Anime dimenticate.

By SofiaCraia98

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[Completa] Matilde è criptica, solitaria. Esce poco e odia la confusione. Se ne sta spesso a guardare dalla f... More

Aesthetic.
Prologo.
Capitolo 2.
Capitolo 3.
Capitolo 4.
Capitolo 5.
Capitolo 6.
Capitolo 7.
Capitolo 8.
Capitolo 9.
Capitolo 10.
Capitolo 11.
Capitolo 12.
Capitolo 13.
Capitolo 14.
Capitolo 15.
Capitolo 16.
Capitolo 17.
Capitolo 18.
Capitolo 19.
Capitolo 20.
Seconda Parte.
Capitolo 21.
Capitolo 22.
Capitolo 23.
Capitolo 24.
Capitolo 25.
Capitolo 26.
Capitolo 27.
Capitolo 28.
Epilogo.
Ringraziamenti.

Capitolo 1.

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By SofiaCraia98

Il vento soffiava forte quel pomeriggio di un'estate in procinto di morire tra le braccia dell'autunno. I fiori, insieme alle piante del giardino di un'abitazione invecchiata, dispersa in mezzo alle colline solitarie, si muovevano veloci, avanti e indietro, a ritmo di una danza troppo frenetica. Qualche petalo di rosa e ginestra si staccava insieme ai rami secchi di un noce centenario, volando leggiadri tra i prati vicini. Molto spesso ci si riuniva sotto quel rugoso tronco per prendere un po' di frescura, durante le mattinate piene di sole, dopo essere stati immersi nei campi di grano a bruciarsi la nuca.

Ululati lontani si sparsero come echi in tutta la vallata, ma tra le quattro mura in mattoni rossastri, una finestra era spalancata, quasi a voler accogliere a braccia aperte il vento imperioso e sentirlo percorrere in ogni centimetro della casa, portando con sé i profumi della natura e dell'erba bagnata, da inebriare l'intera sala da pranzo. La luce grigiastra delle nuvole, così dispettose da non voler far entrare i raggi del sole, rendeva l'atmosfera cupa. Illuminava i contorni pallidi di due ragazzi in procinto di concludere una partita a scacchi. I ticchettii delle pedine erano l'unico suono innaturale da propagarsi in tutte le stanze. Il tavolo in legno scuro reggeva la scacchiera al centro, mentre ai lati pedoni, torri e alfieri erano i trofei di ogni mossa vinta. Il silenzio era quasi palpabile, quattro occhi vispi andavano a destra e a sinistra, come un tic nervoso, in modo da osservare e prevedere ogni mossa. Erano rimasti pochi pezzi ancora in gioco, ma nessuno dei due voleva perdere: una battaglia all'ultimo sangue.

I capelli di entrambi, di un nero lucente come quello delle piume dei corvi, dondolavano cullati dalla brezza dolce di quel vento desiderato ormai da mesi. Immobili come statue si scrutavano a vicenda, l'uno nelle iridi dell'altra, quasi a volersi parlare solo con un paio di occhiate furtive. Quelle azzurre del ragazzo, davanti alla piccola e minuta immagine illuminata dal grigiore del cielo, si perdevano a osservare ogni sfumatura dell'ambra, impressa nella perfetta rotondità dell'iride, fino a entrare dentro il nero delle pupille.
Aspettavano impazienti le ultime mosse per poter decretare il vincitore, mai uno stallo, mai una patta; con loro due si vinceva o si perdeva.

«Donna in D8, scacco matto» la voce della ragazza dallo sguardo impassibile fermò il silenzio. Si mosse con una velocità da spezzare il tempo in un solo gesto della mano, fino a far collidere il legno grezzo della pedina contro quello della casella scura, facendo sussultare anche l'anima.
«Non riesco a crederci Mat...» disse aumentando di un tono la voce «Con te è impossibile vincere in qualsiasi gioco» alzò le mani in segno di resa, mentre gli angoli della bocca si sollevarono in un sorriso sghembo, ma allo stesso tempo ferito per l'ennesima sconfitta. I denti, leggermente ingialliti dal fumo, si intravedevano in mezzo alle labbra screpolate: rideva per l'incredulità e dallo sconforto di essere stato battuto da una donna.

Matilde si rimise gli occhiali, stecche sottili come steli di grano e due spesse lenti tanto da aumentarle le pupille di due gradi «Ti fai fregare così facilmente che nemmeno te ne accorgi, mio caro Christian» cercò di abbozzare un sorriso, ma quello che ne uscì fu soltanto una smorfia. Lei i sentimenti li aveva annebbiati, non riusciva a decifrarli. Guardava il mondo senza farsi notare, gli occhi parlavano al suo posto e le sue espressioni faticavano a emergere; annegate nei ricordi di un passato troppo sbiadito.

«Vorrà dire che oltre alla fila di pane fresco, dovrò portarti una brioche come premio domani mattina» sentenziò, mentre le sue dita veloci e sottili raccoglievano le pedine per risistemarle dentro una sacca in pelle insieme alla scacchiera. Christian era figlio del mugnaio, abitavano sopra il panificio del paese non poco lontano dalla casa di Matilde. La madre dirigeva quelle quattro mura così egregiamente da essere considerata la migliore in circolazione. Aveva un debole per la ventenne dai capelli color pece e quando poteva, mandava suo figlio a portarle regali di ogni tipo: da dolci fatti in casa al pane appena sfornato. L'odore di lievito inebriava le narici di chiunque passasse in quella via e quando Christian veniva a portare qualche baguette su commissione, lo si poteva riconoscere anche da lontano per il profumo dell'impasto e della farina che si portava dietro, come un'ombra, per tutta la cittadina. Era così piccolo il posto da conoscere quasi tutti, le mura diroccate erano troppo sottili per le orecchie aperte e le lingue lunghe delle donne più anziane. Si divertivano in piazza a raccontarsi gli ultimi pettegolezzi e a guardare di sottecchi ogni profilo provasse a intrecciare i loro passi. Matilde infatti cercava di essere il più invisibile possibile, non amava intrufolarsi in paese a causa delle occhiatacce di quelle signore, sedute sui gradini della loro soglia, intente a ricamare o a stendere i panni. Si sentiva a disagio e una ragazza troppo silenziosa era mirino facile per gente con la bocca sempre aperta. Amava, però, osservare gli uomini afferrare energici sedie e tavolini in plastica, durante i pomeriggi dei fine settimana, prendere tra le mani le carte napoletane e iniziare a giocare. Si sentivano urla, schiamazzi e bestemmie contro chi voleva fregare o chi vinceva di continuo: una specie di sala giochi all'aperto, ma senza spendere un solo centesimo. Quei momenti di festa, nascosti dalle fronde verdi e rigogliose dei platani, erano più unici che rari, non sempre si vedevano. Amavano di più restare tra i campi di grano, sui loro trattori arrugginiti, per racimolare qualche soldo in avanzo per portarli orgogliosi a casa e regalare ai loro nipoti nuove salopette o una barretta di cioccolato.

«Non serve, tua madre fa già troppo per me e per mio padre» parlò, dopo minuti rimasta in silenzio a contemplare il vuoto fatto di ricordi e nebbia. Ogni tanto il suo sguardo si perdeva tra un atomo e l'altro dello spazio, come se dovesse prima passare da qualche altra parte del mondo, per poi rispondere neutra a semplici richieste.
«Insisto» aggiunse poco dopo Christian, mentre si alzava e si sgranchiva le lunghe gambe sottili. Il rumore acuto del legno scheggiato delle sedie contro il pavimento fece sussultare gli animi assonnati dei due ragazzi, quasi come un brivido freddo lungo tutta la loro schiena.

Matilde si sistemò gli occhiali, facendo indietreggiare il ponte fino a toccare la pelle tra un sopracciglio folto e l'altro. Si fece forza con le braccia e portò le sue membra stanche fuori dalla comodità del sedile in vimini, coperto da un morbido cuscino.
Sospirò e acconsentì, con un movimento silenzioso della testa, a farle trovare la mattina seguente una brioche ancora calda. Il sorriso del moro aumentò di colpo, fiero di potersi rendere utile e ripagare quella vittoria schiacciante. La sua gioia però, non durò a lungo perché quel silenzio apparente venne inondato di colpo dagli scrosci della pioggia. Enormi goccioloni si abbatterono sulla casa e su tutta la vallata; in lontananza, dei tuoni facevano da eco, imponendosi sugli ululati del vento.

Christian intrecciò le mani tra i capelli, portandosi le lunghe ciocche scure all'indietro. Per non perdere il controllo, camminò verso la finestra spalancata e si mise a osservare il paesaggio. Le strade sterrate si riempirono presto di fango e pozzanghere piene di acqua sporca di polvere e terriccio, dei cani abbaiavano isterici qualche centinaio di metri più avanti: qualcuno li aveva lasciati fuori a bagnarsi il pelo.
«Come ci ritorno, io, a casa adesso?» domandò ansioso, trascinandosi le dita sul mento e grattandolo freneticamente. Era il suo modo di concentrarsi e pensare a una soluzione diversa dalla sua bicicletta o incamminarsi a piedi.

Presa da un coraggio inaspettato, Matilde si avvicinò al bordo del parapetto, la sua spalla andò a sfiorare l'avambraccio del ragazzo e con un po' di perplessità nella voce propose: «Puoi sempre rimanere qui finché non finisce l'acquazzone o restare per cena»
Gli occhi chiari di Christian si allargarono e brillarono stupiti dalla sua strana, gentile richiesta; aveva sempre l'abitudine di lasciarla sola la sera. Sembrava quasi amasse starsene in disparte lontano da occhi indiscreti, sapeva bene che la gente non le era mai piaciuta, ma a quanto immaginava la sua presenza era gradita.
«Non ti ci facevo così magnanima, Mat, ti senti bene?» domandò ironico, ma il suo viso era immobile. Quel profilo spigoloso e il naso leggermente arcuato si erano puntati oltre l'orizzonte, qualcosa o qualcuno aveva catturato la curiosità dei suoi occhi ambrati, i quali alla luce del sole avevano la stessa consistenza del miele.
«Non sono incompetente, non manco di gentilezza e non sono cattiva» rispose seria, senza degnarlo di uno sguardo, di un accenno leggero. Lei non provava nessuna di quelle emozioni, ma per non destare sospetti e apparire una persona normale, cercò di sminuire il problema.
«Beh...» tentennò, confuso da quell'atteggiamento, ma ormai ci aveva fatto l'abitudine. La conosceva così bene da non farsi più domande, era fatta così: piena di difetti con il marcio da riempirle le vene «Lo prendo per un complimento» aggiunse qualche secondo dopo, alzando le sopracciglia folte e poco curate in segno di rassegnazione.

La pioggia cadeva ancora imperterrita sulle case, sui tetti del paese e sui campi non ancora arati. Il grano, giallo come i raggi del sole, quel pomeriggio prese la stessa luce grigiastra delle nuvole; quasi come se anch'esso fosse infastidito dalla presenza dell'acqua insistente e aggressiva, da piegare i fragili steli. Due anime solitarie erano intente a guardare il paesaggio dalla finestra di una casa in collina, non molto lontana dalle mura medievali di una cittadella sperduta nelle vallate marchigiane. Matilde però, aveva le pupille dilatate, intente a puntare, come il mirino di un fucile, una preda per poter toglierle la vita e sfamarsi, in modo da non rimanere a digiuno la notte. Un cacciatore intento a prendersi il bottino e la gloria di aver ucciso uno splendido esemplare di cervo bianco.
«Ma cosa diavolo stai guardando?» domandò Christian ormai esasperato dal silenzio pressante, da renderlo vulnerabile. Cercava con quegli occhi vispi di scorgere qualcuno tra la vegetazione, una certezza per poter finalmente tornare di nuovo all'interno della mente di Matilde.
Non rispose, concentrata a guardare la casa in cemento bianco, lontana qualche centinaio di metri. Si perse di nuovo tra gli angoli più remoti del suo cervello, si dimenticava a volte di essere ancora viva. Aveva un'irrefrenabile sensazione dentro di sé, alla quale non riusciva a dare una spiegazione. Si puntava in un angolo buio e la sua mente iniziava a parlare con i suoi demoni. Quella volta però, nessuno le stava sussurrando dentro le sinapsi, anzi, qualcuno, tra un movimento e l'altro delle spighe appuntite e i chicchi d'orzo, correva per cercare di fermare un vuoto troppo grande, da mangiargli ogni organo.

Senza perdersi d'animo, corse verso l'armadietto in legno, vicino al piccolo arco a tutto sesto che portava alla cucina. Frugò tra i cassetti e come un segugio da tartufo si intrufolò nelle zone d'ombra di contenitori pieni di fogli, mollette, elastici e vecchi bossoli arrugginiti. Dopo aver ispezionato il penultimo vano, si ritrovò di fronte a ciò che stava cercando disperatamente: il binocolo da caccia di suo padre. Ne era fortemente geloso, sia per il fatto di essere di buona fattura, sia per l'acuta vista di cui si riservava, per poter osservare meglio la vegetazione e la fauna boschiva. Anche Matilde ne era affascinata, lo usava spesso durante le giornate noiose estive in cui, affacciata alla finestra, si metteva a osservare per ore le rondini e gli stormi volare sopra la sua testa, mentre qualche scoiattolo si arrampicava furtivo sul possente tronco dell'albero di noci.

Da qualche anno a quella parte, si era fissata a guardare oltre, tra i campi rigogliosi, da far cornice alla sua casa in mattoni rossi. La sua attenzione andò a finire al di fuori del recinto e la messa a fuoco aumentava sempre di più, ogni qualvolta la sua curiosità si allontanava, fino ad arrivare a un edificio lasciato a se stesso. Non era il cemento bianco a farla agitare, ma chi ci abitava dentro. Quella gente in continuo movimento e sempre troppo aggressiva contro una persona, di cui Matilde riusciva a vedere solo una folta ciocca rossa, non dava pace ai suoi pensieri.

Ricordò in quel preciso istante, nel momento in cui tornò al lucernario col suo binocolo e due occhi chiari a scrutarla interdetti, di quando da bambina suo padre le proibì di fare amicizia con i vicini. "Non sono persone fidate e se ti vedo una sola volta con loro figlio..." si fermava per qualche secondo per mantenere la calma "sai già cosa ti aspetta a casa" diceva sempre, con la faccia aggrottata dall'ira e dalla paura. Matilde aveva sempre avuto rispetto per suo padre e col timore di poter scatenare la rabbia di quell'uomo severo, troppo sovrappeso per l'età dimostrata, non aveva mai osato disobbedirgli. Avrebbe cercato un qualsiasi altro modo, per osservare la strana famiglia di cui il suo animo ne era attratto come una calamita.
«Ecco, ci risiamo. Questo binocolo non lo lasci mai un minuto, eh?» spezzò il silenzio la voce profonda e leggermente roca di Christian, il quale non poteva più vedere la sua unica amica, fissata con quell'aggeggio e soprattutto da persone di cui non si sarebbe dovuta minimamente interessare. Ogni volta la beccava a guardare fuori, dentro di sé sentiva un tuffo al cuore, quasi come se non venisse più calcolato, dimenticato dal resto del mondo.

La ragazza dagli occhi come il miele non ne voleva sapere di smetterla: era intenta a guardare qualcosa che andava oltre i canoni dell'umanità. Una diversità da cui le sue pupille rimanevano incantate. Vide quella figura esile correre in mezzo al campo e poi fermarsi, alzare la testa verso il cielo e assaporare ogni goccia di quell'acqua trasparente, con all'interno milioni di sfumature. Non riusciva a vedere il suo viso, troppo lontano per poterlo scorgere, ma dei capelli color del rame si erano impressi all'interno del binocolo per poi superare la barriera della cornea e intingersi come il sangue, nell'oscurità della pupilla. Un pittore maldestro il quale aveva per sbaglio fatto cadere delle gocce di acrilico rosso all'interno della tempera nera, diramatesi come vene in un corpo effimero.

«Non penso sia una buona idea, Mat» il suo amico più fidato aveva sentenziato quelle parole, con il timore nella voce. Forse per la gelosia di voler essere ascoltato, avere la stessa attenzione, o per la paura di un uomo nell'ombra che si avvicinava a passi svelti verso di loro. Piedi pesanti, possenti e pieni di una rabbia repressa si fermarono dietro le loro tremolanti schiene. Una mano grossa e rugosa si lanciò verso le esili dita di Matilde, afferrando il binocolo con estrema durezza. Se lo mise in tasca con una forza tale da rompere la stoffa della giacca mimetica.

«Questo lo prendo io» la voce rude e schietta dell'uomo divampò come il fuoco all'interno della stanza, mentre i brividi della piccola ed esile figura si diramarono in tutto il corpo. Era stata scoperta, le aveva tolto di mano l'unica possibilità di vedere; cieca di non poter andare oltre e fuggire via dagli schemi, che la società aveva affibbiato a certa gente.
«Papà, io...» cercò di giustificarsi, era stata ingenua. Un errore del genere non era da lei farlo, si era comportata da ragazzina infantile. Avrebbe dovuto prevederlo, invece era stata ammaliata dalla curiosità di voler conoscere cosa si celasse dietro quelle ciocche carminie. Venne però fermata dallo sguardo serio dell'uomo, completamente fradicio e grondante d'acqua. Era stato fuori casa tutto il tempo e nemmeno se ne era accorta.
«Ti ho vista mentre guardavi fuori dalla finestra» sussurrò greve, mentre se ne andava con passo lento verso il lavandino per togliersi il sangue dalle mani.

Aveva ucciso qualche preda, insieme alla voce monotona di sua figlia, la quale cercava ogni sorta di scusa per far cambiare idea a un vecchio troppo sveglio. La caccia non era stata fruttifera quella mattina e dovette accontentarsi di un paio di lepri sfortunate. Le carcasse se ne stavano sdraiate sul piano da cucina in marmo, con gli occhi sbarrati a osservare il viso di Matilde: quasi a volerla giudicare. Un nero pece, tale da sprofondarci dentro e non riemergere mai più, intrappolata dalla morte stessa, che si faceva beffe di lei all'interno di dolci pupille. Vetro opaco dove ci si poteva rispecchiare e vedere un'anima urlare e implorare perdono.

Quel pelo morbido non avrebbe mai più coperto la gracile pelle di dolci animali insignificanti. Sarebbero stati scuoiati e arsi nel fuoco per poterli poi mangiare. Ci era abituata Matilde a guardare spettacoli macabri, sadici. Fin da piccola era rimasta attratta dalle interiora, dagli organi fuoriuscire dal corpo di esseri innocenti, crepati solo per il piacere malato di un uomo, il quale suo miglior passatempo era cacciare selvaggina e vantarsene con gli amici al bar del centro. Amava soprattutto quando Alberto, suo padre, toglieva il cuore insieme a tutte le arterie e lo lasciava sul tagliere per poi cucinarlo a parte. "Fa bene per la circolazione" proferiva ingenuamente, con le mani sporche di liquido denso e rossastro, da entrargli fin sotto le unghie. Sapeva, però, che quel muscolo riempiva solo la sua pancia gonfia di sazietà e soddisfazione.

«Mi dispiace, non succederà più.» sussurrò dispiaciuta, con la testa china verso il pavimento, mentre un colpo di mannaia riempì la cucina di sfrigolii e colpi assordanti di ossa frantumate e sangue raffermo.
«Che sia l'ultima volta» rispose, senza nemmeno degnarla di uno sguardo, intento a tagliare via il grasso e le interiora. Dell'icore rossiccio fuoriuscì dalle vene, dai muscoli rosei di una vita sottratta alla natura illegalmente.
Christian ebbe un conato di vomito nel vedere quella scena e il suo volto si era sbiancato di colpo a tal punto da doversi mettere seduto «Porta via il tuo amico da qui o mi ritroverò la cucina inondata dei suoi acidi gastrici e chiudi quella maledetta finestra» sentenziò austero poco dopo, girando di qualche centimetro la testa verso di loro, come se già sapesse cosa stesse succedendo dietro le sue spalle.
«Forza, Chri, andiamo di là» gli propose, aiutandolo ad alzarsi. Quel ragazzo era così vulnerabile a tutto ciò che lo circondava da far trapelare, nelle vene di Matilde, un sentimento di pietà verso di lui.
Tornarono nella sala in cui si erano fermati a giocare a scacchi e, mentre Christian provava a ricomporsi, due mani sottili e pallide si erano fiondate a sbarrare il vetro freddo, sottile, testimone di un capriccio di un'anima cresciuta troppo in fretta.

«Mi dispiace per averti fatto assistere a delle scene del genere» si girò verso di lui per osservare i suoi occhi spaventati, ma pieni di comprensione «Avrei dovuto essere più cauta» aggiunse, mentre si sistemava il ponte degli occhiali in cima alle cavità nasali. Un tic nervoso di cui non si sarebbe mai liberata, si grattò il naso leggermente arcuato con la nocca del dito indice e si avvicinò al suo amico, per cercare di provare empatia verso i suoi sentimenti. Sapeva per certo, sarebbe stato un buco nell'acqua, la ragazza ci metteva tutta la sua forza di volontà nel percepire qualcosa all'interno del suo cuore, ma più cercava di entrarci, più lui si riempiva di oscurità da sentirlo urlare, come un condannato al rogo.
«Lascia perdere, dopotutto me lo sono meritato. Non ti ho coperto le spalle come avrei dovuto, ma tuo padre mi mette un'ansia terribile. Ammiro il tuo coraggio» accennò un sorriso sarcastico e si portò indietro i capelli, di un nero da far invidia alla notte. Li aveva lunghi quasi come quelli di Matilde, gli arrivavano fino a metà collo, coprendogli i lineamenti appuntiti e magri della mascella. Erano spessi e folti, di tanto in tanto si intravedeva qualche ciocca riccia. Non potevano competere, però, con le onde lisce della ragazza, le portava fino all'inizio delle spalle ed erano paragonabili alla seta; un cuscino morbido in cui poter riposare le proprie stanche membra.

«Non devi giustificarmi, ho solo creato un ennesimo problema» corrugò la fronte e cercò di non far trapelare l'ira ribollire tra le sue arterie, aveva abbassato la guardia e si era fatta beccare. Non si sarebbe data pace per tutta la serata e durante la notte non avrebbe trovato riposo per uno sbaglio così inusuale, da mandarla su tutte le furie.
Con uno scatto felino, Christian appoggiò le mani affusolate sopra quelle più esili di Matilde e la guardò dritta negli occhi, mare contro sabbia in una tempesta piena di silenzi.
«Allora ti perdonerò se in cambio verrai con me, domani sera, alla sagra del paese» propose, con un leggero bagliore negli occhi. La conosceva abbastanza bene da sapere che la richiesta non sarebbe stata una delle migliori, quegli occhi color della resina non amavano osservare così tanta gente in movimento, tra le strade colme di muschio e sampietrini. Odiava le feste di paese, ma erano una tradizione di cui andavano molto fieri e avrebbero celebrato insieme le loro origini medievali.

Dopotutto cosa avrebbe mai potuto succedere di peggio? Sarebbe rimasta nell'ombra tra un lampione e l'altro, mentre il suo amico la teneva per mano per non perderla nella marasma di gente, entusiasta di una notte piena di canti, balli e musiche trobadoriche.
Sospirò affranta e accettò l'offerta, anche se non ne era del tutto sicura «A patto che, mi starai sempre vicino. Lo sai come la penso sulla gente in paese» aggiunse poco convinta della scelta affrettata, ma avrebbe fatto di tutto pur di rimediare all'errore madornale.
«Hai la mia parola» fece un inchino maldestro, come se un vassallo avesse giurato fedeltà alla propria regina. Si alzò di scatto e, con mano lesta, prese il suo berretto sporco di farina, se lo portò in testa in modo da poter coprire il capo dal vento fresco della sera.
«Dove vai? Non rimani?» chiese stranita da quell'atteggiamento, lui si girò di scatto e prima di andarsene, la osservò in piedi vicino al tavolo di legno. La finestra le illuminava la schiena di una luce tenue e leggera, da confonderla con il mobilio della stanza. Se non avesse avuto l'occhio attento ai dettagli, non l'avrebbe nemmeno notata.

«Devo prepararmi per la rivincita a scacchi di domani e comprarmi qualche vestito nuovo, se non avessi accettato a quest'ora avrei risparmiato la mia paghetta» rise di gusto, la sua voce ilare si propagò in tutta la casa da far tremare anche l'intonaco chiaro delle pareti. Era euforico, il contrario dell'indifferenza perenne in cui Matilde si era immersa. Ogni tanto invidiava la spensieratezza di quel ragazzo, con il quale aveva sempre avuto ricordi felici insieme. Si conoscevano da sempre e la loro stramba complicità li rendevano unici, nessuno era come loro. Due macchie d'inchiostro in un foglio completamente bianco.
«Fammi un favore però...» ritornò serio per qualche minuto, dondolando sui talloni «Non pensarci troppo» guardò per un paio di istanti il vetro trasparente pieno di alberi, campi e case in rovina, facendole intendere a cosa si riferisse. Lei percepì subito i suoi pensieri. Annuì energicamente, una falsa tranquillità solo per non farlo stare in pensiero. Si girò e se ne andò salutando Alberto, intento a fare un soffritto e pulire il sangue rimasto sul paraschizzi.
Matilde aspettò di vederlo fuori in strada, tra le pozzanghere e le gocce rimaste in sospeso di un'acquazzone estivo. Prese la sua bicicletta rossa e, con uno scatto energico delle sue lunghe gambe, se ne ritornò in paese, non prima di averla salutata un'ultima volta, affacciata verso l'esterno pieno di nuvole grigie, come se avesse sentito sulla pelle lo sguardo furtivo di due occhi color dell'ambra.

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