♡︎;; the horizon tries but it's just not as kind on the eyes as Arabella

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La sensazione di bruciore che si prova quando si sta troppo tempo nella stessa posizione sotto al sole mi fece togliere il grande cappello di paglia dal viso, dove lo avevo appoggiato per evitare che il calore potesse dare fastidio agli occhi. Mi misi a sedere, allungai il braccio destro per raggiungere il piccolo tavolino situato tra le due sdraio per prendere l'orologio che avevo precedentemente appoggiato per evitare di perderlo nell'acqua del mare. Le lancette di colore nero segnavano le 16:27. Ero rimasta quasi 3 ore sotto il sole cocente di quella giornata afosa di luglio. Mi alzai e, saltellando per evitare di scottarmi i piedi sotto la sabbia bollente, raggiunsi la battigia. Feci qualche altro passo, facendo arrivare l'acqua all'altezza delle caviglie. Portai le mani ai fianchi, incantata dal panorama mozzafiato. Il sole si preparava per iniziare a tramontare, il cielo stava assumendo lentamente dei colori tendenti all'arancione, un leggero venticello soffiava scompigliandomi i capelli lunghi e secchi a causa della salsedine. La pace dei sensi. Una sensazione di tranquillità e sicurezza. Volevo rimanere lì per sempre. Entrai finalmente in acqua. Mi assicurai di essere arrivata abbastanza lontana dalla riva e mi stesi quasi a fare la cosiddetta "posizione del morto". Chiusi gli occhi. Il rumore delle onde che si infrangevano contro la battigia, il fischiettare degli uccellini, l'odore tipico dell'acqua marina, la sensazione di freschezza. Mi sembrava di vivere un sogno. Dopo tutto quello che era successo negli ultimi giorni, una pausa per poter staccare dalla mia noiosissima vita, mi serviva. O almeno, io la reputavo noiosa.

Sono stata immersa nell'affascinante mondo della musica da quando non ero nemmeno nata. Canticchiavo qualcosina, sapevo strimpellare una chitarra, due o tre giri di basso, ma non mi ero mai impegnata abbastanza. Non perché non mi piacesse, anzi. Non mi impegnavo perché il "saper suonare uno strumento" lo consideravo un ordine da parte dei miei genitori. E io odiavo fare ciò che qualcun'altro mi imponeva. Amavo dipingere, però. La mia famiglia aveva da sempre vissuto in un piccolo cottage nella campagna inglese, immersi nella natura. Sono cresciuta a contatto con i piccoli animaletti del sottobosco, con l'erba alta, i fiori di campo, il piccolo ruscello in cui la nonna andava a cercare pietre particolari. Le domeniche pomeriggio, dopo il grande pranzo familiare, approfittando della pennichella che la stragrande maggioranza dei parenti svolgeva dalle 14 alle 17, mi recavo ad esplorare qualche zona dimenticata, seguita da una grande tela e un paio di tubetti di acrilico. E fu proprio uno di quei pomeriggi che incontrai lui.

Era maggio. Stranamente quel giorno faceva particolarmente caldo. Indossavo un vestito bianco molto in stile cottage core, con un corpetto morbido e un'ampia gonna che svolazzava ogni qualvolta si alzava il vento, i capelli legati in una treccia morbida e un paio di stivali da cowgirl. Mi fermavo di tanto in tanto per raccogliere delle margherite da inserire tra una ciocca e l'altra. Camminavo a fatica a causa dell'afa e appesantita da una valigetta piena di utensili per dipingere. Arrivai nel mio posto segreto, una piccola porzione di terra delimitata da grandi alberi e  in cui era presente un laghetto. Ero affascinata da quell'angolo di paradiso, soprattutto dalla grande quantità di fiori dai mille colori che lo decoravano. Era il luogo perfetto per potersi mettere a disegnare. Sistemai il cavalletto, posizionai la tela e presi la tavolozza sulla quale misi una punta di ogni singolo colore che possedevo. Ma in quel momento sentii una dolce melodia provenire da qualche angolo nascosto tra i grandi alberi. Quasi ipnotizzata iniziai a muovermi verso quella direzione trovandomi, qualche istante più tardi, un ragazzo intento a suonare una chitarra acustica. Rimasi a guardarlo nascosta dietro un tronco, incantata. Muoveva sapientemente le dita sulla tastiera producendo una canzone a me ignota. Cercando di fare meno rumore possibile mi avvicinai. Mi sedetti a gambe incrociate proprio davanti a lui.
—Sei davvero bravo.— dissi solamente cercando di attirare la sua attenzione.
A vedermi sobbalzò, era così assorto nella sua musica che non si era nemmeno accorto della mia presenza.
—Grazie.— rispose passandosi una mano tra i capelli castani. Aveva dei grandi occhi scuri, caratteristica che mi colpì appena lo vidi. Erano degli occhi magnetici, quel tipo di occhi in cui ci si perderebbe.
—Io sono Isabel, per gli amici Bella. Piacere di conoscerti.—
Gli porsi la mano. Lui mi squadrò per qualche istante, poi la strinse con titubanza.
—Piacere mio, Alex.—
Aveva un bel nome.
—Sei di quì? Non ti ho mai visto da queste parti.— domandai, quel ragazzo mi incuriosiva.
—In realtà sono di Sheffield. Vengo quì ogni tanto quando voglio riflettere o semplicemente comporre qualcosa. Tu invece?—
—Io vivo qui. Quindi quella che stavi suonando è una tua canzone? La posso sentire?—
Annuì ricominciando a suonare la melodia di prima.

arabella | alex turnerWhere stories live. Discover now