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"Amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso."

Franz Kafta

Il mio sguardo era ancorato alla sua figura monumentale stravaccata sul suo soffice letto dalle coperte plumbee

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Il mio sguardo era ancorato alla sua figura monumentale stravaccata sul suo soffice letto dalle coperte plumbee. Era sbracato comodamente accanto alla mia presenza inerme ed esausta per le vicissitudini accadute giusto poco tempo prima. La mia mente era nebulosa, sfocata e privata della capacità di comprendere qualcosa, specialmente con Orias al mio fianco, con il suo solito aspetto imponente, i suoi occhi sanguigni, il colore del mio sangue scarlatto che poco prima aveva assaporato, facendomi provare sensazioni paradisiache, inebrianti e rendendomi dipendente da quel nostro momento di intimità. Il suo sguardo era perso nel vuoto delle tenebre della sua tetra camera da letto. Pochi istanti dopo, i suoi occhi contorti vacillarono verso la mia faccia spossata e priva di energie, che lo faceva palesemente intuire a Orias, che subito dopo mi guardò compiaciuto. Un sorrisetto fiero si propagò sul suo volto diafano e un po' sfiancato. I nostri sguardi erano come sigillati. Non riuscivo a guardare altrove in questo momento.

Si distese su un fianco, facendo in modo di guardarmi nel mentre. Appoggiò la sua testa sul palmo della mano e disse con tono orgoglioso: «Sei stata brava, essendo la prima volta hai soddisfatto pienamente le mie aspettative».
Lo guardai sbilenca e lui rise, vedendo la mia reazione.

«Se per te uccidere significa essere bravi, allora sì, lo sono stata». Mi detestavo e lo resi ovvio. Avevo una voce che faceva percepire quanto fossi stremata. Orias mi guardò attentamente e la sua mano libera si avvicinò alla mia chioma ramata, accarezzandola con delicatezza.

«Non hai fatto nulla di cui pentirti, Armony», mi disse, con tono rigido. Lo guardai traboccante di confusione, e dissi: «Allora perché mi sento sprofondare lentamente?».
Lui mi guardò afflitto, dalle mie parole di disperazione e confusione.

«Potrà sembrare crudele ma purtroppo è normale, anzi, è segno che ritornerai più forte di prima», spiegò, come se già avesse sperimentato in prima persona quella sensazione straziante di sprofondare e non sapere se si riuscirà a ritornare.

«Quell'Iper... ti avrebbe uccisa quel giorno, Armony... senza esitazione», mi ricordò, con voce flebile, come se avesse impressa nella sua mente buia e senza la minima luce un'immagine di quella creatura che mi uccideva, lentamente e bevendo il mio sangue.

«Quindi, non dovresti crogiolarti per un simile essere», mi fece la predica, con tono severo, mentre, intanto le sue carezze sui miei capelli trasmettevano sensazioni confortevoli e mi facevano sentire... protetta, in un certo senso.
Lui aveva detto che mi avrebbe protetta, e sarebbe stato al mio fianco, ma che avrei dovuto saper difendermi anche da sola, sia dalle creature demoniache e fatate, sia da lui. La sua mente era troppo intricata per capirci qualcosa, più cercavo di capire i suoi ragionamenti più mi ponevo altre domande, a cui non avrei potuto dare una risposta.

Avevo ucciso...
Oggi avevo ucciso la mia prima creatura demoniaca. Io stessa. Questa uccisione era solo l'inizio, e lo sapevo, molto bene, ma speravo inutilmente di non dover più fare nulla di simile. Mai più. Anche se sapevo che non sarebbe stata una cosa possibile. Mi sentii gli occhi umidi e mi resi conto che delle lacrime salate erano ormai presenti sul mio volto angustiato. Lo sguardo di Orias era fisso sul mio sguardo mentre mi guardava piangere, continuando ad accarezzarmi i capelli mossi e ramati, che in quel momento erano indecentemente scomposti.

«Non sono mai stato bravo a consolare qualcuno...», mi confidò, con tono sincero.

«...E nemmeno mi è mai interessato diventarlo...», continuò, con  franchezza e tormento.
«...Ma adesso mi pento di non aver imparato a consolare, perché non so cosa dire per farti stare meglio...». La sua voce velata di sincerità e schiettezza... era come se fosse in cerca di essere consolato anche lui, così sembrava.

Eravamo un casino io e Orias singolarmente, e insieme lo eravamo ancora di più. Tra un singhiozzo e l'altro, dissi: «Già solo la tua voce e la tua presenza mi consolano».
Era la verità, e nonostante lui era con tutti spregevole, senza sentimenti e privo di dimostranze di possedere un cuore, con me era... diverso. In parte era migliore.

«La tua mano che mi accarezza delicatamente i capelli... mi conforta», continuai. Guardai accennando un lieve sorriso il volto spento e cupo di Orias, che sentendo le mie parole, mostrò un flebile sorriso di stupore.

«Grazie...», mormorò, con tono traboccante di confusione. Cercai di alzarmi e mettermi seduta sul letto, ma appena provai, caddi all'indietro, tornando a com'ero stesa prima. Ero priva di energie, mi sentivo svuotava...
come un guscio vuoto. Scarica come un telefono all'uno percento. Ciò mi faceva disperare.

Orias lo notò e disse: «Mi dispiace, è colpa mia se adesso sei in questo stato...». Lo guardai sbilenca, non mi dispiaceva quello che aveva fatto, non doveva farsene una colpa.

«No, non lo è. Mi è piaciuto, non è colpa tua. Sono solo stanca», affermai. Lui mi scrutò sbigottito.

«Vado a farti preparare il pranzo».
Si alzò dal letto, interrompendo le beate e rilassanti carezze che mi stava facendo. Si avvicinò alla porta, schioccò come sempre le dita, facendo spalancare la porta. Camminò oltrepassandola, e si voltò verso di me obliquo, e domandò: «Risotto di lacrime di unicorno, giusto?». Fece un lieve sorrisetto paradisiaco per i miei occhi e io annuii alla sua domanda. Schioccò le dita e la porta si richiuse, impedendomi di vedere la sua figura monumentale.

Dopo trenta minuti, all'incirca, tornò in camera da letto, mentre io mi ero messa a fissare il soffitto scuro e tenebroso, rivedendoci un po' Orias, in quelle tenebre. Ormai in qualsiasi cosa ci rivedevo lui. Notai Orias avvicinarsi al letto a baldacchino, con in una mano due libri, uno nero e l'altro di un bianco ingiallito.
Nell'altra mano, vi era il risotto di lacrime di unicorno, che appena i miei occhi notarono fecero i salti di gioia, perché ero affamata.

«Sembra che non metti qualcosa sotto i denti da giorni con quello sguardo», mi prese in giro, ironico. Lo guardai sbilenca, ridacchiando e risposi ironicamente: «Be', la sensazione è quella».

Lui mi guardò, e accennò un sorrisetto malizioso.
«Bastava dirlo prima, ti avrei permesso di divorare me», ammiccò, facendo l'occhiolino, al ché lo guardai sbigottita e feci una smorfia.

«Passami il piatto, o potrei prenderla in considerazione come opzione, solamente che ti mangerei in modo diverso da quello di tuo gradimento», lo minacciai, la fame parlava al mio posto. Ridacchiò divertito con leggerezza e quelle risate coinvolgenti mi ammaliarono vista, udito e il battito del mio cuore divenne irragionevole.

Kiss or DeathWhere stories live. Discover now