Anime dimenticate.

By SofiaCraia98

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[Completa] Matilde è criptica, solitaria. Esce poco e odia la confusione. Se ne sta spesso a guardare dalla f... More

Aesthetic.
Prologo.
Capitolo 1.
Capitolo 2.
Capitolo 4.
Capitolo 5.
Capitolo 6.
Capitolo 7.
Capitolo 8.
Capitolo 9.
Capitolo 10.
Capitolo 11.
Capitolo 12.
Capitolo 13.
Capitolo 14.
Capitolo 15.
Capitolo 16.
Capitolo 17.
Capitolo 18.
Capitolo 19.
Capitolo 20.
Seconda Parte.
Capitolo 21.
Capitolo 22.
Capitolo 23.
Capitolo 24.
Capitolo 25.
Capitolo 26.
Capitolo 27.
Capitolo 28.
Epilogo.
Ringraziamenti.

Capitolo 3.

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By SofiaCraia98

Le campane della chiesa suonavano a festa. Forti rimbombi di note acute si sparpagliarono per le strade del paese, ricolme di gente smaniosa, eccitata, nel preparare tavoli, posate, giochi a tema al solo scopo di divertire grandi e piccini. La musica celtica medievale iniziò a riempire l'aria di attesa, facendo tremare i sampietrini a ritmo delle note giocose. Ballavano anche le foglie larghe, spigolose, dei platani della via principale, la quale sfociava in una piazza piena di negozietti di artigianato e prodotti locali. Il panorama si stagliava sotto le mura della città, imponente ma allo stesso tempo ammaliante, da riuscire a fermare uomini e donne sull'enorme balcone in pietra, per godersi l'aria fresca, colorata da milioni di sfumature di azzurro. Si potevano osservare strade di campagna, macchine correre veloci sull'asfalto, come piccole formiche in cerca di un riparo, case in via di ristrutturazione. Fabbriche e industrie sbuffavano vapori scuri in lontananza, maestose costruzioni bianche da rovinare pianure incolte e alberi senza più radici; si perdevano a vista d'occhio come un errore di sistema. Sembrava di essere catapultati in un altro universo dove poter spiare dall'alto la vita scorrere sotto il naso, dimenticati dal resto del mondo.

Negli albori di una sera d'agosto, i raggi solari non ne volevano sapere di tramontare dietro le verdeggianti colline. Poco lontano, oltre le mura, dispersa tra la vegetazione, il frinire dei grilli e il garrire delle rondini, dalla finestra della casa in mattoni rossi si sentivano corde di violoncello vibrare, frementi di poter essere ascoltate da gente estranea.
Alberto ci sapeva fare con quello strumento, riusciva ad ammaliare anche il bambino più timido. La sua corporatura goffa e piena si ridimensionava tutte le volte che aveva tra le mani le quattro assi di legno lucide, ben curate dall'usura. Chiudeva gli occhi e si lasciava trasportare dalle note dell'archetto sempre in movimento, le dita si apprestavano leste come zampe di ragno a non sbagliare neanche un accordo.
A Matilde piaceva ascoltare suo padre, vederlo sorridere senza avere la solita espressione burbera e austera, la distraeva dalla costante paura di poter adirare la sua psiche, stanca delle persone irrispettose, del lavoro troppo opprimente da portargli via le forze.
Se ne stava seduta, sprofondata nel vecchio divano, coperto da un lenzuolo blu, a volteggiare con la mente nei ricordi e nel passato, al quale non le era mai permesso scavare nelle zone più recondite, seppellite dentro a un muro di cemento armato.

Un suono grave e frizzante al tempo stesso si amalgamava con l'eco festoso della cittadella. A ridestarli dal breve momento di pausa, in cui gli occhi ambrati di Matilde si imbatterono in quelli gioiosi di Alberto, un'entrata teatrale di Christian fece ridere di gusto il suo pancione gonfio, andando a ritmo di musica. Proveniva dalle scale a chiocciola in legno scuro, davano accesso alle camere da letto del piano superiore. Si era cambiato i vestiti nella stanza di Matilde, lasciandola completamente a soqquadro. Ormai era talmente abituato a stare con lei tra le piccole mura, da essere classificata come il suo rifugio preferito dove potersi nascondere dalla realtà. Lo scricchiolio delle scale si fermò di colpo appena i suoi piedi ancora scalzi si rinfrescarono col pavimento freddo del salone. Indossava una camicia larga di lino bianco e dei calzoni chiari a sbuffo fino a metà ginocchio, per poi assottigliarsi fino alle ossute caviglie.

«Che ve ne pare? Non sembro un trovatore, un cantante di gesta eroiche vero e proprio?» chiese sornione, facendo una piroetta e atterrando maldestramente sul posto, mentre le maniche ampie della camicia, gli rendevano le sottili braccia ancora più scheletriche. Dei lacci erano stati intrecciati a formare una spina di pesce in mezzo al petto, per nascondere lo sterno, ma la pelle rosea si divertiva a giocare a nascondino col candore di fili delicati.
«Non ti avvicini neanche lontanamente, Chri» ironizzò la ragazza, seduta a gambe incrociate sul divano. Le ossa e il menisco creavano curve soffici sotto la pelle chiara e si muovevano come ali di farfalla a ritmo di musica.
«La solita guastafeste, che ne sai tu?» alzò gli occhi al cielo e si avvicinò a lei con un inchino «Almeno mi conceda, mia signora, questo ballo prima della festa in paese?» domandò con voce più profonda e roca, da mimetizzarsi col suono del violoncello.

Alberto osservò con sguardo di sfida le larghe spalle del ragazzo, infastidito dallo strano atteggiamento nei confronti di sua figlia. Come tutti i padri era molto protettivo, ma anche se Matilde cercava di convincerlo, con un solo colpo d'occhio, a non essere messa in imbarazzo davanti a lui, alla fine le sue sopracciglia si addolcirono e mentre proferiva parole di tradimento, una nuvola di fumo uscì dalla sua bocca a causa della pipa, rimasta in bocca a penzolare da un lato tutto il tempo.
«Forza, Tilde, non vorrai far attendere il tuo cavaliere» una fragorosa risata riempì le mura vuote e antiche di una gioia apparente, quasi come se volesse prenderli in giro per la loro innocente ingenuità. Ormai era troppo vecchio per quel genere di cose e vedere sua figlia ballare con un uomo gli creò dei tuffi al cuore, ripensando ai ricordi di una moglie assente.
Dopo un cambio di musica più motivato e veloce, la minuta immagine, vestita già del completo regalatole dalla madre di Christian, per un giorno tanto speciale, si decise a prendere la mano del suo amico più fidato. Gliela strinse forte, come se avesse paura di poterla perdere e vederla svanire tra la cenere del tabacco, rimasto a bruciare nel legno, poggiato in mezzo alle labbra sottili di Alberto. La conosceva troppo bene, lei non declinava mai le sue richieste, anche se i suoi occhi sempre poco espressivi dicevano il contrario. Viveva in un mondo piatto, fatto di poche emozioni rimaste incastrate in qualche angolo del suo cervello e non avevano le forze per uscire allo scoperto.

La ragazza sospirò, si avvicinò al corpo alto e snello, le loro iridi si incontrarono, una annegò nell'oceano e nella sabbia dell'altra. Un concentrato di tempeste e mareggiate da far affogare anche le navi nell'oscurità perenne delle loro pupille.
«Non conosco i passi, non li ho mai imparati» gli disse con voce spaventata, tentatrice di rese e patteggiamenti.

«Se c'è una cosa che conosco bene di te è la tua spiccata intelligenza nel battermi in qualsiasi gioco, soprattutto negli scacchi. In battaglia saresti la regina più temuta in tutto l'impero» sghignazzò, mentre provava a portarla nel suo mondo, poggiandole con delicatezza una mano dietro le spalle e l'altra a unirsi al piccolo palmo sottile, latteo, di Matilde «Non penso che due passi di danza riescano a metterti in difficoltà» si avvicinò al suo orecchio, sfiorando i capelli scuri come la pece, da formare una nebulosa nera di ciocche sottili e ricce. Dei brividi lungo tutta la schiena, coperta solo da una stoffa leggera, fecero tremolare ogni cellula epiteliale. In controluce, si riuscivano a notare i peli chiari delle braccia alzarsi come microscopici steli d'erba durante le giornate ventose. «Fidati di me, andrà tutto bene. Sii la mia regina in mezzo a una partita di scacchi» concluse con un leggero sorriso tra le labbra, nascosto dal lucido manto di piume di corvo.

In un attimo, durato quasi un battito di ciglia, Matilde venne travolta da una strana sensazione alla quale non riusciva a dare un nome. Si sentiva protetta, al sicuro, mentre danzavano nel piccolo spiazzo della sala e sotto l'arco dell'entrata della cucina. In quel momento, la sua mente ebbe una specie di déjà-vu. Sapeva di aver fatto determinate azioni già una volta, ma non si ricordava quando. Si rivedeva felice, solare, con una risata contagiosa da riempire l'eco della stanza di felicità dimenticata.
Ballavano spensierati, immersi nei loro sguardi, pendendo dalle labbra l'uno dell'altra, due anime ritrovatesi dopo anni passati a guardarsi da dietro una parete di vetro. La veste leggiadra, piena di fiori bianchi su sfondo marroncino tendente al rame, volteggiò come il vento, solleticando le gambe toniche di Matilde. Corpo contro anima, sangue caldo da intrecciarsi con le arterie dell'altro, cuori palpitanti e respiri leggeri accompagnavano i passi a ritmo di piacevoli vibrati del violoncello.

Quell'istante fuggente, però, non durò a lungo, un colpo forte di tosse ridestò gli spiriti giovani rimasti intrappolati in un'epoca non loro. Ad Alberto era andato di traverso il fumo e le corde dello strumento iniziarono a gracchiare per poi fermarsi di colpo. La pipa cadde a terra con un tonfo sordo e tutto il tabacco si riversò sul pavimento piastrellato. La cenere bruciava ancora tra le fughe scure; dei piccoli lampi rossi si animavano come quando si cercava di spegnere il fuoco nel camino.
Gli occhi ambrati di Matilde si spalancarono nel vedere polvere incandescente, da sentire i polmoni richiedere sempre più aria. Le mancava il respiro, non aveva mai provato nulla di così forte, struggente. Le gambe le tremavano, ma la paura era mischiata a qualcos'altro di più macabro di un semplice terrore. Quel rosso acceso la istigava, la tentava, quasi da volersi ricoprire l'epidermide del calore perenne di deboli fiammelle.

«Tranquilli, ragazzi, mi è andato solo il fumo di traverso, niente di preoccupante» tossì rantoli, gorgoglii di muco e catrame. Si portò una mano al petto dove al suo interno cominciava una lotta alla sopravvivenza, combattimenti silenziosi tra la vita e la morte. Imprecò sul disastro appena compiuto, aveva rovinato un momento di pura felicità, non aveva mai visto la sua Tilde così piena di vita, ma la sua vecchiaia, la sua sbadataggine non aveva dato la possibilità di continuare a guardarla, poterla ricordare per sempre con un leggero sorriso sulle labbra.
Come tornata da un altro mondo, la figlia si avvicinò a lui per cercare di rimediare, in modo da non far adirare suo padre. Prese un panno bagnato dalla cucina e pulì tutta la polvere grigia, volata a formare una rosa incandescente.

Christian, rimasto sbigottito dalla scena e dallo strano atteggiamento dell'amica, cercò di sorvolare la questione aiutando l'uomo a mettere a posto il suo strumento.
«Andate ragazzi, divertitevi più che potete. Io aspetto Tommaso col suo sassofono e appena arriva andrò in paese per il concerto.» si schiarì più volte la gola, cercando di ritrovare una calma apparente. Era il suo amico di caccia, andavano sempre insieme la mattina in cerca di cinghiali e altra selvaggina da catturare. Non erano amanti delle regole e molto spesso capitava di svegliarsi presto, andando a immergersi nei boschi quando la stagione di caccia non era ancora aperta. Essendo un paese di poche anime, nessuno, o meglio, pochissima gente era interessata a quello strano passatempo, così non avevano mai avuto problemi con la legge.
«D'accordo, si riguardi dallo strafare col fumo» ironizzò il ragazzo, abbozzando un sorriso. Lo scacciò via con una mano, come si fa con le mosche. Odiava sentirsi dire le ramanzine da adolescenti senza rimorsi alle spalle.
«Riportamela per mezzanotte o te la vedrai col mio fucile quando tornerete» lo provocò burbero, mentre si alzava dallo sgabello per mettersi al pari della magra figura, sparire in mezzo a grasso e muscoli.

Christian indietreggiò di poco, alzò il mento in segno di sfida e prendendo la mano fredda della ragazza disse: «Non si preoccupi sono vent'anni che mi prendo cura di sua figlia» il petto all'infuori da sembrare un piccione vanitoso.
«Ti prego, andiamocene prima che si metta male» sentenziò Matilde annoiata, dopo aver sentito parole deliranti, trascinandolo fuori di casa. Era ritornata opprimente, claustrofobica, dopo che il violoncello aveva smesso di suonare note soavi.
«Aspetta, fammi mettere le scarpe almeno» parlò velocemente, mentre afferrava di sfuggita i mocassini rimasti vicino alla porta d'uscita e con dei saltelli, per non perdere l'equilibrio, riuscì a indossarli e a non cadere durante il frenetico movimento di Matilde nel sistemare le ultime cose, prima di uscire. Le voci allegre della gente riempivano gli echi del vento di canzoni, urla e schiamazzi da sentirli da fuori la finestra aperta.

Dopo aver fatto gli ultimi saluti, si diressero, correndo per le scale, verso l'esterno. Facevano a gara chi per primo arrivava a toccare il portone di legno verde, gli ansimi dei ragazzi si fermarono non appena Christian riuscì a premere in tempo la mano sulla maniglia, per aprirle le ante scricchiolanti.
«Dopo di lei, Milady» si inchinò, lasciandole spazio per uscire e con sguardo altezzoso, le gambe affusolate di Tilde si precipitarono verso l'esterno.
Una volta fuori, l'aria frizzantina della sera pizzicò le gote dei giovani pieni d'energia, si diressero verso il sentiero di ghiaia, da portarli direttamente dentro le mura.
Nel cielo terso, i raggi ancora insistevano a non voler destare le loro stanche membra; mischiavano l'arancione con il nero della notte, si facevano sempre più importuni a ogni movimento inesorabile del tempo. Colorava l'atmosfera di sfumature purpuree e bluastre da macchiare la pelle chiara di anime in festa, amalgamandosi con l'universo in procinto di far scoccare il suo primo astro della sera. Venere sarebbe dovuto essere così vicino da vederlo a occhio nudo, mentre una timida Luna piena se ne stava ancora dietro le colline a prepararsi, prima del suo grande debutto.

Si facevano il solletico, cantavano canzoni e giocavano a rincorrersi come bambini nel pieno della loro innocenza. Christian prese dalla tasca posteriore dei pantaloni un'armonica a bocca e danzò a ritmo di un suono vibrante e campestre.
Matilde invece sembrava completamente un'altra persona, con l'arrivo dell'oscurità i suoi lineamenti si addolcivano, si rintanava dentro le ombre per non sentire la pesantezza del giorno. Le sopracciglia folte si distanziarono e un piccolo sorriso si fece spazio tra le guance, mentre i muscoli della mascella si rilassarono al tocco leggero del vento: carezza gentile di delicati sussurri. I capelli neri, portati fin quasi all'inizio delle spalle, si animarono nel buio delle strade sterrate, dei buboli di gufi appena svegli e degli scoiattoli in procinto di ritornare verso le loro tane. Il garrire delle rondini si quietò lasciando spazio al silenzio della natura, dove solo il fruscio degli alberi ai lati del viale riempiva le orecchie dei giovani di sfrigolii mischiati al frinire delle cicale.
La dolce melodia dell'armonica rendeva l'atmosfera meno cupa e in lontananza potevano già scovare le luminarie, insieme agli addobbi a festa del paese: bandiere colorate di bianco e rosso, stemmi floreali, vestiti di altri secoli. I corpi degli abitanti erano stati in continuo fermento già alle prime luci dell'alba, sembrava quasi che la felicità avesse fatto sua dimora ogni angolo della cittadella: sguardi pieni d'allegria da nascondere tutti gli struggimenti della vita.

Gente da ogni dove veniva a visitare la fortezza e le sue caratteristiche più affascinanti. Una marea di macchine parcheggiate nei campi, arati in tempo prima della festa, erano diventati ambienti preferiti per incontri inaspettati. Bambini, famiglie e curiosi venivano a rallegrare i loro animi per una sola notte. Si dilettavano nei giochi, nel vedere acrobazie di giullari, giocolieri e acrobati di strada. I più audaci si fermavano a osservare gente alle prese col fuoco, si divertivano a far volteggiare cerchi incandescenti, farsi male con fiamme da sembrare demoni ammaliatori. Altri invece ripercorrevano con rievocazioni storiche di battaglie gloriose, di cavalieri vissuti nei ricordi degli antichi paesani, rimasti indelebili nella memoria e nei vecchi manoscritti dei monaci.
L'aria di festa investì Matilde e Christian appena misero piede all'interno di strade ricolme di corpi sudati, appiccicati uno accanto all'altro. Urla, schiamazzi e risate fecero fischiare le orecchie della ragazza non abituata ai rumori forti.
«Monteluna sembra diversa quando è estate, quasi irriconoscibile, non è vero, Mat?» alzò la voce di qualche tono per farsi sentire, piegò leggermente il busto per poter osservare meglio l'espressione dell'amica.

Annuì energicamente, mentre i suoi occhi color dell'ambra si mischiarono con i sorrisi, con le parole tentatrici di venditori di ogni genere di oggetti: amuleti, incantesimi e flauti magici.
«Il tempo si è come fermato» parlò piano, l'arco di cupido molto pronunciato si distese per lasciare spazio a un leggero sorriso. Nello stesso istante, delle dame di corte si avvicinarono a loro, festose. Toccavano spalle, corpi caldi e dei piccoli urletti giulivi fecero arrossare le gote del ragazzo, preso di mira dalle splendide donne in corsetto di pelle scura, agghindate da corone di fiori tra i capelli. Le salutò impacciato, mentre cercava di togliersi le loro braccia intorno al suo petto.
«Arrossisci per delle semplici avances? Non ti facevo così timido» lo prese in giro Matilde, per metterlo come sempre a disagio. Poco dopo essere state saziate dalla bellezza di carni succose, interessanti, le cortigiane si allontanarono portando via le loro mani simili a zampe di ragno, per palpare busti forti e sodi di altri giovani malcapitati.
«Ti prego, fai finta di non aver visto nulla» abbassò il capo imbarazzato, mettendosi le dita in mezzo alle ciocche scure, per portarle in avanti e non far notare ancora il rossore sulla sua pelle.

Sogghignò sonoramente, succedeva di rado che Matilde sghignazzasse in quel modo, ma non era una risata di felicità. Sorrideva nel vedere le persone in difficoltà, aggredite dalla cattiveria della gente. Lei non cercava di entrare in empatia con esse, non lo avrebbe mai fatto. Molto spesso, quando vedeva uomini o donne piangere era la prima a non trattenersi nel mostrarsi divertita. Non comprendeva la sua mente labirintica, perché ogni azione ne includeva un'altra con un significato completamente diverso. Era quello il suo problema, la sua malata perversione nei confronti di gente addolorata, incapace di trovare una via d'uscita verso la propria disfatta. Per questo non voleva essere coinvolta nelle emozioni, non riusciva a contenerle perché si erano mischiate, amalgamate fra di loro da creare caos e distruzione.
Dentro di lei c'era qualcosa di assopito, ogni volta che Christian la guardava nel suo stato più naturale, fingeva di essere felice, ma il suo ridacchiare lo temeva come il peggior incubo.

Decise di non farglielo notare, la prese per mano e si avviarono verso la piazza principale. Panchine di legno e stand gastronomici si stagliavano lungo la via principale piena di alberi. La gente si accalcava per prendere le ordinazioni e mangiare carne arrostita di maiale e agnello. L'odore inebriava le narici e faceva brontolare stomaci di ferro. Si affrettarono a cambiare le monete con i Soldi medievali, la Lira era proibita quella sera.

Una volta dentro, si precipitarono a ordinare pietanze e cibi fumanti da far girare la testa. Si sedettero su un tavolo libero e iniziarono la loro abbuffata da veri reali. Degli amici di Christian si fermarono per salutarlo, parlarono del più e del meno, mentre Matilde fece conoscenza con una ragazza dai lunghi capelli biondi e occhi di un verde smeraldino. Era molto stravagante, si era vestita da cartomante e riusciva a leggere sia i tarocchi sia le mani della gente.
Riempiva di bugie maligne ogni malcapitato le passasse davanti, le piaceva mettere in guardia uomini con l'occhio un po' troppo lungo, insieme ai vecchi ubriachi privi di vergogna da provarci anche con le donne sposate e i figli a fare da testimoni.
Aveva un nome strano, fece fatica a ricordarselo, Marie Sophie, un'origine francese davvero insolita per zone piene di anziani e anime in pena.
«Venite al ballo delle streghe, più tardi? Io e alcune mie amiche partecipiamo. Ve ne sarei grata se veniste anche voi» li pregò, mentre Matilde addentava una costoletta fumante, da bruciarle la lingua.

Christian prese la parola, preoccupato di dover ascoltare decisioni troppo affrettate. A lui non piaceva partecipare a strani riti pagani, anzi, si era quasi meravigliato: una comunità così tanto cristiana e devota aveva lasciato il permesso di far preparare tale spettacolo da baracconi «Devo far vedere delle cose alla mia amica, più tardi passeremo» sorrise gentilmente, liquidando la faccenda al fato.
«Tranquilli, nessuna fretta» agitò la mano come per rassicurarli «Inizieremo a mezzanotte, quindi avete tutto il tempo a disposizione» li guardò con le sopracciglia affilate e lo sguardo furbo. Li salutò, portandosi via anche gli altri due ragazzi per andare a bere qualche boccale di birra fresca.
«Non hai detto neanche mezza parola, ti avranno scambiata per una muta» la guardò con un palmo della mano appoggiato sulla guancia e le dita a nascondersi tra i boccoli. Aveva un'aria leggermente afflitta e aveva lasciato degli avanzi sul piatto.
La figura minuta fece un'alzata di spalle e impresse le sue iridi in quelle oceaniche del volto spigoloso davanti a sé: «Mi piace ascoltare. E poi, non avevo nulla da raccontare se non dire il mio nome» abbassò lo sguardo verso il cibo lasciato da Christian «Non lo mangi più? Eppure è buono» chiese indicando la salsiccia rimasta ancora intatta.
«No, non la voglio più» scosse il capo e portò avanti il piatto per agevolare i bambini, proposti di loro spontanea volontà nel pulire i tavoli e racimolare qualche spicciolo di mancia in più nella paghetta.

In un gesto quasi atletico afferrò, con la sua forchetta di plastica, i pezzi di carne rimasti e se li mangiò senza nemmeno chiedere il permesso. Il ragazzo accanto a lei alzò per un attimo gli occhi al cielo pieno di stelle e le diede un colpetto con la spalla per avere la sua attenzione «Ladra!» la canzonò scherzosamente.
«Non la volevi, mi sembrava ingiusto lasciarla lì» l'osservò con il suo solito sguardo assente e pieno di pensieri. Alle volte, provava a entrare dentro le sue sinapsi per scovare tutte le sue paure più oscure, riuscire a comprenderla perché dopo tutto quel tempo, doveva ancora studiare ogni sua mossa, ogni suo comportamento. Non era mai la stessa, simile al letto di un fiume durante le piene: cambiava e mutava di continuo, ma lo spettacolo finale di ciò che ne rimaneva, lasciava tutti senza fiato.

Avrebbe voluto fotografare quel momento, bellezza silenziosa da far tremare anche l'anima, ma quando si accorse di non avere la polaroid imprecò ad alta voce, per essere stato così stupido da lasciarla a casa.
«Che succede?» domandò Matilde, stupita dal mutante atteggiamento del suo amico.
«Ho dimenticato la macchina fotografica a casa» batté un pugno sul legno, arrabbiato per la sua negligenza.
Lui amava imprimere ricordi su pezzi di carta plastificata e poterli un giorno rivedere, solo attraverso istanti felici, attimi rubati al destino, in un mondo troppo scuro da far durare i sorrisi a lungo. Doveva avere un angolo di paradiso da condividere solo ed esclusivamente con Matilde.
«Se vuoi ti accompagno» proferì, mentre si alzava in piedi per andare verso la panetteria, non molto lontana da dove si trovavano.

«Tranquilla, vado e torno. Sta per iniziare anche il torneo di spade, voglio vederti giocare e farti una marea di foto, mentre stracci quei vecchi boriosi» si avvicinò al viso tondo, da sentire la punta del suo naso sfiorare quello leggermente aquilino di Matilde.
Si portò l'arco degli occhiali, sottili e dorati, a toccare la pelle scoperta tra un sopracciglio e l'altro. Sospirò e annuì silenziosa «E va bene, ma fai presto. Non voglio rimanere da sola in mezzo a tutta questa gente» lo guardò seria, senza far trasparire l'ansia che le attraversava le vene, fino ad arrivare al cervello.
«Promesso, sarò un fulmine, non preoccuparti» le lasciò un bacio gentile sulla fronte, labbra umide da imprimere il segno del loro passaggio, tra le pieghe delle sottili rughe sotto l'attaccatura dei capelli. Le scompigliò le ciocche corvine con un gesto amichevole della mano sulla nuca, prima di girarsi e perdersi tra la folla in piena trepidazione.

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