Capitolo Nove - Una triste illusione

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Neel(s)

📍Roma, Italia

«You American? I speak English, dieci euro, ten euros», scandì bene le parole l'uomo di mezza età all'altro lato del bancone di marmo infarinato, sul quale batteva la sua grossa pancia avente quasi le sembianze di un'anguria. Il gesto di dieci dita alzate fu accompagnato dall'improvvisazione di una pessima pronuncia inglese, che fece scoppiare a ridere qual paio di bambini (presunsi fossero i suoi nipoti) che giocavano al "lancio olimpionico di pugni di farina addosso". Sebbene nei miei viaggi cercassi di mascherare l'accento e di vestirmi nel modo più nazionale possibile, che io fossi americano era evidente come una macchia d'olio motore su un vestito bianco.

Infilai le dita fra le tasche del mio portafoglio color cammello, afferrando una banconota europea rossa fra alcune verdi del mio paese. Gliela porsi all'uomo, che all'istante mi regalò un sorriso affettuoso e accogliente, così come il locale di cui era proprietario. Sulla parete frontale giacevano pericolosamente in equilibrio un paio di pale e arnesi che, per mano di un ragazzo più giovane, facevano entra ed esci dal grosso forno a legna che impegnava per metà il muro. Accanto era presente una piattaforma costellata di ciotole contenenti una vastità di condimenti quali salumi, formaggi e verdure. Ad occuparsene vi era una donna ugualmente paffuta e anziana dai capelli corti ramati, sul quale anulare campeggiava una fede identica a quella dell'uomo.

L'ultimo dettaglio che catturò i miei occhi fu la cornice di una foto di famiglia - posta accanto la piccola cassa elettronica - che incarnava alla perfezione il tipico concetto indissolubile di famiglia degli italiani.

I due cartoni furono posti tra le mani dei tre bambini, che in un attimo fecero il giro del banco, porgendoli a me. Mi chinai sulle ginocchia per ringraziarli con un tocco sulla guancia, poi uscii.

La frescura dicembrina della serata mi colpì fin dentro il cappotto, complice il calore a cui il mio corpo si era abituato all'interno del locale. Mi sforzai di muovere le chiappe, compiendo una serie di ampie falcate che mi permisero di tornare al Colosseo in pochi istanti. Sollevai il polso, scorgendo le lancette argento scorrere fluide sul quadrante: erano passati tredici minuti e cinquanta. La maniacale precisione mi martellava i neuroni, sui quali saltellava un fastidioso presentimento che lei se ne fosse andata. Era plausibile, dato che fossi in ritardo.

Tuttavia, quando i miei occhi lasciarono il polso, la vidi. Lei era lì, seduta di spalle sulla stessa panchina su cui l'avevo lasciata quattordici minuti prima. Avevo scelto di percorrere una strada diversa a quella di andata, correndo il rischio di perdermi nel bel mezzo della capitale, per di più con una bella donna ad aspettarmi sotto il Colosseo. Ma le sorprese erano l'arma numero uno di Neel Wayne.

«Ta-da!» Flessi le braccia nella sua direzione, con un sorriso che proruppe sul mio volto senza il mio controllo.

«Mi hai... comprato una pizza?» Le pupille profonde si dilatavano, occupando sempre più spazio nel verde olivastro delle sue iridi, scurite dalla scarsa luce dell'ambiente circostante.

Sentii il sangue congelarsi all'interno dei vasi, non riuscendo a decifrare la sua reazione. Quella donna era più difficile di un cubo di Rubik: compievo una mossa, ma non sapevo a cosa avrebbe portato. Avrebbe potuto risolvere una faccia, o magari l'avrebbe irrimediabilmente scombinata, costringendomi a ricominciare da capo.

«Mi sposi, signor passeggero».

«C-come?» Balbettai.

«Ti metto l'anello», le sue parole cariche di felicità mi intimarono di prendere posto al suo fianco, «un uomo che ti sorprende con la pizza? Decisamente da accalappiare».

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