Cap 1.

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Il rumore della macchina che monitorava le mie funzioni vitali rimbobava nelle mie orecchie, avrei voluto che qualcuno la facesse in mille pezzi, avrei voluto urlare Ei sono qui, non serve che contate quanti battiti fa questo fottuto cuore.

Lentamente aprii gli occhi, ma era come se qualcuno avesse costruito dei muri di plexiglass intorno a me, non riuscivo a mettere a fuoco la stanza in cui mi trovavo.

Cercai di ricordare, ma tutto mi sembrò confuso.

Ricordai il giallo, il giallo del carcere intorno a me, delle mani forti e possenti mi tenevano ferma, poi ci fu l'acqua e il buio.

Mi mancò il respiro per un tempo che mi sembrò l'eternità.

Poi altre mani mi portarono alla realtà, mi sottrasserò da quella tortura, c'erano delle urla ma non ero io, io avevo smesso di urlare.

Qualcuno piangeva, ma era un pianto senza lacrime, uno di quelli che ti entra dentro e ti lacera il cuore, quello di chi si arrende e dice addio.

il tintinnio mi riportò alla realtà e cercai di mettere a fuoco la stanza.

Ero sdraiata su un lettino, in una stanza bianca, c'era un separè che mi impediva di guardare oltre, cercai di alzarmi sui gomiti ma qualcosa non funzionò, le braccia non rispondevano ai miei comandi.

Iniziai ad agitarmi e la cara macchina al mio fianco andò in visibilio, non potevo muovermi.

Qualcuno venne in mio soccorso, un ragazzo con il camice rosa, cercò di tranquillizzarmi ma io avrei voluto dargli un pugno in faccia.

«Stia tranquilla signorina Ferreiro, va tutto bene»

Se solo le mie mani avessero collaborato «Che mi succede? Non riesco ad alzarmi»

«E' stata per diverse settimane in coma, è normale tutto questo»

Coma, a quella parola spalancai la bocca.

«Probabilmente non lo ricorda, ma c'è stato..» Si bloccò, quasi a voler trovare le parole più soft per giustificare il mio stato attuale «.. un incidente»

Cercai di ricordare e un viso era impresso nella mia mente, Akame.

Quella stronza asiatica con manie di grandezza.

«Le cinesi..» dissi, tra me e me.

Il ragazzo era visibilmente confuso «E' normale che dopo settimane vi siano delle contratture muscolari, sono dovute all'immobilità prolungata» iniziò a spiegarmi «Il recupero è lento e parziale, è normale che sia agitata, ora la dovremmo tenere in osservazione e fare alcuni esami, successivamente inizierà le sedute di fisioterapia e vedrà» mi sorrise «starà meglio».

Era gentile, ed io che volevo dargli un pugno in faccia 5 minuti fa.

Il ragazzo uscì dalla stanza e poco dopo tornò con una donna, era un medico e mi spiegò la situazione, sostanzialmente che ero confinata a letto per altre settimane e che se fossi stata fortunata forse sarei tornata a camminare in poco tempo.

Dopo aver cambiato le flebo si dileguarono e mi lasciarono da sola, con i miei pensieri.

Non ricordai molto, ma c'era la pioggia.

Il pensiero di tante goccioline che si infrangevano a terra, mi rilassò, e per la prima volta da chissà quanto tempo, respirai a pieni polmoni.

Pensai alle mie compagne di cella, chissà Riccia come stava.

Al suo pensiero, andai in tachicardia, prima che succedesse "l'incidente" alcune guardie l'avevano portata via insieme a Saray e ad altre detenute, erano impazziti, era stata la notte dei lunghi coltelli.

«Figli di puttana» sibilai a denti stretti.

Pensai a Zulema, lei c'era, lei era con me quando le cinesi vennero a prendermi, chissà se alla fine era riuscita a fuggire dalla morte una volta in più.

Sorrisi a quel pensiero.

Se qualcuno avesse dovuto uccidere Zulema Zahir, quella sarei stata io.

Amabili restiWhere stories live. Discover now