9 • CLASSE A

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Lascio il reparto di terapia intensiva con la sensazione di essere passata dentro uno schiacciasassi. Non mi stupisce che Wendy Woolford abbia assunto un aspetto tanto smunto e derelitto, a questo punto. Passare tante ore al giorno in un posto del genere sarebbe deleterio per chiunque.

Fuori, ormai, si è fatto buio e non ha mai smesso di piovere.

«Ti accompagno a casa?» mi domanda Peter, con fare apprensivo. «O preferisci andare da qualche parte? C'è una sala da tè molto carina, qui vicino».

Avevo intenzione di chiedergli di accompagnarmi a casa del signor Davies per consegnargli la lettera e per parlare con Fox. Però, adesso, non mi sembra più così importante. Nonostante siano passate solo poche ore, le mie priorità sono radicalmente cambiate.

«Puoi accompagnarmi a casa di Daniel Blacksmith?» domando e, all'interno dell'abitacolo dell'auto di Peter, si diffonde uno strano silenzio.

«Certo» risponde lui, dopo qualche istante di esitazione. «Dove vuoi».

Ma non è contento. Non dice una parola per tutto il tragitto e, quando alla radio passa una sua canzone, sembra che non se ne accorga neanche.

«Beh, grazie mille» dico, quando lui ferma la macchina davanti a casa di Danny. «Per tutto».

«Figurati» risponde. «Mi farebbe piacere rivederti, Posy. Quando hai intenzione di tornare a Londra? Potremmo vederci lì, se vuoi».

Peter Potato vuole rivedermi. Ma non qui, in questa specie di umido universo parallelo composto di vento, brughiera e brutali omicidi. No, lui vuole rivedermi a Londra, dove le cose che succedono sono vere.

«Io... sì, certo» balbetto. «Ma mi tratterrò qui ancora per qualche giorno, credo».

«Bene. Mi tratterò anche io, allora» sorride, poi si sporge verso di me e mi posa un delicatissimo bacio sulle labbra che mi fa trasalire. «Vieni a cena con me, domani?»

Sono ancora paralizzata e sconvolta quando Peter, scavalcandomi con lo sguardo, dice:

«Oh, guarda. C'è Danny».

Mi volto anch'io. Danny è fermo immobile proprio di fianco alla nostra auto, con una felpa col cappuccio tutta sporca di grasso e un vecchio ombrello sbrindellato in mano.

«Grazie, Peter» sussurro, mentre lui mi carezza molto lentamente i capelli. «Ci vediamo domani, allora».

«Passo a prenderti alle otto. Non vedo l'ora, Posy».

Danny, al buio e sotto la pioggia, sembra più aggrottato del solito. Fin da bambino, per quello che io riesca a ricordare, è sempre stato un tipo ombroso e scostante con gli estranei e, allo stesso tempo, circondato da una ristretta cerchia di amici a lui devotissimi tra cui, fino a qualche anno fa, c'ero anch'io. Anzi, io, probabilmente, ero la più devota di tutti, visto che ho iniziato ad amarlo pazzamente all'età di dodici anni, tipo. Sarebbe da capire, adesso, in quale categoria di persone abbia deciso di collocarmi, se tra i devoti amici d'infanzia o se tra gli estranei da cui tenersi alla larga.

«Che cosa ci fai qui?» mi domanda, non appena scendo dalla macchina.

«Devo parlarti» rispondo, infilandomi sotto ciò che resta del suo ombrello prima che per i miei capelli sia troppo tardi. «Possiamo entrare in casa?»

«In casa c'è mia madre» risponde, secco. «Vieni con me».

Saluto con la mano Peter prima che la sua macchina riparta e Danny non si sforza neanche di nascondere una smorfia di disappunto.

Potrei chiedergli il motivo di tanta ostilità, penso, arrancando dietro di lui in mezzo alla fanghiglia del vialetto costeggiato dai pitosfori. Ma alla nuova me, quella determinata a fare luce sulla brutale aggressione di Suzy, non interessa.

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