21. La leggenda di Celentano

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Una lucertola mi passò davanti, io rimasi fossilizzata mentre il Sole di luglio mi infuocava le spalle. Il motivo per il quale non riuscii ad avvicinarmi era che sentivo delle urla, urla maschili e forti, rozze. Non avevo mai sentito quella voce, era potente, cupa.

Nonostante la maggior parte delle frasi che fuoriuscivano da casa sua fossero in napoletano, in qualche modo riuscii a concepirne il significato: «Vedi di andartene a fare in culo, sei inutile qua dentro!»

La risposta di Elia fu chiara. «Ah, io sarei inutile? Qua dentro l'unico che non fa un cazzo sei tu! E, credimi, se non fosse per te io me ne sarei già andato via, già non mi avresti più davanti ai coglioni!»

«Pezzo di merda, tu mi devi portare rispetto!» L'uomo gridò più forte, facendomi sobbalzare. «Sono io che comando, non devi alzarmi la voce, quante volte te l'ho detto?»

Subito dopo, Simona intervenne con tono spaventato: «Giovà, lascialo stare, ti prego! Lascialo!»

Intravidi Elia scendere rapidamente le scale che portavano in giardino, il volto basso e la maglietta sgualcita sul colletto. I miei occhi corsero di nuovo all'uscio della porta di casa sua, dove c'era un uomo alto, massiccio e con la barba, che veniva tirato indietro da Simona — con le guance rosse e gli occhi acquosi —.

«Sei solo un figlio ingrato!», urlò in napoletano, «Ingrato e pure stronzo t'aggio fatto!»

Elia gli rispose, ancora, «So' pur sempre tuo figlio, dovevo prenderla qualche cosa da te!»

Giovanni, il padre di Elia, fece per raggiungerlo, ma Simona lo afferrò da dietro, minuta ma forte, e urlò al figlio: «Elì, vattene, per favore!»

Solo a quel punto Elia aprì il cancello e lo sbattette alle sue spalle con un'imprecazione. Due secondi dopo, Simona serrò anche il portone e il silenzio della campagna invase nuovamente ogni anfratto.

Istintivamente, non riuscii più a staccargli gli occhi di dosso. Elia afferrò il pacchetto di sigarette, ne prese una con rabbia e se la ficcò tra le labbra. Provò ad accendersela, ma l'accendino non dava la scintilla che permetteva al mozzicone di prendere fuoco. «Vaffanculo», sbottò, lanciando sul tratturo polveroso sia la sigaretta sia l'accendino.

Con un sospiro rumoroso e nervoso fece recedere il capo all'indietro, portandosi le dita sull'attaccatura del naso. Senza rendermene conto avevo preso a camminare verso di lui, mi chinai a raccogliere ciò che aveva lanciato e li pulii.

«Tieni.» Mormorai, delicata, avvicinandogli gli oggetti sul mio palmo della mano.

Elia abbassò il viso confuso, si rese conto fossi io e ritornò nella mia stessa dimensione, era di nuovo in sé. Ma la confusione dal suo volto passò al mio. Il suo sguardo si incupì quando capì il motivo per cui lo stessi osservando in quella maniera così preoccupata, gli occhi mi pizzicavano.

«Merda.» Si voltò e andò verso il motorino per guardarsi allo specchietto. Tastò il livido violaceo e che non prometteva affatto bene sullo zigomo, indurì la mascella facendomi capire gli facesse male e non poco. E, infine, si asciugò il sangue che perdeva sia dal naso, sia dal labbro, «Pezzo di merda, che pezzo di merda.» Bofonchiò, tra sé e sé, sperando che suo padre potesse sentirlo in qualche modo.

«Elia–»

«Non è niente, andiamocene.»

Mi ignorò.

Non ignorarmi, bastardo.

«Elia, ascolt–»

«Passerà.»

Con un passo mi avvicinai e, senza che lui potesse prevenirlo, gli presi il mento tra le dita e lo portai a guardarmi. Elia spirò, rilassò le spalle e i suoi occhi si persero nei miei. Gli accarezzai la guancia con il pollice, inducendolo a sciogliersi e tranquillizzarsi.

Alla ricerca dell'albaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora