Lavinia

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You took it all

Man mano che passavano i giorni, Lavinia si sentiva sempre più tranquilla. Persino l’aria a Mitras sembrava più pulita e aveva un nonsoché di rilassato che pian piano le stava facendo abbassare la guardia. Era strano non svegliarsi con il fragore del traffico, i vicini che litigavano di sopra alle cinque del mattino, la lotta con i continui lavori stradali e le vie bloccate. Il profumo diverso di quella casa, il letto vuoto accanto a lei, quelle mattine in cui Armin non correva sotto le sue lenzuola a causa di un incubo.
Strano.
Quella era una di quelle mattine in cui invece il calore di un corpicino le stava scaldando il fianco. Aprì gli occhi ed il silenzio colpito da pochi raggi di sole risuonò placido nella stanza; li richiuse con un mugolio soddisfatto e si voltò di più, abbracciando Armin. Premette il naso tra i suoi capelli ed inspirò a fondo, il suo profumo innocente ancora fresco nonostante le sembrasse che stesse crescendo a vista d’occhio. Il bambino respirò un po’ più forte, ma non si svegliò.
Era domenica e non lavorava, perciò si godette quel silenzio ancora per un po’.
 
«Erwin, non c’era bisogno che cucinassi tutta questa roba».
Lavinia fissò la tavola apparecchiata in quella che era stata la casa dove erano cresciuti.
«Certo che no. Infatti, l’ho comprata» le rispose il fratello con aria divertita e lei alzò gli occhi al cielo.
«Ovvio. Per un attimo ho creduto che il vivere da solo ti avesse costretto a imparare a cucinare»
«Difficile da credere, ma anch’io ho dei difetti»
«Mamma, posso giocare con questo?».
Armin le allungò un cuscino a forma di gatto e Lavinia scoppiò a ridere.
«Non ci credo, l’hai tenuto?» chiese al fratello.
«Mamma si rivolterebbe nella tomba se lo buttassi via» sorrise lui, accarezzando la testa di Armin e andando verso la cucina. «Giocaci pure. Almeno serve a qualcosa».
«Però dopo, amore. Adesso mangiamo o si raffredda tutto».
Per quanto si sforzasse di mantenersi calma, non riuscì a ignorare del tutto quel peso strisciante alla bocca dello stomaco.
«Ho conosciuto due tuoi vecchi amici» disse al fratello mentre pranzavano.
«Chi sono?» domandò lui.
«Levi ed Hanje. Sono i genitori di due bambini che frequentano l’asilo di Armin».
Il volto di Erwin si distese in un sorriso.
«Non mi dire! Hanje ha un figlio? Non ci credo finché non lo vedo» commentò ridendo.
«Sì, si chiama Eren. Vanno d’accordo, vero, Arm?».
Continuarono a chiacchierare così del più e del meno, durante tutto il pasto. Per fortuna, la presenza di Armin la aiutava a mantenere il controllo: la sua piccola ancora di salvezza fu una distrazione confortante fino al momento in cui non sparì nel corridoio con il suo nuovo gioco.
Lavinia alzò gli occhi sul fratello e per la prima volta quel giorno, entrambi si presero la libertà di fissarsi in silenzio.
«Sembri tranquilla».
Erwin ruppe il ghiaccio per primo, tipico di lui. Lavinia sollevò un sopracciglio.
«È una domanda?» commentò ironica. Lui accennò un sorriso e si sporse all’indietro, aprendo l’anta di una piccola credenza alle sue spalle. Tirò fuori una bottiglia di limoncello e la indicò con sguardo interrogativo; Lavinia sporse il bicchiere.
«Intendevo che sembri tranquilla» continuò, svitando il tappo. «Considerando che non sei ancora entrata nella tua vecchia stanza».
Lavinia accusò il colpo con familiarità: Erwin non era mai stato un tipo che ci andava leggero. Prese un sorso del liquore con tutta calma, ascoltando le chiacchiere lontane di Armin.
«C’è ancora?» domandò infine, sondando il viso del fratello senza trovare traccia di una qualche emozione negativa.
«Credevi che i nostri genitori l’avessero smantellata?»
«Non ho detto questo»
«Allora credi che lo abbia fatto io»
«Hai sempre detto di volerci fare uno studio» rispose simulando un’ironia che non provava.
«Nina» la chiamò Erwin e a lei tremarono le dita sotto il tavolo. «Non ti ho mai incolpata di nulla»
«Mamma!».
Armin la chiamò da qualche parte, in fondo al corridoio, e se una parte di lei desiderò raggiungerlo e stringerlo, qualcosa le impediva di alzarsi. Erwin le fece un cenno con il capo e Lavinia riconobbe la tenerezza di una volta. Quella che riservava solo a lei, quando ancora vivevano sotto lo stesso tetto.
«Vai. Dovresti elaborare il lutto, finalmente».
 
Lavinia si poggiò allo stipite della porta, portando una mano al collo. Armin aveva aperto il suo vecchio cesto dei giochi e ci stava sbirciando dentro con curiosità.
Sorrise, sbattendo le palpebre per liberarsi del velo bagnato che era calato: sua madre avrebbe amato avere Armin in giro per quella casa. Lei invece non ce lo aveva mai portato.
«C’è ancora Rosina lì dentro?».
Il bambino biondo sobbalzò e si girò a guardarla quasi spaventato.
«Scusa, mamma. Non volevo» disse richiudendo subito il cesto.
Lavinia sospirò silenziosa e gli andò incontro.
«Non hai fatto niente di male, amore. Sta tranquillo».
Gli passò una mano tra i capelli e si inginocchiò sul tappeto viola. La sensazione le ricordò lunghe telefonate stesa a pancia in giù e giochi inventati. Riaprì il cesto e ci guardò dentro.
Era tutto ancora lì, così come le pareti lilla e le luci da muro a forma di stella. Tirò fuori una bambola consunta, senza capelli e senza vestiti.
«Lei è Rosina» gli disse e rise della sua smorfietta.
«Che brutta»
«Mh. Bisogna curarla un po’. Ma è molto simpatica»
«La possiamo portare a casa?»
«Sì. Puoi prendere tutto quello che ti piace. Io vivevo qui, sai?».
Armin si guardò attorno attentamente e Lavinia stette a fissarlo tutto il tempo.
«Io dov’ero?»
«Non c’eri ancora»
«Ero in pancia?»
«Ancora prima. Eri in cielo».
Armin tornò sulla bambola, aprendole e chiudendole le palpebre mobili.
«Dobbiamo vivere qui adesso?».
Lavinia ignorò la gola stretta: «No, amore. Ma possiamo venire a trovare lo zio quando vogliamo»
«Non dobbiamo chiedere a papà?».
«No, non dobbiamo» sussurrò e si voltò verso la porta. Erwin era lì, in piedi.
«Sicuro di voler prendere quella bambola? Ho una collezione di biglie, di là».
Armin lo guardò, per nulla convinto.
«No, no. Io e la mamma la possiamo curare».
 
 
«La sorella di Erwin? Ma pensa!!».
Hanje sbatté la mano sul tavolo tanto forte che ad Eren cadde il cucchiaino del gelato. Mikasa scoppiò a ridere e gli porse il suo.
«No, Mikasa. Ognuno il suo cucchiaino» la bloccò Levi, afferrandole il braccio; purtroppo per lui, Eren lo aveva già preso e messo in bocca. Con una smorfia, chiamò un cameriere per farsene portare un altro, mentre Hanje continuava a parlare da sola.
Lavinia si sentì particolarmente a suo agio in quel trambusto.
«Ora che ci penso, ci aveva parlato del tuo matrimonio. Mi chiese di accompagnarlo»
«Davvero?». Lavinia aggrottò le sopracciglia «Non mi ricordo proprio di te»
«Beh, perché rifiutai ovviamente».
Lavinia sollevò le sopracciglia, divertita. Non credeva possibile che qualcuno desse due di picche ad Erwin.
«Questa è bella. E come mai?».
Hanje si chinò, abbassando la voce.
«Perché ero cotta di lui. Credevo che facendo la dura mi avrebbe notata».
«La peggiore delle tattiche» borbottò Levi al loro fianco, allungando dei fazzoletti a Mikasa.
«Beh, cosa dovevo fare? Era pieno di tipe che gli ronzavano intorno»
«Questo me lo ricordo» alzò gli occhi al cielo Lavinia. «Venivano sempre a ficcare il naso in camera mia per cercare di fare amicizia»
«Anche lui ha figli?»
«No. Si è sposato con il suo lavoro» ironizzò Lavinia.
«Mamma, non mi va più» si intromise Armin, allungandole una coppetta semi sciolta.
«Che peccato esserci persi. Magari possiamo organizzare una piccola rimpatriata».
«Col cazzo» rispose in tono funesto Levi, lanciando uno sguardo al viso divertito di Lavinia.
«Linguaggio» gli ricordò lei bonariamente, indicando i bambini con un cenno.
«Chissà se Mike vive ancora in città»
«Oddio, Mike» si illuminò Lavinia «Me lo ricordo. Cercavo di spiarlo quando veniva a casa per giocare a Mahjong con Erwin. Era il mio colpo di fulmine».
Lavinia si bloccò, notando che Hanje era scoppiata a ridere e persino Levi aveva un’espressione ilare.
«Cosa?»
«Non credo giocassero a Mahjong, tesoro»
Lavinia continuò a fissarli senza capire, finché l’espressione eloquente di Hanje non le illuminò una lampadina.
«Oh, mio dio, Erwin e Mike? Siete seri?» esclamò la bionda, scioccata. Erwin non le aveva mai parlato della sua vita sentimentale, figuriamoci di quella sessuale.
«Diciamo che si è tolto parecchi capricci in quegli anni. Si, si, Eren, va bene. Adesso andiamo al parco» rispose Hanje, cominciando a raccogliere le cose dei bambini. «Ora sì che ho bisogno di una bella rimpatriata. Sai, rinfacciarci tutte le sciocchezze che abbiamo fatto» aggiunse con un sospiro. Gli occhi di Lavinia slittarono con curiosità su Levi. Magari anche lui, con Erwin.. Levi la intercettò al volo.
«No», rispose lui alla sua domanda muta, alzandosi e afferrando lo zainetto di sua figlia.
«Tu non ti sei divertito all’università?» ridacchiò lei, seguendoli verso la cassa. Hanje si voltò per mormorarle al volo:
«Altroché, era un teppista».
Levi le ignorò, pagando la merenda a tutti, senza ascoltare le proteste successive.
«La prossima volta faccio io, ragazzi» disse infine, ringraziandolo con un sorriso.
«Se ci sarà, una prossima volta» rispose Hanje, guidandoli fuori, lungo il vialetto che conduceva al piccolo parco davanti all’asilo. «Questo pomeriggio libero è stato un miracolo».
Durante il breve tragitto, Lavinia fu sorpresa di sentire la mano di Armin lasciare la sua per raggiungere i suoi amichetti che saltellavano più avanti. Li osservò camminare tutti e tre fino al cancelletto rosso del parco, immersi in chiacchiere.
«Li guardo io per un po’!» gridò loro Hanje ed entrò insieme a loro. Lavinia le fece un gesto affermativo e arrivò a poggiare i gomiti sulla ringhiera che delimitava il parchetto. Sentì la presenza di Levi al suo fianco.
«Un teppista, eh?» gli disse, curvando le labbra all’insù.
«Te l’ho già detto: sono più noioso di quanto sembri»
«Non saprei. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio» rispose, a suo agio nonostante l’espressione distaccata di lui. «Non ruberai mica la mia borsa?».
Levi la fissò brevemente con la coda dell’occhio, sistemandosi meglio lo zainetto in spalla. Era da quando si era seduto accanto a lei al bar che cercava di non guardarla: quel giorno aveva i capelli biondi sciolti sulle spalle e un maglione blu largo il doppio di lei. Iniziava a pensare di esserne attratto e la cosa era assurda dato che le volte in cui l’aveva vista si potevano contare sulle dita di due mani.
«Una borsa? Hai poca fantasia» rispose, reggendo il gioco.
«Giusto. Il tuo negozio potrebbe coprire un business ben più fitto» commentò, annuendo.
«Ti trovo stranamente interessata» affermò, sollevando un sopracciglio.
«Tutti hanno un lato oscuro» rispose lei con un sorrisetto.
Si fissarono e Lavinia sentì una vaga tensione propagarsi. Distolse lo sguardo per prima, abbassando la testa e ripercorrendo mentalmente lo scambio.
«Io non ti trovo noioso» aggiunse infine, tornando con lo sguardo sui bambini.
«E io non rubo borse».
Sorrise più apertamente e rilassò le spalle.
«Posso conviverci».
 
 
Uscì dalla casella mail con viso contratto. Inspirò profondamente e nascose il viso tra le mani, ferme sul volante dell’auto. Aveva appena staccato da lavoro e la giornata non era andata proprio come sperava. Forse aveva fatto un errore: sostenere un cambiamento del genere era troppo per lei. Crescere un figlio, ricostruire non solo la sua, ma due vite. Non sarebbe mai riuscita a rendere pienamente felice Armin da sola.
Si sfregò gli occhi umidi e guardò la stradina dove aveva parcheggiato per rispondere al suo avvocato. E dire che si era aspettata buone notizie.
Riprese il cellulare e compose il numero di Erwin; ci mise il tempo di due squilli a rispondere.
«Nin?».
«Ehi. Scusa se ti disturbo, ma potresti andare a prendere Armin dall’asilo?».
«È successo qualcosa?»
Scosse la testa come se lui potesse vederla, mentre di nuovo sentì voglia di piangere.
«No. Solo-» espirò con la bocca e tamburellò il volante. «Ho bisogno di un pomeriggio»
Ci fu un attimo di silenzio.
«A che ora esce?»
«Alle quattro e mezza»
«Va bene» rispose con voce sicura e Lavinia si sentì sollevata.
«Grazie. Scusa dell’inconveniente»
«No problem. Chiamami se ti serve qualcosa».
 
 
Una cosa che non le piaceva di Trost era l’assenza del mare.
Tutti i suoi ricordi più belli avevano il profumo della salsedine: le vacanze con i suoi, i castelli di sabbia e le gare di nuoto con Erwin. La faceva vincere ogni volta.
Il suo primo bacio durante una gita scolastica a Hizuru.
I brindisi alla fine di ogni sessione universitaria sulle spiagge di Marley, le risate e le albe con gli amici.
La promessa di Porko.
Passiamo la vita insieme, ti va?
Gli occhi le scivolarono pigramente lungo il fiume e per un attimo si chiese cosa si dovesse provare. A lasciarsi portare via dalla corrente.
«Ehi» disse qualcuno ad alta voce.
Si voltò verso la voce e scorse un viso conosciuto dentro un’auto nera.
«Levi» soffiò lei, presa alla sprovvista. Giusto, era di nuovo a Trost. Elegante, tranquilla. Piccola.
L’uomo la vide sorridere con agitazione mentre si guardava attorno. C’erano solo loro in quella strada.
«Tutto bene?» le chiese, cauto.
«Sì, sì. Stavo facendo una passeggiata» disse avvicinandosi e incrociando le braccia al petto. Levi ebbe la sensazione che qualcosa non andasse.
«Ti serve un passaggio?».
Lavinia esitò, guardandosi dietro; il sole stava tramontando, dovevano essere le sei. «Non voglio disturbarti» disse infine, con un sorriso impacciato.
Lui le fece un cenno con la testa.
«Sali».
L’interno della macchina era molto pulito, sembrava nuovo: si allacciò la cintura di sicurezza e cercò di calmarsi.
«Mikasa?» domandò, cercando di fare conversazione mentre Levi rimetteva in moto.
«L’ho appena lasciata in palestra» rispose tranquillo.
«Ah. E cosa fa?»
«Salti, capriole, cazzate del genere».
Suo malgrado la donna sorrise. «Carino».
Calò il silenzio e Levi si mosse nervosamente sul sedile, incerto su cosa dire. Un paio d’ore prima aveva incontrato Erwin all’uscita dall’asilo, ma in mezzo al baccano che aveva fatto Hanje non era riuscito a chiedergli di lei. In realtà, non gli spettava nemmeno ed aggrottò le sopracciglia a quel pensiero. Lavinia fissava la strada con il sorriso precedente congelato sul volto.
«Non ho mai iscritto Armin a corsi così» mormorò, forse più a sé stessa.
Levi svoltò ad una curva: «Non è obbligatorio»
«Sì, no, lo so» scosse la testa. «È colpa mia, non mi sono mai informata sulla possibilità. Magari lui avrebbe-».
L’uomo si voltò in tempo per vederle tremare il labbro inferiore ed aggrottò le sopracciglia.
«Non è mica morto».
Lavinia lo guardò con espressione confusa. «Eh?»
Levi tornò sulla strada.
«Dico, Armin ha tutto il tempo. Per trovare qualcosa che gli piace».
La bionda continuò a fissarlo, pensando a qualcosa. Poi si rilassò sul sedile, annuendo.
C’è tutto il tempo.
«Hai ragione» rispose. Gliel’aveva già detto, l’altra sera, ma forse non gli aveva dato il giusto peso.
Poco dopo, fermò l’auto nella loro via e commentarono al volo la fortuna di quel parcheggio. Lavinia si voltò verso il corvino.
«Scusami, oggi ho avuto una giornata no»
«Non mi devi delle scuse» le rispose con calma, sfilando le chiavi dal cruscotto.
«Beh, grazie allora. Spero di sdebitarmi».
Si fissarono per qualche secondo e Lavinia si vide riflessa nei suoi occhi. Di nuovo, sentì una strana tensione che stavolta le percorse tutta la schiena.
Ridacchiò imbarazzata e si slacciò la cintura.
«Buona serata, allora».
Si affrettò verso casa con l’improvvisa impellenza di allontanarsi da lui.
Qualche ora dopo, le arrivò un messaggio di Hanje.
#tbt baby! Prossimo sabato, ore 20!!!!
 
 
«Non lo so, è una cosa tra di voi»
«Ma è grazie a te se ci stiamo rivedendo. Devi esserci!»
«E comunque non saprei dove lasciare Armin»
«Portalo qui. La nostra tata è fantastica».
Lavinia fissò dubbiosa il figlio che guardava la tv. In realtà non aveva voglia di uscire. No, non era vero. In realtà aveva voglia di uscire. Smania, anzi. Non usciva per conto suo da moltissimo tempo, ma era proprio questo ad agitarla.
«Non sono convinta. Siamo qui ancora da poco, lasciare di già Armin da solo...»
«Tesoro, andiamo! Ti conosco da un mese e posso già dire che sei la migliore delle mamme di Trost. Direi che te la meriti una pausa»
Lavinia sospirò un sorriso leggero.
«Dov’è il posto?»
«Non lontano dal Duomo. Ma tanto puoi venire con Levi, anche lui lascia Mikasa qui da noi»
«Oh, okay. Magari gli scrivo»
«Otti-Ehi! Cosa pensi di fare con le mie provette!?» abbaiò Hanje dall’altro lato a chissà chi.
Lavinia rise: «Dai, ti lascio. Buon lavoro!»
«Oh, sì ciao, cara! Ti avevo detto di n-».
La chiamata si chiuse di botto e Lavinia lasciò il telefono in cucina, raggiungendo il figlio in salotto.
«Cosa guardi?».
Armin non staccò gli occhi dallo schermo: era seduto sul pavimento, la testa piegata all’indietro e le gambe incrociate.
«Curioso come George».
La donna si lasciò cadere sul divano e per qualche minuto provò a seguire il cartone animato: la mente, tuttavia, continuava a vagare altrove. Cominciò a mordicchiarsi un’unghia, sprofondando maggiormente tra i cuscini.
«Ehi, Arm. Ti piacerebbe suonare uno strumento?» gli chiese, fissando la nuca bionda non muoversi di un millimetro. Non le rispose e lei aspettò che la scimmia finisse di aiutare un gattino.
«Arm»
«Eh», bofonchiò il figlio, distratto.
«Vorresti suonare il piano?».
Silenzio. A parte il farfugliare senza senso della scimmia. Lavinia picchiettò le dita dell’altra mano sul cuscino.
«Armin» lo richiamò più ferma, iniziando ad innervosirsi.
«Che c’è?» chiese Armin voltandosi appena.
«Il pianoforte. Vuoi imparare a suonarlo? C’è un corso a scuola…» non finì la frase perché il bambino si era distratto di nuovo. Era come se il televisore avesse fagocitato il figlio; si alzò di scatto, uscendo dal salone e raggiungendo velocemente la stanza del bambino. Prese uno dei giochi che Erwin gli aveva regalato e tornò da lui, afferrando nel frattempo il telecomando. Spense con soddisfazione la tv, ignorando il lamento che si sollevò da Armin.
«Perché non giochi con questi? Hai tante cose che possono insegnarti di più di un cartone».
Armin si fece di pietra; la guardò con le sopracciglia aggrottate ed un’espressione ansiosa sul volto. Non le rispose e non si mosse. Lavinia si inginocchiò accanto a lui tirando fuori con veemenza quello che doveva essere un Memory.
«Avanti, giochiamo» gli disse con fermezza. «Sistema le carte».
La donna lo guardò allungare lentamente una mano e prendere una tessera dalla punta, la testa abbassata. Spento.
No, no.
Si fermò un momento e chiuse gli occhi, stringendo le labbra. Tirò un sospiro e strisciò più vicina a lui, allungandosi per abbracciarlo.
«Scusa, amore. Giochiamo solo se vuoi» mormorò, le sue lunghe ciocche bionde sul volto di Armin. «Solo se vuoi».
Lo sentì rilassarsi tra le sue braccia e sentì due piccole dita camminare sul suo avanbraccio.
«Tanto vinco io» disse infine Armin e Lavinia sorrise, stringendolo di più.
«Mà»
«Dimmi»
«Come si scrive pianoforte?».
 
Che madre voleva essere?
Se lo chiese poco dopo mentre frullava due banane, latte e biscotti. Armin aveva solo una possibilità, solo una madre e solo un padre. Rimaneva solo lei, perché Porko aveva fallito come padre e per lei anche come uomo.
Armin non gli era mai andato troppo a genio e Lavinia non riusciva a comprendere come potesse essere possibile non amare il proprio figlio. Per lei era naturale come i battiti del cuore.
I respiri di Armin erano i suoi.
Per questo, quando si era resa conto che Porko gli stava togliendo la gioia dagli occhi pezzettino per pezzettino, le era scattato qualcosa definitivamente.
Me ne vado.
Per un po’ aveva creduto che la lotta fosse finita, ma in quegli ultimi giorni si sentiva diversa. Come se fosse appena iniziata. Non poteva più permettersi errori, perché ne avevano fatti troppi ed Armin non se lo meritava. Doveva tenersi in piedi.
Ricucirsi.
 
 
Si guardò allo specchio con ansia, sentendosi un clown. Si era truccata appena, eppure le labbra le sembravano troppo vistose, gli occhi azzurri troppo distanti tra di loro ed il fard messo male. Il top nero troppo scollato, la giacca scolorita e i pantaloni la ingrassavano. Diede le spalle alla sua immagine e si piegò a controllare per l’ennesima volta se avesse messo tutto nella borsa.
«Armin, hai scelto il tuo gioco?».
Il biondo arrivò correndo davanti al portone, vestito di tutto punto e con un peluche in mano.
«Questo!».
Il cellulare fece uno squillo dal divano.
«Sono arrivatiii» si entusiasmò Armin, saltellando e Lavinia afferrò le chiavi al volo.
Ok. È un’uscita tra amici, niente di più.
«Andiamo, non facciamoli aspettare».
Si chiuse la porta alle spalle e diede tre mandate.
 
Aveva ordinato una birra, ma continuava a tenerla tra le mani bollenti. Il pub era suggestivo: era una chiesa sconsacrata, rinnovata in stile irlandese.  
Era più o meno al centro della tavolata in legno lucido e faceva del suo meglio per seguire i discorsi, soprattutto perché Erwin sembrava determinato a coinvolgerla il più possibile. Mike era simpatico e tutti erano molto gentili con lei. Eppure, non poteva fare a meno di sentirsi un pesce fuor d’acqua.
«Da quando in qua riesci a sentire una sveglia?» rise la donna bionda, Nanaba se ricordava bene, rivolta a Mike.
«La sento.. La sesta. Ma almeno arrivo in orario in ufficio» rispose, mentre Erwin scuoteva la testa.
«Sei migliorato» commentò l’uomo. «Una volta ti presi a calci per farti arrivare in orario all’esame di statistica»
«Non oso immaginare in che modo...» si intromise Hanje con un sorriso malizioso che rischiò di far sputare a Gelger la birra. Erwin guardò la sorella, divertito, senza dire nulla e portò alla bocca il calice di vino. Mike guardò altrove, tossicchiando.
«Mi sono perso» commentò Moblit, il marito di Hanje, causando l’ilarità generale.
Perché ho ordinato birra?
Si decise a bere il primo sorso e vagò sui presenti: qualcun altro stava perlopiù in silenzio come lei e, quando ne incrociò gli occhi taglienti desiderò essersi seduta accanto a lui.
Per qualche motivo era l’unico con cui si sentiva meno estranea.
Levi sostenne il suo sguardo e Lavinia non riuscì a capire se fosse infastidito o meno. Si chiese cosa pensasse di lei dopo il loro incontro al fiume. Ci aveva riflettuto, più tardi, e si era resa conto che era stata una fortuna. Era tornata a casa sentendosi meno appesantita. Una domanda di Nanaba la distrasse e tornò a prestare attenzione alla conversazione, ignara degli occhi di Levi ancora su di lei.
Passarono così un paio di orette e riuscì a vuotare il bicchiere senza incidenti particolari. L’atmosfera si era riscaldata e le voci erano più alte, anche il locale era più pieno. Lavinia si scusò, alzandosi per andare al bagno, ma dopo essersi lavata le mani, decise di allungare la sua pausa dal caos. Uscì nell’aria fresca, ormai quasi primaverile: sul marciapiede c’erano tre ragazzi che chiacchieravano e a destra sentiva le voci di una coppia in una macchina. A parte loro, era tutto tranquillo.
Si poggiò contro il muro con una mano sullo stomaco, mandando giù un rutto spiacevole. Chissà cosa stava facendo Armin in quel momento: controllò il cellulare che segnava le 22.34 ed improvvisamente le sembrò sbagliato essere lì. Avrebbe fatto meglio a guardare Il Re Leone con lui per la milionesima volta.
«Ehi».
Si voltò. Levi era appena uscito dal pub e la fissava.
«Ehi» rispose, un po’ confusa. L’uomo si infilò le mani in tasca, girando la testa: «Erwin mi ha chiesto di venire».
«È sempre stato protettivo, ma adesso esagera» rispose Lavinia alzando gli occhi al cielo. «Non devi stare qui per me, figurati».
Levi non rispose, come se stesse pensando a qualcosa, ma non tornò neanche dentro. Una parte di lei ne fu sollevata.
«Ti ha fatto piacere rivederli?» gli chiese, riportandone lo sguardo su di lei.
«Avrei dormito comunque» rispose con un ghigno appena accennato che la fece sorridere più apertamente.
«Ero curiosa, ma nessuno ha raccontato delle tue imprese criminali»
«Lo fanno perlopiù alle mie spalle» commentò come se la cosa non lo riguardasse, né lo turbasse. Anzi, Lavinia ebbe il sentore che lo divertisse.
«Come...Come mai avete smesso di frequentarvi?». 
«Non c’è un motivo particolare» rispose con tono calmo. «Ognuno aveva la sua vita, immagino».
La bionda annuì, fissandosi i piedi. Lei un motivo ce lo aveva, ma se l’era scordato.
«Vuoi tornare a casa?».
«Oh no, no» rispose velocemente, sciogliendo le braccia che aveva incrociato. «Sto bene»
«Hai una faccia di merda».
Lavinia si morse un labbro.
«Ti stai ripetendo» rispose ironica, evitando il suo sguardo. Forse era un tantino irritante questa capacità che Levi sembrava avere. Di guardarle attraverso.
«E tu continui a fingere»
«È che...» sbottò Lavinia d’impulso, ma perse subito le parole. Levi sollevò un sopracciglio, aspettando.
«Che non mi piace la birra» mormorò. L’uomo aggrottò la fronte, senza capire.
«Te ne sei ricordata adesso?».
Lei strinse le labbra, senza rispondere.
Andiamo, non ne hai bevuta di veramente buona. Ti porto io in un buon birrificio artigianale. Due birre per favore. A chi diavolo non piace la birra? Non si può mangiare una pizza senza birra. Fa troppo caldo per il vino. Ma smettila. Non fare la cretina. Acqua?! Ma che figure mi fai fare? Due birre, grazie.
Due birre. Due birre. Due birre.
Due birre.
Lavinia sorrise: «Torniamo dentro o Erwin mi manderà dietro qualcun altro».
Forse credeva di essere più lontana dalla porta o forse si voltò troppo in fretta, fatto sta che si scontrò con la pesante porta di legno colorato. Soffocò un gemito sorpreso misto ad una risata e si portò la mano sulla fronte.
«Non sono l’unico a ripetersi» sentì borbottare dietro di sé, prima che Levi la costrinse a voltarsi. Lavinia alzò gli occhi sul volto pulito dell’uomo. E molto vicino.
Sentì il sangue scaldarle le guance mentre respirò il suo odore.
«Scusa» mormorò, mentre lo sguardo di lui scivolò dalla fronte ai suoi occhi e si fissarono per qualche secondo. La sentì per la terza volta, quella tensione, dieci volte più potente delle precedenti.
«Piantala di scusarti. È irritante».
La voce di lui le sembrò calma come sempre, come se quella vicinanza non lo influenzasse, mentre lei si stava sentendo strana e debole. Il dorso della sua mano gli accarezzò le dita e Levi si irrigidì; tuttavia, ruotò appena il polso e si toccarono di più. Lavinia abbassò gli occhi sulle loro dita con il fiato corto mentre con l’indice tremante tracciava una linea sul palmo caldo di lui. Risalì sul suo viso, smarrita, e vi lesse lo stesso disorientamento: Levi si fece più vicino e le circondò il polso delicatamente, procedendo lungo l’avanbraccio, mentre anche l’altra mano di lei gli toccò il gomito, risalendo con dolcezza sul bicipite. Chissà quando e come, arrivò a sfiorarlo con la punta del naso e chiuse gli occhi, continuando a percepire la luce gialla del lampione dietro le palpebre. Sentiva tutti i suoi muscoli tendersi senza tuttavia muoversi di un millimetro, in un’attesa sospesa nel tempo, i secondi dilatati.
Qualcosa di morbido e umido le accarezzò labbro superiore e quella luce gialla si espanse in tutta la sua mente.
Poi, la sua vecchia suoneria vibrò dalla tasca dei pantaloni.

You took it all,
but I’m still breathing

Yayımlanan bölümlerin sonuna geldiniz.

⏰ Son güncelleme: May 02, 2023 ⏰

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