E poi, un giorno...

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«Quindi io attiro la sfiga» mi sono lamentata, più concentrata sulle patatine che su di lei; me ne ha schiaffata via una – attirando un pericoloso numero di pennuti. «Pensaci un attimo. Sette miliardi di persone e lui ha incontrato quelle giuste nel posto giusto.»

«Non sa ancora se sono quelle giuste. Si sono appena conosciuti.»

«Quante probabilità c'erano che incontrasse sul posto di lavoro un bassista e un chitarrista della sua età, entrambi amanti dello stesso genere musicale e disposti a fondare un gruppo? Ammettilo, perché ti fa così paura? Non capisco perché per tutti sia così impensabile che la mente umana sia in grado di fare questo. È scienza, è fisica quantistica! Allora dovrebbe essere ridicolo anche un ammasso di ferraglia che sorvola il cielo con delle persone a bordo, la fotosintesi clorofilliana, il sistema immunitario...»

«Li ha incontrati sul posto di lavoro perché è lì che va tutti i giorni! Le probabilità erano piuttosto alte.»

«Ma quelle persone potevano, che ne so... amare la pesca, la palestra o i videogiochi! E invece no. La musica. Quella musica. Perché non il metal o il rap?»

«Cosa mi fa paura?» Stavo ancora pensando a quello che aveva detto prima. Quando qualcuno mi accusa di aver paura mi sento punta nel vivo, e non posso far a meno di sentirmi infastidita. Voglio dire, sono cose tra me e me stessa, gli altri non dovrebbero ficcarci il naso.

«Ammettere che siamo noi ad attirarci le situazioni. Che le cose possano dipendere da noi. Il pensiero è la nostra arma più potente, è il vero motore di ogni cosa.»

Non me l'ero sentita di continuare la conversazione, e lei ha lasciato perdere. Per un momento avevo percepito qualcosa di terribile, la stessa sensazione che si proverebbe, credo, camminando rasenti la parete di una montagna rocciosa che sta per crollarti addosso, di cui senti già gli scricchiolii. Avevo capito in fretta che Nora sapeva essere irritante e speciale allo stesso tempo, con tutto quel suo fatalismo. Per lei nemmeno il pennuto che defeca sulla tua spalla il giorno della tua laurea è un caso. Dopo mezz'ora – ed è questo il bello tra noi – tutto era tornato come prima e si è messa a descrivermi per filo e per segno come raggiungere la festa, che si terrà a Venezia. L'idea mi piace e mi spaventa allo stesso tempo. In questa settimana mi sono calata in una bolla di tranquillità contenente me, l'università, casa mia e Nora.

Ogni tanto fisso Nora di nascosto. Mi sforzo di ricordare un momento in cui l'ho vista parlare con qualcuno. Non riesco a ricordarlo. Mi faccio venire in mente qualche ricordo, mi immagino persino una scena in cui lei paga il conto o si scontra con qualcuno e chiede scusa, ma alla fine mi sembra tutta immaginazione, una patetica illusione autosuggestionata.

Un vago batticuore mi fa tornare al presente. Il mio sguardo si è soffermato sul vetro della finestra di camera mia e cerca di mettere a fuoco qualcosa. È il riflesso di un viso. È Jonah, nel parcheggio. Sembra molto arrabbiato. Sta litigando al cellulare, camminando avanti e indietro. Il bagagliaio della Punto verde bottiglia è spalancato e dentro c'è un grande zaino da campeggio. C'è anche una borsa frigo.

Jonah ficca il telefono in tasca, si accede una sigaretta e si siede sconsolato su una panchina.

Continuo le mie pulizie, negando a me stessa l'evidenza; lo tengo d'occhio, lo scruto. Se ne sta lì a guardare il cielo con la terza sigaretta tra le labbra. Provo un irresistibile, spaventoso impulso.

Decido di andare a fare una passeggiata. Magari prendo le altre scarpe ed esco dal garage, pazienza se si affaccia sul prato.

Passo davanti a Jonah, a qualche metro di distanza. Sento che mi fissa, ma non dice nulla.

«Ciao.» Dico, distratta.

«E io che pensavo mi stessi ignorando.»

Mi fermo, mi affiora un mezzo sorriso sulle labbra. «Mi stavi spiando come al tuo solito?»

La voce del buioWhere stories live. Discover now