3. Gelati indesiderati

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Pagai e, con un sacchetto stretto alla mano, ci dirigemmo nuovamente nella bolla calda che avvolgeva l'isola. «Riusciamo a prenderlo il gelato?»

Io controllai il resto e sospirai, «No, Filo, mi spiace...» S'imbronciò, le accarezzai i ricciolini biondi e le afferrai la mano promettendole che glielo avrei preso una prossima volta. «Che dici? Ce lo facciamo un giretto?»

Filomena annuì, nonostante la tristezza di un gelato mancato. Provai a tirarle su il morale raccontandole di quanti dolci potevamo fare con le fragole cadute dai cespugli per il vento, di quanti muffin avremo potuto decorare con la panna spray comprata. Ma niente, non demordeva. Era normale, era piccola e voleva il gelato, chi non lo vorrebbe?

Seguii la strada traballante per via della morfologia delle pietre color pece, i motorini ci sobbalzavano sopra quando ci passavano. Dopo una discesa ripida sfociammo in uno spiazzale colorato: gelaterie, bar, negozi di alimentari, di souvenir, antiquariato, parrucchieri e quant'altro. Il vero centro popolano, quello storico. Si capiva l'antichità di quel borgo dal marciapiede mangiato, da una fontana rosicata dal muschio verde, da un affresco che ritraeva delle donne nel quotidiano e dalle due chiese che si susseguivano a vicenda.

Anche Filomena si perse nell'osservare tutta quella storia sui muri. A volte i posti, i luoghi raccontano più di quanto siamo capaci di vedere o percepire, basta concentrarsi sugli spigoli dei palazzi e sugli anziani sulle panchine per poterne leggere la propria.

Un altro paio di metri, altri paio di ristorantini e bar, e ci trovammo in un ennesimo spiazzale. Davanti ai nostri occhi la figura mastodontica e dominante del Castello Aragonese. Non l'avevo mai visto da così vicino, mi spaventai in un certo senso. Dopo, lo spavento si mutò in meraviglia.

Il pontile di pietra che ne raggiungeva l'entrata straripava di gente, turisti e ragazzi. Un altro pontile, sempre di pietra ma di un colore più chiaro, grigiastro, da dove provenivano schiamazzi e risate. Ad esso, da un lato, erano attaccati dei pescherecci, dall'altro gruppi di ragazzi si lanciavano a capofitto nel mare, stupendosi a vicenda sulla capacità di tuffarsi nelle maniere più impressionanti e ridicole.

Un gruppo di ragazzi ululava saluti nella direzione opposta, spostai lo sguardo sul diretto interessato. Quando notai chi fosse ingoiai il respiro, «Non può essere vero.» Solo all'ora Filo girò il volto verso di me, perplessa.

Elia, con i suoi impeccabili ricci neri e il suo sorriso sereno, si allontanava dalla marmaglia ancora con il costume grondante d'acqua, una canottiera pregna di salsedine stretta in una mano e un paio di occhiali da sole a cadere sul naso piccolo e dritto. Manco a farlo apposta, lui mi vide.

Gli si allargò il labbro verso l'alto, mi indicò divertito e cominciò a venirmi incontro correndo piano.

«Oh mio Dio, andiamocene. Adesso.» Con gli occhi sgranati mi tirai dietro Filomena che per starmi al passo dovette correre un pochino.

«Ma io volevo vedere i pesciolini...»

«Non oggi, Filo, non oggi!»

«Isabe'!»

Mi fermai di nuovo e strinsi un'imprecazione tra i denti. Le cose erano due: o ero sfortunata io, o era lui a perseguitarmi. Anche se, in ogni caso, pareva fossi io a perseguitare lui.

Presi coraggio per girarmi, con lui a pochi passi da me e la mano di Filo a impedirmi di avere un attacco di nervi davanti a lui. «Ti giuro, non ti sto seguendo.»

Elia si portò gli occhiali tra i capelli, svelando la brillantezza delle sue iridi verde chiaro: «Ma stai scappando da me, a quanto pare.»

Boccheggiai. Cazzo. «Cosa?» Mi uscì una voce eccessivamente stridula. Bene, ora ha capito che sto fingendo. «Macché... no!» Risi nervosa.

Alla ricerca dell'albaWhere stories live. Discover now