Amelia e Marco

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Amelia era nel suo studio, guardò il quadro appena terminato e non capiva perché aveva dipinto, di nuovo, una donna dai lunghi capelli castani che indossava un abito azzurro, quando in realtà doveva dipingere un paesaggio marino.
Guardò il quadro e scosse la testa, strinse le labbra e pensò che non sapeva proprio cosa le stava succedendo.
Si erano trasferiti ormai da un mese nel paesino ed era passata una settimana da quando erano stati in spiaggia. Da quel pomeriggio in lei era cambiato qualcosa, come se attendesse un evento che si doveva compiere.
Tentò di non pensare al passato, di non ricordare. Non ne aveva parlato a Marco che per rassicurarla sapeva già cosa le avrebbe detto: amore, non temere, qui non ci troverà mai.
Prese il quadro dal cavalletto e lo ripose insieme agli altri, li coprì con un foulard colorato. Pose sul cavalletto una tela bianca, ma a quel punto i ricordi si fecero prepotenti e non potè fare a meno di seguirli e inseguirli.
Il profumo dei gelsomini portati dalla brezza primaverile entrarono dalla finestra.

Questa volta era stata più veloce e quando si era resa conto che la situazione stava precipitando era scappata nello studio chiudendo a chiave. Aveva passato una notte insonne; stesa sul divano, guardava il soffitto e rifletteva sulla decisione che aveva preso perché era consapevole che Claudio non l’avrebbe mai lasciata andare. Erano mesi che stava preparando la fuga e ormai mancava poco, veramente poco.
Sentì la maniglia della porta muoversi, scattò in piedi, aveva i sensi all'erta. La maniglia si fermò, ma solo per un momento, poi ricominciò a muoversi con insistenza e furiosamente, si fermò nuovamente come se riflettesse sul da farsi. Amelia non riusciva a spostare lo sguardo dalla porta, ne era come ipnotizzata. Claudio bussò leggermente:
«Amelia, per favore, apri la porta.»
La sua voce era calma e bassa, questo voleva dire che per il momento la sua furia si era calmata, ma lei non si fidava e pregava sottovoce:
«Ti prego, fa che si arrenda e se ne vada. Ti prego fa che sparisca e io sia libera.»
«Amelia, apri per favore, ti chiedo scusa,» la sua voce era affranta, «ho preparato la colazione, ti aspetto in cucina.»
Dopo qualche minuto si sentirono i suoi passi allontanarsi.
Amelia aprì la porta scorrevole dell'armadio a muro e per l'ennesima volta si sincerò che nel borsone ci fosse tutto: documenti, soldi, abiti e il biglietto aereo che voleva dire libertà.
Mise la mano sulla maniglia, immise aria nei polmoni come quando si andava in apnea, un modo per farsi forza e coraggio. Aprì, infilò la chiave nei Jeans e percorse il corridoio piano e con fare circospetto.
Entrò in cucina. Claudio era ai fornelli; era di spalle e non si era accorto della sua presenza, si chiese come avesse potuto sbagliare così tanto nella valutazione di quella persona.
All'inizio era dolce e gentile, l'uomo ideale, e poi piano piano era caduta in un girone infernale. Piccoli screzi che potevano accadere tra innamorati, ma poi si erano trasformati in furiosi litigi, una gelosia che era diventata possessione. Con grande capacità persuasiva aveva allontanato amici e parenti, senza che Amelia se ne rendesse conto, l'aveva intrappolata in una relazione malata. Poi si era passati a piccoli incidenti, dopo un battibecco Claudio, per esempio, aveva aperto l'anta dell'armadio che le colpì il viso, mentre litigavano gesticolando la schiaffeggiò, ma presto passò a farlo apertamente. Lo aveva lasciato più volte e lui era tornato chiedendole perdono, gli aveva creduto, purtroppo, perché sembrava sinceramente pentito; era abile e riusciva a fare sempre leva su quella parte dolce e gentile di cui si era innamorata, che in realtà non esisteva.
Quando Claudio si sentiva di nuovo sicuro, ripeteva lo stesso copione, ma nell'ultimo anno la situazione era andata peggiorando. Amelia si sentiva in pericolo, aveva capito che non sarebbe mai riuscita a liberarsi di lui e allora aveva deciso di scomparire e cambiare vita.
L'indomani lui sarebbe andato a lavoro, lei aveva un aereo che l'avrebbe portata verso una nuova vita.

«Amelia?...  Amelia!»
Fece un salto dalla paura e appoggiò le mani sul petto, vide Marco che la guardava preoccupato.
«Oh! Marco, mi hai spaventata.»
«Sei tu che spaventi me,» le sistemò una ciocca ribelle dietro l'orecchio, «ho bussato e non mi hai risposto, sono entrato, mi sono avvicinato e avevi lo sguardo assente e non rispondevi. Stai bene?»
«Sì, tutto bene,» gli sorrise per rassicurarlo, «scusa, ero concentrata nei miei pensieri e non ti ho sentito.»
«Vedo,» indicò il quadro, «che nonostante tu non abbia mai visto la torre l'hai dipinta.»
Amelia sbiancò guardando la tela, non credeva ai suoi occhi:
«Io... non capisco, io...»
«Tesoro, stai bene?»
Amelia si morse le labbra, non poteva confessare che non ricordava di aver dipinto la torre.
«Sì, sto bene,» lo rassicurò, guardò la tela e pensò che doveva capire quello che le stava succedendo.
«Bella vero?» Mentre lo diceva, si pulì le mani sporche di colore e nascose il leggero tremito che si era impossessato di loro, gli domandò con finta indifferenza, «mi sembra che mi stavi raccontando la leggenda della torre, qualche giorno fa.»
«Come mai ora sei interessata?»
«Visto che la dipingo,» indicò la tela, «penso sia giusto sapere qualcosa di più, curiosità!»
Marco la guardò negli occhi cercando di capire cosa nascondesse la sua ragazza, ormai la conosceva bene per capire quando qualcosa non andava.

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