Un cuore per due

By robstascrivendo

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Ci sono amori che per quanto siano travolgenti, unici, sono destinati a finire. A non durare per sempre. Così... More

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By robstascrivendo

La mattina seguente mi svegliai con un peso sul cuore,
un po' come se qualcuno si fosse insediato dentro di me, e ci si fosse seduto di sopra, aggravandolo con il suo peso.
E quel qualcuno eri tu.
Maledettamente tu.
Tu che dopo quella sera mi eri rimasto impresso col tuo sorriso,
la tua voce,
la tua stranezza,
e i tuoi occhi piccoli ma immensi.

Uscii dalla mia camera, portandomi dietro il pensiero di te. Portandomi dietro le mie parole e le tue.
Andai in cucina e mi preparai la colazione: una tazza di latte caldo con un po' di caffè e sette macine.
Né una in più, né una in meno.
Era una stranezza che mi apparteneva sin da piccola, e che condividevo con mia madre.
Quando facevamo colazione insieme, entrambe prendevamo sette macine e le mettevamo dentro la tazza, versando poi il latte caldo con il caffè dentro.
Ancora oggi, se siamo insieme la mattina, facciamo colazione così.
È una nostra strana abitudine.
Una cosa che tu trovavi bizzarra, ma allo stesso tempo adorabile, così mi dicesti la prima volta che facemmo colazione insieme, ed io non riuscivo a comprendere come potessero essere queste due cose insieme.
Ma è sempre stato così con te. È sempre stato un non capirti, un non capirci.
Non riuscivamo mai a venirci in contro.
Era sempre un farci la guerra.
Perché eravamo due teste calde noi due. Due teste di cazzo orgogliose fino al midollo. E l'orgoglio è una brutta bestia, l'ho imparato a mie spese.
Ti porta a rimanere solo, ti divide da tutto ciò che ami e ti vuole tutto per sé.
E ti logora dentro, ti rende marcio fino a consumarti.
Per questo penso che nei rapporti bisogna metterlo da parte, l'orgoglio.
Mettere giù le armi e scoprirsi agli occhi di chi si ama.
Perché in amore non esiste l'orgoglio, esiste il saper chiedere scusa, il saper mettersi in secondo piano per lei o lui, esiste il lottare con unghia e denti, stringere forte la presa e non mollare, che se si spezza la corda è un casino, vallo a rifare il nodo poi.
Ma noi due non siamo mai stati bravi in questo.
Siamo sempre stati bravi a distruggerci a vicenda, ad ammazzarci come cani, a farci la guerra e mai la pace.
Tu eri il mio pharmakon, che in greco significa "veleno" ma anche "rimedio".
Perché tu eri questo per me, eri la mia ancora ma anche la persona che mi trascinava giù.
Eri il mio bene ma anche il mio male.
Eri tante cose tu, ed io me ne resi conto sin da subito. Lo capii quella sera al locale e nei giorni seguenti. Capii che non avevi niente a che fare con gli altri.
Tu eri diverso, e non lo dico tanto per dire.
Avevi quel tuo modo di fare strano, sempre imprevedibile, che mi faceva perdere la testa. Per non parlare della tua lunaticità che mi faceva uscire matta.
Era difficile stare al tuo passo, riuscire a capire il tuo comportamento, i tuoi ragionamenti, e tutto il mondo che tenevi dietro quegli occhi piccoli.
C'erano volte in cui ti chiudevi in te stesso e nascondevi la testa sotto il cuscino per non essere disturbato da nessuno, e volte in cui ti svegliavi col sorriso e iniziavi a parlare a raffica, pensando a cose stupide da fare insieme.
Eri tante cose belle tu, ma anche cose brutte.
Quelle che ti ostinavi a tenere dentro l'armadio.
«Il passato è passato» mi dicevi, ed io avrei voluto saper leggere la mente solo per capire cosa ti tormentava facendoti restare sveglio quasi ogni notte.

«Ele', i ragazzi ci hanno invitato ad andare in spiaggia con loro. Ti va'?» Giorgia entrò in cucina con ancora gli occhi chiusi e il pigiama addosso.
«Si, ma prima riprenditi dalla sbornia di ieri sera.» la presi in giro e in cambio ricevetti un'occhiataccia, mentre, assonnata, si portava un'aspirina alla bocca.
Andai in camera e senza impiegare troppo tempo mi misi il costume e preparai la borsa per il mare, mentre Giorgia sbucava dalla porta ogni trenta secondi per chiedermi se il costume andasse bene o se dovesse cambiarlo ancora una volta.
Nella mia testa nel frattempo si ripeteva sempre la stessa domanda come un disco rotto: ci sarà anche lui?
Al solo pensiero di incontrarlo le mie mani tremavano e il mio stomaco si chiudeva in una morsa dolorosa, quasi come se sapesse che era tutto sbagliato e volesse darmi un avvertimento del dolore che avrei provato se mi fossi buttata a capofitto tra le sue braccia.
E avrei voluto che qualcuno o qualcosa mi avesse impedito di farlo. Avrei voluto che qualcuno mi avesse detto di stargli lontano, che non era giusto per me e che avrebbe causato solo danni irreparabili al mio cuore ingenuo. Avrei voluto rendermi conto da sola che mi stavo imbattendo in qualcosa di troppo pericoloso, che stavo annullando ogni parte di me per donarla a lui... lui che forse non voleva neanche lo facessi.

«Dove sei con la testa Ele'?» Giorgia mi distolse dai pensieri e in risposta ignorai la sua domanda. Come potevo dire alla mia migliore amica che stavo pensando ad una persona e una persona soltanto?
Presi le ultime cose, mi misi i sandali ai piedi e insieme a Giorgia andammo in spiaggia.
La prima cosa che feci quando arrivammo fu cercarlo con lo sguardo. Non badai agli amici di Giorgia che giocavano a palla e alle amiche che prendevano il sole sdraiate su delle sdraio blu. Cercai solo lui. Lo vidi mentre giocava a calcio con un ragazzino. I raggi del sole sfioravano il suo corpo dandogli un'abbronzatura rossastra, sorrideva e correva come se intorno a lui non ci fosse nessuno oltre il ragazzino che entusiasta cercava di levargli la palla tra i piedi.
Mi avvicinai alla spiaggia con Giorgia, lui si voltò a guardarmi e il ragazzo ne approfittò per togliergli la palla tra i piedi. Sorrisi. Sorrise.
«Ciao ragazze, venite abbiamo preso le sdraio pure per voi!» un'amica di Giorgia, Chiara, ci indirizzò verso le nostre postazioni dove lasciammo le nostre cose, compresi i vestiti che avevamo addosso, rimanendo così in costume.
Salutai il resto del gruppo e mi avvicinai a lui che non aveva staccato neanche per un secondo il suo sguardo dal mio corpo.
«Ciao.»
«Ciao.»
Mi mantenni a distanza come se mi potessi scottare, come se il suo tocco potesse segnarmi per sempre. E ironia della sorte, è stato proprio ciò che mi ha fatto: mi ha segnata così in profondità che provare a cancellare tutto è stata una perdita di tempo. Mi ha segnato come un pennarello indelebile, come uno di quei tatuaggi permanenti di cui poi ti penti ma che non riesci a cancellare del tutto. Forse riesci a sbiadire solo una parte, ma eliminarlo è impossibile.

«Ei, vieni a giocare anche tu!» mi girai e vidi Matteo fare segno con la mano di dirigermi verso di loro. Li raggiunsi e mi lasciai alle spalle il suo sguardo e il suo silenzio.
Non aggiunse nulla dopo avermi salutato, rimase a guardarmi come se la sera prima non si fosse seduto accanto a me parlando di quanto le persone potessero fare immersi nel silenzio. Era questo che stava facendo? Stava provando a dirmi qualcosa con tutto quel silenzio assordante?
Accantonai le mille domande che mi vorticavano per la testa e raggiunsi gli altri.


Era pomeriggio inoltrato e noi eravamo in spiaggia a goderci il sole ancora caldo e le onde del mare che leggere si scontravano lungo la riva. Per tutto il giorno non ci eravamo scambiati nemmeno una parola, ma solo sguardi. Continuavo a sorprenderlo mentre mi guardava con quegli occhi verdi e con i capelli che bagnati gli ricoprivano il viso.
«Chi vuole mangiare qualcosa?» Giorgia si alzò dalla sdraio e dopo aver avuto una risposta positiva dagli altri, si diressero verso il chiosco. Solo io e lui rimanemmo in spiaggia. Io nella mia sdraio e lui seduto sulla sabbia calda con lo sguardo rivolto verso il mare.
E chissà se hai risposto di non avere fame perché anche tu avevi lo stomaco stretto in una morsa fastidiosa da tutto il giorno che ti impediva di mangiare, così come è successo a me.
«Per quanto ancora dovrai ignorarmi?» si avvicinò a me mentre me lo chiese. Mi accigliai e gli rivolsi un occhiataccia. «Se per ignorare intendi che non ti ho rivolto parola dopo che hai fatto finta che non esistessi, allora si, ti sto ignorando» «Non ho fatto finta che non esistessi.» staccai i miei occhi da lui. Come faceva a dirlo?
«Dopo che sono venuta a salutarti, non mi hai rivolto più la parola e hai cercato di evitare in tutti i modi una conversazione con me.»
«Cosa avrei dovuto dirti davanti agli altri?» storsi la bocca e feci per andarmene, ma la sua mano avvolse il mio polso, costringendomi a restare lì dov'ero, con lui.
«Se ti vergogni a parlare con me davanti agli altri è solo un tuo problema.»
«Non volevo dire questo...» scosse la testa, frustrato. «Come potevo dire davanti agli altri che da quando ieri sera ti sei chiusa la porta di quel locale alle spalle non faccio altro che pensarti? Come posso dire davanti agli altri che questa mattina svegliarmi è stato più difficile perché pensavo che non ti avrei rivista più? Mi avrebbero preso per uno stupido che perde la testa per una ragazza con cui ha scambiato appena due parole nei gradini di un pub.» ci guardammo. Il mio cuore batteva all'impazzata e in un secondo tutto intorno a noi sembrava non esistere più. C'eravamo solo io e lui. Lui che ancora teneva il mio polso in una stretta salda, come se avesse il timore che da un momento all'altro potessi scappare via.
I ragazzi arrivarono con i panini tra le mani. Tolse la sua mano intorno al mio polso. Ripresi a respirare, ma dentro di me avrei voluto che tutto rimanesse per com'era, con la sua mano a contatto con la mia pelle e il mio cuore in gola.
Si alzó per andare verso gli altri, ma prima di farlo si avvicinò al mio orecchio. «Non mi hai ancora detto il tuo nome, formica.» disse in un sospiro. Un brivido mi percorse tutta la schiena. Non ebbi il tempo di chiedere spiegazioni sul soprannome affibbiatomi, che aveva già raggiunto i ragazzi.

Tornata a casa insieme a Giorgia, posai la borsa sul tavolo della cucina e feci per andare verso il bagno.
«Che cos'è questo biglietto?» la mia migliore amica scrutava con il volto corrucciato il pezzo di carta che aveva tirato fuori dalla mia borsa. Prima che potessi andare a farmi una doccia, mi avvicinai e glielo presi dalle mani.
«Chi è "S"?» ignorai la sua domanda. Lessi attentamente le parole su quel biglietto di carta e sorrisi.

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