4. Le tipologie variopinte del silenzio

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Uscita dal cancello della Villa, quando cominciai a spingere i piedi sui pedali sentii il vento appropriarsi dei miei capelli. Il rumore delle civette andava a braccetto con il fischiettare dei grilli distesi per la zona.

Pedalai a fondo, riscoprii terreni incolti e zone in cui il Sole aveva bruciato l'erba. Pedalai fino a vedere l'altra sponda della collina, fino a correre in parallelo al mare, fino a sfiorare il cielo con un dito.

Rallentai, invece, quando il mio sguardo catturò nelle vicinanze un campo sportivo. Al suo interno si muovevano dei corpi, spalle assopite e schiene nude. Nell'esatto istante in cui le mie pupille si concentrano sulla palla da basket, le ruote della bicicletta cominciarono a venir meno.

«Maledizione...», bofonchiai, scendendo dalla sella e chinandomi a scoprire quale fosse il problema. Sbuffai quando vidi la radice di un cespuglio che tranciava e bucava la ruota della bici. Strinsi le labbra.

Fissai ancora il campo e, per un assurdo motivo, per impulsività improvvisa, decisi di andarci incontro. Che sia maledetta la noia fomentata dalla curiosità.

Oramai accanto all'alta recinzione di ferro arrugginito, lasciai scorrere le mie iridi su quelle persone. Erano ragazzi. Forse della mia età, chi di più, chi di meno.

«E che miserij! Ste, vott' 'sta pall!» Gridò uno.

La mia scarsa conoscenza, o per meglio dire nulla, del napoletano mi fece intuire si stesse riferendo al pallone che un ragazzo stringeva come se fosse un bambino e saltellava come se qualcuno gli avesse dato un calcio dritto nel didietro.

Ci furono altri commenti che, per chi non sapeva assolutamente nulla su quel dialetto, parevano urla demoniache e minacce di morte. E potevano sembrarlo davvero, tant'è che un ragazzo fece per avvicinarsi pericolosamente ad un altro. Ero sicura stessero per malmenarsi, almeno non fin quando un altro si mise in mezzo.

«Se vi azzardate ad alzà le mani come l'altra volta, giuro che vi ficco i coglioni in gola.»

Delicato.

Sapevo chi fosse. Non mi stupii di riconoscerlo. Ricci, pelle abbronzata, spalle grandi. Elia. Era come se in qualche modo il mio subconscio sperasse che ci fosse lui, che lo trovassi lì dentro.

Qualcosa mi aveva guidato in quel campo.

«Basta così, partita interrotta!» Esordì un altro ragazzo palestrato e biondo. Sbattette le mani due volte e fischiettò, «Tutti a casa! La birra non ve la siete meritata.»

Con un lamento all'unisono i ragazzi in campo si dilagarono ai lati opposti del campo. Sedute per terra, sulla sabbia giallastra, vi erano delle ragazze. Chiacchieravano fra loro, ridevano.

Notai che una di loro passò una bottiglia d'acqua ed Elia. Quest'ultimo la ringraziò e continuò a parlare con il ragazzo biondo. Non mi sfuggì, però, il fatto che la ragazza non avesse smesso di guardarlo.

Elia posò la bottiglietta di plastica per terra, tenendola dal tappo, fece per voltarsi dall'altro lato, ma non fu così. I suoi occhi ricevettero la mia figura nascosta, la fronte leggermente corrucciata e gli occhi a cercare i miei.

A mia grande sorpresa, quando lo fecero, quando mi trovarono, io non scappai. Lui accennò un sorriso, forse un po' stranito e dell'aria incuriosita; alzò una mano, facendomi il gesto di raggiungerlo. Ma io negai, dopo aver ricambiato il sorriso, allora lui mi disse di aspettarlo, sempre con la mano, "ferma" parve dirmi, come se, se avesse distolto lo sguardo, sarei scomparsa.

Alla ricerca dell'albaWhere stories live. Discover now