À quatre mains

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«Devi essere pazzo per presentarti davanti a me.»
Non era la prima volta che sentivo lo chef Durand rivolgersi a qualcuno con quel tono altezzoso, ma mi sorprese sentirglielo fare a servizio ultimato, quando nelle cucine ero rimasto soltanto io a demolire lentamente la gran pila di pentole. Non era una mia abitudine ficcanasare, anzi; ma la straordinarietà della situazione mi portò ad abbandonare il mio angolo della plonge per poter vedere l'ingresso sul retro.
Quell'ingresso dava su una piccola area con una stradina asfaltata che correva tra la recinzione del resort che ci ospitava e la proprietà del casinò adiacente, uno spazio sufficiente per far passare i furgoni dei rifornimenti e dei rifiuti, e utilizzato solo per questi due servizi. Il solo altro a usare quell'ingresso ero io: uno sguattero non aveva il diritto di mettere piede nella sala tra il damascato porpora delle pareti e le sedie imbottite. Secondo chef Durand in verità erano pochi i diritti di uno sguattero, che doveva soltanto sentirsi onorato di essere ammesso nella cucina di un ristorante di livello... come se lavare la padella sporca che ha cucinato un piatto da sessanta dollari fosse più gratificante di lavare quella che ha cucinato un pancake da dodici dollari alla tavola calda.
Vidi la porta dell'ufficio dello chef aperta in cima alla scala che correva sulla parete e lui in piedi sulle due porte spalancate, ma non riuscii a vedere nulla del suo interlocutore, neanche la sua ombra dato che era proiettata dalla luce della cucina verso l'esterno.
«Sapete di chi sono figlio. Mettetemi alla prova se il mio curriculum non basta, non ho paura delle sfide.»
«Perché mai dovrei? Anzi... perché tu sei venuto proprio qui?» fece lo chef, desideroso di tenere un tono basso ma troppo arrabbiato per riuscirci. «Ci sono centinaia di ristoranti stellati che al tuo nome sarebbero felici di stenderti un tappeto rosso. Perché proprio da me, sapendo che non desidero avere a che fare con la tua famiglia?»
«Perché, nonostante la vostra condotta, mio padre ammirava... ammira tutt'ora le vostre capacità. So che voi avete molto da insegnarmi e non risparmierete di farmi faticare.»
Chef Durand esitò e guardò una busta che teneva in mano, che aveva tutta l'aria di una lettera. Alzò gli occhi su di me e io ebbi la prontezza di afferrare subito una teglia da forno e portarla al mio angolo già ingombro senza incrociare lo sguardo. Sapevo comunque che mi avrebbe seguito con quel cipiglio di falco fino al lavandino, come faceva ogni volta che mi permettevo di uscire dal mio invisibile perimetro di competenza.
«Bene, spiegato questo, torniamo alla questione principale» aggiunse allora, con quel suo tono altezzoso da regnante assoluto che così tanto detestavo. «Perché dovrei tenerti a servizio da me? Non mi servono altri cuochi, e neanche sguatteri. Non c'è posto per te qui, vai da qualcun altro.»
Chef Durand chiuse una delle porte e ne seguì un tonfo che non mi seppi spiegare. Incapace di trattenermi mi sporsi di lato a guardare, strofinando la spugna sulla casseruola a caso solo perché il fino orecchio dello chef sentisse che stavo ancora lavorando.
Chiunque fosse il nostro visitatore inatteso era agguerrito e aveva bloccato la porta con il piede. Indossava mocassini scamosciati grigi, qualcosa che io personalmente non mi sarei mai sognato di comprare per me stesso. Fu quello il primo pensiero che ebbi allora e trovo divertente aggiungere che in questo preciso momento ne ho un paio marroni nell'armadio.
«So che uno della brigata se n'è appena andato, vuol dire che qualcuno vi manca» insistette l'uomo. «Non chiedo un contratto né un posto fisso. Prendetemi in prova, vi dimostrerò che merito un posto nella brigata!»
Confesso che ero incuriosito: dopo due anni nella brigata di Durand lo conoscevo bene e sapevo anche se nessuno osava replicargli se non dicendo "sì, Chef" o profondendosi in scuse. Non avevo mai sentito nessuno rispondergli e insistere così tanto: sarebbe stato come rispondere in faccia a un capo di stato maggiore e si rischiavano circa le stesse conseguenze.
«Le occasioni ricche non ti mancheranno, ma non qui.»
«Chef Durand, vi ostinate anche con queste mie promesse di impegno e dedizione a negarmi un'occasione? Nonostante ciò che dovete a mio padre?»
«Questa poi! Che cosa dovrei mai dovere a tuo padre?»
La voce rispose con una dose notevole di incredulità e astio.
«Come potete chiederlo? Non avete certo dimenticato Vienna!»
«Non...!»
Lo chef si interruppe bruscamente e mi ritirai dietro l'angolo appena in tempo. In due passi tuttavia raggiunse la plonge e mi fissò con un sorriso posticcio che non mi convinse neanche per un attimo. Come avrebbe potuto, dato che non mi aveva mai sorriso da quando ero arrivato?
«Basta così, sguattero, torna domattina a finire.»
«Ma Chef Durand, penso che sarebbe meglio...»
«Vai a casa. Ora.»
«Ah... sì, Chef.»
Ho detto che non avevo mai sentito nessuno ribattere a Chef Durand, ed ero incluso anch'io nella ciurma dei vigliacchi. All'epoca in realtà ero il principe dei vigliacchi, avevo troppo bisogno di quel lavoro infernale e ingrato per rischiare di perderlo per qualcosa di così sopravvalutato come l'orgoglio. Purtroppo non ebbi modo di intravedere l'uomo con cui lo chef salì nel suo ufficio e mi toccò andarmene con la coda tra le gambe e molte domande nella testa.
Chiaramente il giorno dopo mi presentai al lavoro con inedita aspettativa e morbosa curiosità; erano anni che non mi sentivo vivacemente incuriosito dai fatti degli altri. Smaltii tutto il lavoro che avevo lasciato in sospeso prima di prendermi una meritata tazza di caffè seduto fuori dalla porta di servizio, finché Leclaire non si affacciò per il solito rimprovero immeritato sulla mia pigrizia e mi intimò di scaricare il pesce quando il furgone arrivò. Non era una novità, ero uno sguattero e anche un garzone: parte del mio lavoro era pulire il pavimento della cucina, lavare le celle frigorifere quando lo chef disponeva, occuparmi dei rifiuti, scaricare i rifornimenti e portarli nella cella degli ingredienti e talvolta andare a recuperare qualcosa che mancava. Molto di rado mi veniva fatta la grande grazia di toccare gli ingredienti per aiutare a pelare patate o ripulire qualche ortaggio o frutto se i commis erano troppo occupati.
Caso volle che quella persona arrivasse mentre scaricavo enormi cassette di pesce semicoperto di ghiaccio tritato, e al mio terzo e ultimo viaggio nella cella lo notai immediatamente mentre seguiva Chef Malone, il braccio destro di Durand. Mi diede l'idea di un ragazzo giovane – avrei imparato solo più tardi che non era affatto giovane come mi era parso – con lunghi capelli castano scuro accuratamente pettinati in una coda bassa, un profilo dal naso dritto, la pelle scura di chi era stato due mesi alle Maldive e un paio di occhi vispi e attenti. Non lo conoscevo, non l'avevo mai visto, ma le poche parole che aveva avuto il coraggio di rivolgere allo chef Durand mi facevano sentire più bendisposto verso di lui che verso chiunque altro in quella cucina, anche se li conoscevo da molto più tempo.
«Chef Aguero è il nostro rôtissier, e responsabile delle portate di carne. Durante il servizio il nostro boucher Chef Porter gli fa da demi-chef de partie...»
Chef Malone era americano fino al midollo, nato e cresciuto in una piccola cittadina del Minnesota prima di studiare cucina, ma non usava mai una parola inglese se soltanto ne poteva usare una francese per dire la medesima cosa, il che ai miei occhi lo faceva sembrare snob ai limiti dell'inverosimile. Difficile scordarsi del mio primo giorno da sguattero, con lo chef Malone che mi bombardava di nomi francesi che non capivo con nessun intento se non mettermi a disagio.
La cosa però non turbava affatto lo sconosciuto ragazzo che annuiva con interesse e scorreva lo sguardo sul grosso pezzo di carne che il boucher – ossia, il macellaio – stava pulendo alla sua postazione.
"È ovvio che è un cuoco che ha fatto la scuola e tutto il resto", ricordo di aver pensato.
Fu allora che si voltò verso di me. Smise di camminare ignorando lo chef Malone che proseguiva e di riflesso mi fermai anch'io, senza parole per lo stupore: ero abituato a essere praticamente invisibile per chiunque indossasse un'uniforme da cuoco se non aveva da gridarmi contro qualche ordine. Che mi sorridesse mi sembrava fuori dal mondo.
«E lei? Poissonier?»
A malapena venivo notato, figurarsi se venivo mai scambiato per un cuoco. Diedi uno sguardo al vassoio del pesce, ma prima che potessi articolare mezzo suono vidi incombere il peggior incubo della mia vita in quella cucina: il saucier e poissonier in carica, il principe del regno, ossia Aurélien Leclaire. Era un giovanotto venticinquenne di bell'aspetto, alto, ambizioso, quasi insopportabile e quel che era ancora peggio, era il nipote di Durand.
«Se cerchi il poissonier sono io» fece lui, lisciandosi il grembiule immacolato. «Sono il saucier e il responsabile di tutte le portate di pesce di questa cucina. Aurélien Leclaire.»
«Oh, certo... la conosco, ho visto la sua presentazione al programma di Vicky York... un piatto presentato in modo eccellente, chef Leclaire. Sarei felice se potesse riprodurlo per me, tempo permettendo.»
Quel ragazzo aveva fegato da vendere, ai miei occhi era improponibile chiedere a uno chef come Durand o Leclaire di preparare un piatto per me... anche se di certo avrei avuto una diversa autostima se solo fossi stato qualificato almeno come cuoco anziché essere il lavapiatti del regno. Non mi potevo neanche classificare come il Cenerentolo: almeno lei nella fiaba era una vera nobile.
«Che diavolo fai lì impalato?» mi fece allora Leclaire, con uno sguardo truce. «Aspetti che il pesce vada a male qui fuori? Portalo in cella, Rain Man!»
«Sì, chef, mi scusi.»
Questa era la cosa più fastidiosa del lavoro al Liaison: chef May, responsabile dei contorni e delle portate vegetariane, all'inizio del mio ingaggio come sguattero mi trovava lento ai limiti del ritardo mentale e se ne uscì con un crudele nomignolo scaturito dal mio nome reale che secondo lui si adattava bene al mio ritardo. Infatti il mio nome è Efraim Manning, ma tutti mi chiamano Raim. Raim Manning. Capite che l'assonanza ha fatto molto del lavoro al posto di chef May, ma lui si vantava della sua geniale trovata come avesse introdotto una nuova specialità nel menu anziché aver appioppato un nomignolo a un collega, come un bambino delle elementari.
Ormai non avevo reazioni visibili a nomignoli e insulti, tuttavia guardando l'aria indispettita sul viso del nuovo arrivato mi sentii come rincuorato. Aveva tutta l'aria di essersi irritato per come ero stato trattato e ne ebbi conferma mentre trafficavo per aprire la cella con una mano sola.
«È vostra abitudine rivolgervi così al personale?»
«È solo il nostro plongeur. È un lavapentole e un fattorino, non cucina.»
«Pulisce i vostri strumenti. Vi mette in condizione di lavorare il più velocemente possibile e di non trovarvi a lavare per ore dopo un duro turno di servizio» insistette lo sconosciuto. «Avete forse dimenticato la gavetta che avete fatto? Avete dimenticato quanto sia importante questo ruolo?»
«Signor Micheaux» gli fece Leclaire con un gelo che mi era familiare. «Se davvero rimarrete con noi, vi consiglio di ricordare bene la gerarchia di questa cucina e comportarvi di conseguenza.»
«Sì, chef Leclaire, sarà fatto... ma sappia che ciò non mi impedirà di dire "grazie" e "per favore" a tutti.»
Parole come quelle erano senza precedenti nella cucina del Liaison e mi lasciarono sbalordito. Sbalordito ma anche felice: avere almeno una persona che mi trattasse da essere umano non avrebbe potuto farmi che bene e mi trovai a sperare con tutte le forze che il giovane Micheaux restasse nella brigata prendendosi il posto lasciato vacante dalla partenza dello chef Basile.

LavandeWhere stories live. Discover now