Trenta days

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Erano le 10 in punto di una fresca mattina di ottobre. Il sole, un po' offuscato e sbiadito dalle nuvole, splendeva alto nel cielo e a tratti illuminava le parti della camera. Dalla finestra aperta proveniva un leggero venticello che mi accarezzava la pelle del viso e delle mani mentre la mente vagava e il corpo si crogiolava ancora qualche minuto sotto le coperte. Dall'altra parte della stanza, probabilmente verso la cucina, si udiva il fastidioso suono di un frullatore. Un delicato profumo di crema mi fece brontolare la pancia. 

Probabilmente sarà mia mamma che cucina qualche torta sperimentale, pensai.

Mi ero svegliata più tardi del solito, ma poco importava. Non avevo nessun impegno in programma.

"Ecco un'altra giornata uguale alle altre" brontolai fra me e me.

In silenzio osservavo la mia stanza. Era spaziosa e un po' disordinata, ma non mi andava di metterla a posto. "Non sistemo un luogo che non sento mio", pensai. Tre armadi blu a parete e un letto matrimoniale troppo grande per una persona sola riempivano la camera. La mia coperta rossa comprata a Budapest era perfettamente stirata ai piedi del letto e sulla scrivania un vasetto di finte orchidee viola colorava l'ambiente. C'era anche un dipinto di una canna di bambù fatta ad inchiostro nero sulla carta di riso appeso a parete. Quel dipinto mi consolava, ricordandomi che, nonostante tutto, quell'anno comunque avevo realizzato qualcosa: il corso di Sumi-e, pittura giapponese.

Avevo anche letto moltissimo. Il tempo non mi era mancato. I libri di Haruki Murakami erano sparsi un po' ovunque. Minuscole grinze, le orecchiette, scaglionavano a tratti la parte alta delle pagine che mi avevano colpito di più.

Decisi di alzarmi e di andare a farmi un caffè, insieme a due fette di pane tostato con la marmellata ai frutti di bosco. Come immaginavo mia mamma bazzicava in cucina con qualche nuova creazione di torte. 

Niente buongiorno, niente "hai dormito bene?" o frasi di questo tipo. Non era da lei. Però cucinava bene. Era il suo modo, il suo linguaggio. Era così che chiedeva scusa, era così che salutava ed era così che respirava. Alla fine l'avevo capito.

Mio fratello invece era in salotto che studiava per i suoi esami dell'università. Sbirciai i fogli davanti a lui. Era concentrato a scrivere formule matematiche che non potevo minimamente comprendere. Geroglifico. 

Ammiravo tanto il suo impegno. Avere una passione in cui credere non è da dare per scontato. Soprattutto quando la porti avanti con dedizione ed estrema costanza. Le chiavi, alla fine, per raggiungere qualsiasi obbiettivo desiderato.

Mio fratello ha 24 anni, due in più di me. E' parecchio alto e ha la pelle chiara, con i capelli castano biondicci che sembrano spighe di grano al vento e una cicatrice da pirata che gli attraversa la guancia destra. Quando cammina tiene il busto leggermente ricurvo e la sua voce, morbida e controllata, ha quasi sempre un volume basso come se dovesse fare delle confidenze. E' un ragazzo sveglio e dal carattere gentile, uno di quelli che pensa sempre prima di parlare e che pesa i grammi di pasta prima di mangiarla. Ha fatto arrampicata per tanti anni ed ha una vera dote per il disegno.

"Che musica ascolti?" gli chiesi, notando che indossava le cuffie.

Si tolse le cuffie un momento e con aria interrogativa mi domandò "Cosa hai detto?"

"Ti ho chiesto che musica ascolti"

"Ah, un brano di Clout" rispose lui.

Vederlo tutti i giorni era come restare a galla in un mare in burrasca. Mi scaldava meglio di un termosifone acceso. Perché parlarci anche solo cinque minuti nella mia routine era una vera fortuna, considerato il tempo che avevo speso all'estero per un totale di quasi due anni. E considerato che, molto presto, ci sarei ritornata.

Sorseggiavo il caffè e lasciavo scorrere i pensieri liberamente: mancavano trenta giorni alla partenza, all'ennesima partenza che avrebbe finalmente riacceso le mie giornate come il flash di una torcia in mezzo alle tenebre fitte di una strada sconosciuta.

Ero un frullato di emozioni. La gioia lasciò presto spazio ai dubbi, che a poco a poco si affollavano in testa: "Sarò pronta? Sarò in grado di buttarmi alle spalle tutti i rancori, i ricordi scomodi, e a rilanciarmi in una nuova avventura?". Mi guardo attorno e mi sento preda di uno sconforto anonimo. Mai ero stata a mio agio lì dentro, forse per via del divorzio dei miei genitori, un trauma da manuale che mi aveva spronato a cercare, con tutte le mie forze, risposte alle mie domande.

Cosa significava per me prendere un aereo e raggiungere terre lontane? Libertà. Una libertà fatta di sogni, speranza e futuro.

Le ferite erano ancora fresche e ricominciare era difficile, doloroso.

Non era la prima volta che lasciavo casa, che lasciavo Faenza, la mia città, ma dopo tante fatiche ritornavo finalmente sui miei passi ed era un enorme vittoria.

Mi aspettava una lunga scalata, ma come dice Coelho nel suo libro l'Alchimista: "Ascolta il tuo cuore, esso conosce tutte le cose". E il mio in quel momento urlava soltanto una cosa: VIAGGIA.

MELANGEWhere stories live. Discover now