosse vissuto nel ventunesimo secolo, avrebbe messo Giuda, Bruto e Cassio in un'assemblea della mia classe.
La ragazza ed Alessandro, l'altro rappresentante di classe, ci misero solamente dieci minuti a far sedere tutti e a riportare il silenzio e la tranquillità in classe: un nuovo record.

Diana guardò timorosamente Alessandro, il quale ricambiò lo sguardo con un piccolo cenno di testa.

«Vorrei iniziare dicendo che queste sono disposizioni volute dai professori e non da noi, quindi evitate di polemizzare e lamentarvi», cominciò quindi la riccia.

«Prima di tutto, vorremmo farvi presente che i professori non sono assolutamente contenti del nostro comportamento dell'ultimo periodo, perciò minacciano di non portarci in gita in Grecia.»

L'affermazione di Alessandro fu incontrata da un coro di dissenso.

«Potremmo dire che il consiglio di classe, per prevenire di dover arrivare a tal punto ha... come dire... ha stabilito una nuova disposizione per i posti.» finì dunque Diana, attendendo l'esplosione della classe.

Se Giulio si lamentava del normale caos, per lui questo era una vera e propria tortura.

«Cosa vuol dire? Ci hanno diviso?» esclamò Pietro, prendendo per un braccio il suo migliore amico —e, secondo Giulio, la sua anima gemella— Filippo.

«Giuro che se mi hanno messo in prima fila faccio una strage!» urlò invece Giulia, per poi attaccarsi al suo banco.
«Occupiamo!» esclamò invece Matteo, saltando su un banco.
«Ragazzi, vi prego, calmi–» tentò di dire Alessandro, ma nessuno lo ascoltò.

«ZITTI

Nulla terrorizzava i ragazzi più delle urla di Diana. Avendo ottenuto dopo tre anni di sudate preghiere il permesso di mettere delle annotazioni sul registro di classe, il potere decisionale sull'esito degli scrutini dei suoi compagni di classe era praticamente ricaduto nelle sue mani. E, stranamente, non aveva mai abusato di questo potere, bensì era riuscita ad ammaestrare quelli che erano i selvaggi —come a Giulio piaceva definirli— della sua classe.
Proprio per questo lei era forse una delle poche persone che il ragazzo riusciva a sopportare e, proprio per lo stesso motivo, le era rimasto seduto di fianco per quasi cinque anni.

Giulio sperò con tutto il suo cuore che, perlomeno, il suo posto non fosse stato cambiato.

«Adesso ricopiamo la disposizione sulla lavagna, appena finiamo vi alzate e in silenzio vi spostate al posto che è indicato sulla lavagna», disse infine la riccia, per poi cominciare a disegnare insieme ad Alessandro i diversi posti e i nomi assegnati.
Se quelli che seguirono furono per Giulio i migliori attimi di silenzio scolastico mai vissuti dal primo, agli altri ragazzi parvero ore di ansia e terrore.

Finita l'opera di copiatura, i ragazzi cominciarono ad affollarsi di fronte alla lavagna: tra studenti che piangevano perché spostati di fronte e studenti che festeggiavano perché riuniti con i loro amici o lasciati con loro, Giulio chiamò Diana al suo banco con un cenno di mano.

«Noi rimaniamo qui come al solito, no?» disse lui, tentando di accennare ad un sorriso. Diana gli sorrise gentilmente, ma Giulio lo riconobbe: un sorriso di sconfitta.

«Diana... noi rimaniamo qui come al solito... vero?» disse nuovamente lui, spalancando leggermente gli occhi.

«Beh Giulio, in realtà...» Diana non finì di parlare, che una voce dalla lavagna esclamò: «Al primo banco con Villa? Sul serio?»
Giulio si considerava una persona dalla mente di ferro, ma neanche lui sarebbe stato capace di sopportare un tale dolore: Beatrice Lobascio si sarebbe dovuta sedere di fianco a lui.

L'unico pensiero che in quel momento lo riguardava era decidere se imitare Socrate e prendere un po' di cicuta oppure seguire le orme di Seneca e tagliarsi a sua volta le vene.

Portami in motobarca e dimmi che mi ami.Where stories live. Discover now