Dischiusi la bocca sconvolta. «Hai indagato su di me?!».

«Beh?», inarcò un sopracciglio, «Indagare su qualcuno è solo una tua prerogativa?».

Colpita e affondata. Alzai gli occhi al cielo e terminai la mia merenda, sciacquandomi la bocca con un lungo sorso di acqua fresca per far tornare i denti più o meno puliti. «Che hai scoperto, uomo dalle mille risorse?».

«Le prove che mi hanno incastrato facevano parte di un fascicolo ben costruito dentro cui erano presenti foto, biglietti aerei, indirizzi e altri dati privati che mi collegavano all'organizzazione russa di cui facevo parte. Queste informazioni le avevo appuntate su un agenda che mi seguiva ovunque andassi e di cui mio padre era a conoscenza, perché era da lui che avevo imparato questo metodo di archiviazione dei dati: se non ti separi dalle prove che potrebbero incastrarti allora nessuno potrà mai farlo. Me ne separavo soltanto quando andavo sotto la doccia, deve averne fatto una copia in quei momenti, magari proprio durante uno dei nostri viaggi di lavoro».

Inclinai la testa. «Incastrare te come avrebbe potuto incastrare anche mio padre? Se non erro i vostri luoghi di incontro erano sempre differenti e distanti da Mosca».

«Con l'estratto conto del mio conto bancario, dove era possibile vedere i bonifici mensili che gli facevo dopo essermi accertato del suo effettivo riciclaggio di denaro. Ero io a pagare tuo padre perché era con me che lavorava».

Deglutii a vuoto, pensando che il mio arrivo in quella prigione doveva per forza essere uno scherzo del destino.

«Mio padre mi ha dato in pasto alle autorità pur di incastrare il tuo».

Non riuscii a frenare la risatina che mi sfuggì dalle labbra, anche se mi rendevo conto che fosse fuori luogo. «Scusa, ma la trovo una cosa davvero esilarante».

«E perché mai dovresti?». Mi fulminò con i suoi occhi azzurri.

«Perché quando sono stata io a dirtelo hai pensato che ti stessi tradendo pur di non accettare che fosse stato tuo padre a tradirti».

«Senti, mi dispiace. Ma mettiti nei miei panni, tu avresti mai dubitato di tuo padre se ti avessero detto la stessa cosa?».

Il mio tono fu acido. «No perché mio padre non è il tuo. Mi ha amato come io ho amato lui, non avrei mai potuto dubitarne, ma se ne avessi avuto uno come il tuo-».

«No, non ne avresti dubitato neanche in quel caso», mi interruppe e mi impedì di continuare la frase. «Forse lui non ha mai amato me, ma io ho amato mio padre. Ed è per questo che provo così tanta rabbia adesso, come la prova chiunque abbia un rapporto complicato con il proprio, perché forse esistono padri che non amano i figli, ma non esistono figli che non amano i propri padri. Anche quando sono i peggiori. È una cosa che possiamo gestire, perfino nascondere, ma non controllare: non esiste rabbia laddove non esiste amore».

Non potevo contraddirlo in questo caso, solo lui, e le persone come lui, potevano sapere come fosse convivere con una sofferenza del genere, con la consapevolezza che chi dovrebbe amarti per primo non ti ama affatto. «Per quel che vale, mi dispiace per tuo padre e per... la delusione».

«E a me dispiace che al mondo ci sia posto per un padre come il mio e non per uno come il tuo. Adesso capisco che volevi dire».

Sospirai pesantemente e incrociai le braccia sul petto. Stare per un po' a Parigi mi aveva fatto disabituare al freddo polare di quell'isola abbandonata. «Beh, di tutto questo dolore che mi porto dietro tento di guardarne solo il lato positivo. Mi spinge a trattare questo mondo di violenza con un po' più di gentilezza».

«Qual è stata l'ultima cosa gentile che hai fatto?», chiese con una curiosità che mi parve pura, priva di motivazioni losche.

Ci pensai su. «Io e Lysander abbiamo comprato dei pasti pronti e caldi per donarli ai senzatetto in giro per Parigi. E tu?».

The Not HeardDove le storie prendono vita. Scoprilo ora