Pitch Black - Ereri/Riren

Da Ackerbitch

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II COMPLETA ll ⚠️II TEMATICHE DELICATE II⚠️ Dal testo: Non se ne era mai accorta. Eppure nella vita aveva s... Altro

⚠️AVVISO IMPORTANTE⚠️
Prologue
Golden Cage
North Sea
Hide and Seek
Sugarcoat
Carousel
Edge of the Knife
Lay me Down
The In-Between
Freedom Chains
Minefields
Whore
Dark Omen
Sweet Sacrifice
Chasing The Dragon
The Escapist
Creep - pt.1
Creep - pt.2
Golden Cage, II
EPILOGO (+ Ringraziamenti)

The Dark Side of the Moon

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Da Ackerbitch


Venerdì 9 marzo 2018

Mr.Bunny è un coniglio di peluche qualunque che ha visto giorni migliori, con la testa orrendamente spelacchiata e l'orecchio sinistro ricucito un numero improponibile di volte. L'inchiostro delle scritte è sbiadito anni addietro sulla targhetta sfilacciata che spunta appena al di sopra della coda a pompon, quella che Isabel è solita passarsi ripetutamente fra le dita con un cipiglio concentrato in volto. È stato uno dei primi regali di Levi, uno di quelli che le ha messo affianco nella culla mentre il sonno le distendeva i lineamenti angelici, comprato di ritorno dalla sua luna di miele con Erwin in un negozietto di giocattoli squallido e piuttosto malmesso dell'aeroporto di Rotterdam; durante il viaggio non aveva fatto in tempo a comprarle niente, talmente i ritmi delle loro escursioni guidate erano stati serrati.

Levi all'epoca non avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato il suo giocattolo preferito, quello capace di calmare le sue crisi con la stoffa morbida seppur sdrucita, quello che a volte la fa alienare nel movimento ripetitivo di carezzare la piccola testa consumata e pizzicare la targhetta. E non importa quanti altri peluche le ha comprato, più belli, più grandi e di una fattura migliore; nessuno ha mai rubato la sua attenzione quanto Mr.Bunny.

Per questo si stupisce quando lascia che Eren lo tocchi. È sempre stata stranamente possessiva nei confronti di quel coniglio di pezza.

Non grida però quando quella mattina il castano prende posto accanto a lei sul divano e le sue dita si stringono sulla stoffa morbida, rompendo la bolla cristallizzata della sua alienazione e tentando di farle ristabilire un contatto con la realtà, e allora Levi ne rimane positivamente impressionato. La piccola guarda lo psicologo con gli occhioni grandi, verde fisso nel verde, e lui si scioglie.

"Andiamo dalla mamma, che dici?"

Annuisce, e quello che fa è tanto raro che Levi sente un groppo salirgli alla gola. Tende le piccole braccia in avanti, poi le intreccia attorno al collo di Eren e si lascia sollevare; il castano ridacchia e la bambina non protesta quando riceve un buffetto gentile sulla guancia.

"Izzy oggi ha suo check-up semestrale dal neurologo, la accompagno alla pasticceria dove lavora Kuchel così può portarla lei dal dottore, stacca fra poco. Vuoi venire? Possiamo mangiare qualcosa fuori e fare un giro per ammazzare il tempo per qualche ora, è una bella giornata."

"Non hai nulla di meglio da fare?"

Non sa nemmeno perché suoni tanto dura quella domanda che gli lascia le labbra quasi senza consenso, senza essere pensata e ragionata. Non vuole essere brusco, non con Eren che è capace di mostrargli gentilezza, e spesso si trova a chiedersi se il castano lo faccia per pietà, per compassione della sua anima che diventa ogni giorno più piccola e vulnerabile, delle sue emozioni che si fanno sempre più nere e si ingarbugliano in una matassa di cui è impossibile trovare il capo. Forse lui è capace di vedere quanto è insignificante, labile, trascurabile. Forse lo tratta come se contasse qualcosa perché è davvero troppo gentile. Levi sente di non valere il tempo di nessuno, nemmeno per qualche ora morta da ammazzare.

La mattina gli prepara sempre il caffè rigorosamente amaro e ha imparato subito che detesta che anche il suo the sia dolce, a meno che non sia aromatizzato con un bastoncino caramellato di cristalli di zucchero. La colazione è sempre diversa e varia dal dolce al salato, e quando non ha voglia di cucinare, compra sempre qualcosa d'asporto e la mangiano insieme, talvolta guardando i cartoni insieme ad Isabel, altre volte chiacchierando con Mikasa che in quei giorni gli ha fatto spesso visita al mattino, prima di recarsi in palestra dove lezioni e allenamenti per i mondiali le impegnano quasi completamente la giornata.

Parlano sempre, ed Erwin non lo sa. Ancora neanche sa che ha visto sua cugina, che un pomeriggio sono addirittura andati al parco insieme e che quel ragazzo è stato capace di strappargli un paio di risate davvero genuine come non gli accadeva da tempo. Non lo sa e non lo deve sapere, e Levi è bravissimo nel non destare sospetti; il fatto che Eren vada via sempre poco prima che il marito torni a casa gli pare davvero un aiuto divino alla sua voglia di tentare, di osare e assaporare il sapore dolce della libertà con la punta della lingua.

"Pensavo ti facesse piacere, tutto qui, visto che probabilmente mi raggiungerà anche Mika. Non volevo essere invadente, posso andare da solo."

È davvero tanto sbagliato volerla mordere solo un po', la libertà?

"Non volevo essere scortese, scusami."

Levi sbaglia anche quando non vuole, ma Eren pare accettare di buon grado le sue scuse e perdonarlo con un sorriso. Si rilassa, perché si era già fatto piccolo per l'anticipazione di ricevere una smorfia di disgusto al tono caustico e impertinente con cui si è lasciato sfuggire la precedente domanda. Non voleva attaccarlo, gli sembra semplicemente strano che qualcuno possa invitarlo a passare del tempo insieme quando non sono legati dalla situazione di circostanza di condividere le stesse mura per ore intere. O forse anche quella è una situazione di circostanza e Levi è più arrugginito di quanto credesse nel saper leggere e interpretare i rapporti sociali.

L'orologio digitale del suo smartphone gli segnala che sono quasi le due del pomeriggio, gli ricorda che ha tempo, lo tenta al pensiero che Erwin non sarà in casa prima delle nove della sera; sarà bravo, silenzioso e cauto, nell'aprire la piccola porticina della sua gabbia dorata che richiuderà il prima possibile senza fare rumore e causare il minimo spostamento d'aria. Ignora il senso di colpa che gli mordicchia insistente lo stomaco e glielo fa contorcere, ingoia la sensazione di panico delle conseguenze che si gli riverseranno contro, spietate e atroci, se il marito lo scoprirà. Forse osa semplicemente perché il pensiero di poche ore di libertà allenta le spire viscide di terrore che gli serpeggiano in petto. Le fanno sembrare più sopportabili, meno grottesche e assassine.

"Vengo con te, mi farà bene prendere un po' d'aria."

Levi quel giorno impara che Eren guida una Peugeot 206 dei primi anni duemila. È particolare, metallizzata e col cambio automatico; nei posti posteriori c'è un seggiolino per Isabel e non può fare a meno di notare, dopo aver allacciato la cintura di sicurezza alla bambina, che gli interni in pelle sono tanto belli quanto gelidi sulla seduta e sulla schiena nonostante i numerosi strati di stoffa che lo avvolgono e riscaldano. Anche il volante deve essere tanto freddo da risultare sgradevole e pungente sulle mani, perché il ragazzo sibila fra i denti e si infila velocemente un paio di guanti neri che tira fuori da una delle tasche esterne del parka verde militare imbottito.

Non ci mettono molto ad arrivare, né parlano durante il tragitto; stranamente, Isabel non si lamenta del rumore della radio accesa, che misto a quello del traffico cittadino le dà spesso fastidio, ma pare gradire quel pezzo di jazz anni '80 a basso volume. Levi si chiede se quella è una stazione radio che Eren le fa ascoltare spesso quando la porta in macchina proprio mentre parcheggiano davanti alla piccola pasticceria in cui lavora Kuchel e la vede senza grembiule addosso, un sorriso dipinto sul volto mentre rivolge un gesto di saluto alla collega impegnata al telefono e si avvia alla porta.

Hanno avuto un tempismo perfetto e lei li nota subito, anche se sono rimasti nell'auto a motore acceso per godersi il tepore dei riscaldamenti, la musica trasformata nelle parole dello speaker radiofonico che ha riempito il silenzio per quel minuto scarso che Levi non ha proprio saputo come colmare. Non riuscirebbe ad iniziare una conversazione, gli è quasi certo.

Le labbra di Kuchel non si tendono mai troppo mentre sorride, ma creano curve morbide come boccioli di rosa, come una pennellata dolce e delicata; Levi non può fare a meno di sciogliersi un po' a quando apre la portiera posteriore e li saluta con gli occhi grigi caleidoscopici di emozioni. La vede rabbuiarsi solo quando Isabel non fa una piega nel vederla e rimane perfettamente immobile sul suo seggiolino anche quando le slaccia la cintura di sicurezza, la mente persa chissà dove e gli occhi fissi su immagini inafferrabili. Le si intacca sempre il cuore, ed ecco che si forma una nuova crepa sulla sua superficie troppo labile, che si aggiunge alla ragnatela macabra e intessuta di dolore delle altre scheggiature; una per ogni minimo segno della sofferenza di Isabel. Levi lo sa perché lo legge sul fondo delle iridi di sua madre anche se lei tenta di nasconderlo, ma soprattutto lo sa anche perché gli succede esattamente la stessa cosa. Lo ghiaccia quella mancanza di reazioni, di emotività, di empatia davanti a Kuchel che le ripete monocorde che devono andare dal medico, che faranno tardi al loro appuntamento.

Fa doppiamente male, perché ci vuole davvero poco per guastare il buon umore e il coinvolgimento sociale di Isabel, a volte un singolo gesto o a volte un nulla apparente; di quella bambina che tendeva le manine paffute verso il suo psicologo e che mostrava un velo d'emozioni sul viso, è rimasto un ricordo intrappolato nelle iridi spente che sa del sapore arso e crudele della cenere. Quanto lo strazia, lo sguardo di sua madre che si fa umido e gonfio mentre la prende in braccio e sua sorella non collabora neanche un po'. Sembra un guscio vuoto e rotto, un vaso di Pandora da cui sono scappate irreparabilmente via tutte le emozioni e ne sono rimaste incrostate sull'interno solo pallide sfumature, imitazioni momentanee e fatue. Sente dentro esattamente la stessa sensazione scomoda di tremore che ha avvertito sulla pelle quando Kuchel ha aperto la portiera dell'auto e l'aria gelida ha contaminato quella riscaldata e profumata di vaniglia dell'abitacolo.

"Vado in ospedale, ci vediamo a casa appena abbiamo fatto."

"Noi pranziamo fuori, ma fra meno di un'oretta saremo di rientro."

Gli risponde Eren, ed è un bene perché lui non ne ha la forza. I suoi occhi sono fissi in quelli di Isabel, invischiati in quella giada spenta e insondabile, macchiata e opaca di un velo cupo. Ha il respiro incastrato nella trachea, Kuchel invece tenta un sorriso che pare volerle morire sul viso triste da un momento all'altro quando li saluta e gli augura una buona giornata. Ripartono che il cuore di Levi pare scricchiolargli nel petto a ogni battito fiacco e svogliato, e forse è proprio a causa della musica jazz che ha ripreso a suonare che quegli stridii inquietanti non rimbombano fra la lamiera della vettura e non raggiungono le orecchie di Eren, perché lui se li sente insistenti e martellanti nei timpani.

Arriva a chiedersi se abbia fatto male ad andare con Eren, se sia stato egoista da parte sua inseguire quella scintilla quasi invisibile di libertà quando in quei momenti è sua sorella ad essere dietro le sbarre della sua gabbia personale. Forse avrebbe dovuto accompagnare sua madre in ospedale, passarle un braccio sulle spalle in sala d'attesa e condividere in quel modo la sofferenza per alleggerirle un po' la schiena; non avrebbe dovuto lasciarla da sola, perché stare male da soli è quanto di più terribile esista al mondo e lo sa benissimo. Non c'è mai nessuno quando la vita lo schiaccia, quando Erwin lo annulla, quando macchia la federa del cuscino di lacrime che di mattina spariscono come inchiostro magico come se non fossero mai esistite, come se tutto quel dolore non fosse mai esistito. I raggi del Sole hanno lo strano potenziale terapeutico di far guarire tutto, di nascondere, di fingere che nulla sia accaduto e che si può ricominciare daccapo per sempre in un ciclo perpetuo e infinito; Luna e stelle sono solo sorde e mute testimoni. Fa paura provare tanto dolore da temere di cadere a pezzi ed essere soli, circondati solo dalle mura fredde di un appartamento che sembrano fatte dello stesso cemento armato e calcestruzzo di quelle di una prigione; le sbarre sono mentali, e forse Levi pensa che preferirebbe il metallo freddo.

"Ti va bene il sushi? Mikasa mi ha appena scritto che ha voglia di giapponese."

Non si è accorto che sono fermi fino a quando Eren non parla, scrutandolo in una posizione contorta con una mano stretta attorno al telefono e l'altra sulla maniglia interna della portiera, pronto ad aprirla. È tanto che non mangia cibo giapponese, ad Erwin non piace e quindi non escono mai per concedersi dell'ottimo sushi o del ramen, anche se Levi lo adora.

Forse la sua voce è intaccata da un trillo un po' troppo entusiasta quando accetta, i raggi del sole gli colpiscono l'argento degli occhi e lo fanno brillare non appena esce dall'auto e lancia uno sguardo veloce a palpebre socchiuse al Palazzo della Pace, ammirandone la torre più alta e quel poco che riesce a scorgere del tetto bluastro. La luminosità strana di quel Sole pallido invernale pare volerglisi conficcare nella fronte con stilettate affilate. Rimpiange di non avere dietro i suoi occhiali da Sole mentre Eren gli fa cenno di seguirlo allegro, facendogli strada. Non sembra minimamente infastidito dal Sole come lo è lui, mentre riga dritto e lo riempie di aneddoti sul rapporto con sua cugina che beve avido.

"Io e Mikasa adoriamo questo ristorante dove ti sto portando ora, ci veniamo spesso insieme. Calcola che ormai conosciamo il proprietario e tutti i dipendenti, credo siano passati tre anni dalla prima volta che ci abbiamo mangiato. Se non sbaglio, è stato al compleanno di Jean. Quella volta che ha bevuto così tanto sakè da non riuscire a reggersi in piedi e da dichiararsi a tua cugina completamente ubriaco fradicio."

Levi grugnisce appena per camuffare una risata, lo sguardo che saetta veloce su di Eren, sugli occhi nostalgici e brillanti per quel ricordo ilare che porta bene impresso nella memoria. Gli scalda il petto il motivo per cui basti il pensiero di sua cugina e della sua dolce metà per strappargli un sorriso tenero. Vuole bene ad entrambi e si vede davvero.

"Davvero Jean si è dichiarato in quel modo?"

Decide di far vibrare nell'aria, fievole come una lingua di vento freddo, quell'interrogativo che gli ha premuto troppo intensamente le labbra. Mikasa non gli ha mai raccontato di come lei e Jean si siano confessati attrazione e sentimenti, di come si siano piaciuti a vicenda così tanto da scegliersi; il sorriso che si allarga sul volto di Eren lo assicura che non mente, che è stata una scena esilarante e genuina, una di quelle capaci di far ridere il cuore caldo. Una delle tante che non avrebbe voluto perdersi.

"Sì, e poi le ha vomitato sulle scarpe. E breve storia triste, erano décolleté scamosciate nuove di zecca. Non avrei saputo dire se Mikasa avesse voluto baciarlo o stenderlo con un calcio rotante."

Levi ride, ed Eren lo guarda con un qualcosa di simile alla tenerezza negli occhi prima di parlare di nuovo, la voce flautata e melodica quasi rotta dal sorriso che gli scopre i denti. È sicuro che la sua di voce non sia capace di catturare, esprimere e far risuonare emozioni in quel modo che gli risulta quasi disarmante per quanto è crudo.

"Beh, forse avrebbe scelto il calcio rotante, considerando che Jean aveva appena rimesso anche l'anima."

Quando continua a ridacchiare, sente la sua voce piatta e smorta, come se qualcuno dentro di lui stesse tenendo a biglia stretta sensazioni e stati d'animo, impedendogli di fargli uscire e agglomerandoli in quella maledetta matassa che diventa ogni secondo più ingarbugliata e senza senso, opaca e squilibrata. Levi spera solo di non esplodere mai, perché sa per certo che potrebbe rimarrebbe fisicamente vittima del suo tumulto mentale.

Non sa se Eren riesca a notare quanto tutto di lui sia scialbo e atono, meccanico, quanto si senta un insieme di ingranaggi biochimici mandati avanti da una rassegnata e beffarda forza d'inerzia molecolare, sa solo che i suoi sguardi sono strani di qualcosa che non riesce a cogliere. Deve continuamente essere il castano a richiamare la sua attenzione durante il breve tragitto fino al ristorante e a distoglierlo dal grigio dell'asfalto o dai mattoncini rossi, perché per abitudine non alza mai lo sguardo e non tenta di instaurare discorsi che probabilmente all'altro sembrerebbero stupidi e insensati. Sta al suo posto come Erwin gli ha insegnato.

Quando entrano nel locale Eren saluta amichevole con una pacca sulla spalla un cameriere dai capelli color grano e rivolge un cenno della mano accompagnato un sorriso luminoso al cuoco, indaffarato a preparare piccole palline di riso uniformi dietro al bancone a vista dove sono esposti numerosi tagli di pesce freschissimo. Il biondo fa strada ad un tavolo da tre e Levi lo segue in silenzio e prende posto di fronte al castano, imbarazzato del fatto che Mikasa non sia ancora arrivata e col presagio del fiato caldo e arrabbiato di Erwin sul collo. Sperava che la cugina fosse già seduta ad aspettarli e che avrebbe alleggerito l'atmosfera tesa del suo silenzio, sperava che non avrebbe avuto tempo e occasione di pensare al marito, ma sente il fantasma delle sue mani grosse che gli pizzicano i fianchi; spera che il brivido che gli è corso lento e profondo lungo la spina dorsale non l'abbia fatto tremare visibilmente.

Guarda Eren, che nell'attesa impaziente di sua cugina inizia a spezzare il legno che unisce le bacchette usa e getta e a riempire le apposite ciotoline di salsa di soia; sembra frettoloso, quasi smanioso, il suo sguardo che scorre veloce sul menù quando inizia ad appuntare i numeri delle portate che desidera sul taccuino che gli ha lasciato il cameriere.

"Che fame assurda, cazzo..."

Mormora fra sé e sé, e Levi non è sicuro se dovrebbe replicare a quell'affermazione mentre il castano si alterna dallo scrivere cifre su cifre a guardare la porta scorrevole del locale. Insofferente, è esattamente in quel modo che gli appare quando raccoglie i capelli lasciati sciolti e se li lega alla buona sulla nuca in quella che pare la parodia di uno chignon sfatto. Una ciocca particolarmente ribelle sfugge alla presa dell'elastico.

"Non... Non li hai legati bene."

Forse è proprio la condizione di quella specie di libertà strappata e sorvegliata, al pari dell'ora d'aria che si concede ogni giorno ai carcerati, che lo fa parlare. Di norma non lo farebbe, pur avendo notato un particolare stonato come quello dell'acconciatura di Eren, starebbe zitto e se lo terrebbe per sé neanche fosse un segreto. Forse si sorprende addirittura, quando quelle parole gli lasciano le labbra.

Eren sbuffa frustrato poco dopo aver tastato dietro l'orecchio destro ed aver trovato la ciocca incriminata; si premura di afferrare per bene quella traditrice e di tirarla all'indietro quando lega i capelli in una crocchia più ordinata della precedente. Gli sta bene.

"Ogni santa volta devo sempre legarmi i capelli almeno due volte per riuscire a farla stare nell'elastico."

Sorride amaro alla lamentela annoiata del ragazzo, poi si mette all'angolino dei ricordi da solo; faccia al muro e immagini che gli scorrono davanti come framecolorati di un film.

"Ti capisco, era lo stesso per me."

Eren pare sorpreso, e quegli occhi sembrano diventare ancora più grandi e maledettamente espressivi; Levi invece vorrebbe solo staccarsi la lingua a morsi e bruciare le immagini delle memorie passate. Sarebbe molto più facile, se potesse trattarli come vecchie fotografie velate dalla patina giallastra del tempo.

"Portavi i capelli lunghi?"

Annuisce, tenta di divincolarsi di dosso quei pozzi di giada che esigono una risposta più completa, annaspa in quel mare di ricordi e gli pare quasi di annegare. Forse è una misera preda in gabbia sotto quelle iridi.

"Li avevo fatti crescere da adolescente, mi piacevano portati in quel modo... Poi quando avevo ventidue anni li ho tagliati e ho deciso di tenerli corti."

Eren lo scruta attento, come se stesse immaginando quei fili sottili di inchiostro e pece allungarsi per incorniciargli un viso più giovane e degli occhi più vivi, come se si stesse figurando mentalmente immagini vivide e abbaglianti di quel Levi ventiduenne e diverso che non ha mai conosciuto.

Quanto li amava i suoi capelli lunghi fino alle spalle che tutte le sue coetanee gli invidiavano e si passavano fra le dita stupendosi della consistenza; ancora si ricorda il rumore secco e terribile delle forbici da parrucchiere con cui il marito gli ha reciso le ciocche, la sua espressione terrorizzata e riluttante allo specchio, il pianto isterico che è seguito e il disappunto di Petra per aver adempiuto a testa bassa e a cuore aperto all'ennesima richiesta dell'amore di Erwin. Ci teneva tanto, ma ha rinunciato.

"Ti sta togliendo troppo, non mi piace"aveva detto la rossa con una preoccupazione negli occhi che gli aveva fatto accapponare la pelle quando gli aveva stretto le mani fra le sue e lo aveva guardato davvero come se volesse arrivargli al fondo dell'anima. "Inizi a sembrare una donna ed è disgustoso per un uomo", ripeteva lui, passandosi le ciocche fra le dita con un'espressione strana. "Corti ti staranno meglio, fidati di me."

"E come mai li hai tagliati?"

Si chiede se Eren cerchi un trauma in lui, perché la psicologia spicciola e discutibile che qualche volta ha letto fra le pagine delle riviste di gossip di sua madre imputa al taglio di capelli o al cambio di colore una voglia di lacerazione col passato, un trasmutare emotivo. È completamente atono quando parla, nonostante quelle bugie gli brucino sulle labbra e sulla lingua quasi come avesse appena morso un peperoncino intero e rischiano di farlo strozzare per il loro sapore pungente.

"Erano scomodi, d'estate mi davano particolarmente fastidio anche da legati. Credo che tu possa capirmi."

"Neanche immagini quante volte ho provato l'impulso di prendere le forbici da scrivania di mio padre e darci un taglio una volta per tutte!"

Finga una risata forzata e monocorde allo sguardo ilare del castano e al sorrisetto divertito che gli piega le labbra perché l'inconscio gli suggerisce che è la cosa migliore da fare, che quella è sicuramente la reazione adatta e più consona al contesto spensierato in cui Eren deve credere di essere immerso. Non può lasciare che l'amarezza gli strisci fra le membra fino ad insediarglisi nel petto e mettervi radici; non può permettere ad Erwin di contaminare anche quel piccolo spazio dal sentore appena accennato di libertà che si è ricavato di nascosto. Il castano però lo guarda in un modo strano che gli fa venire voglia di scavarsi una buca proprio sotto quel tavolo e sotterrarsi.

"Scusate il ritardo!"

Mikasa è sempre bellissima, e quel vestito in lana tortora corredato da spesse calze nere ed un paio di stivali al ginocchio fa miracoli sulla sua figura alta e slanciata, esaltando ogni curva ottenuta col duro allenamento. Levi glielo ha sempre invidiato quel fisico tonico, anche quando andava in palestra e il suo corpo portava i frutti dei pesi che alzava e degli esercizi con cui lo scolpiva. Mikasa è più alta, ben proporzionata, più bella.

"Oh, non sapevo ci fossi anche tu!"

Lo sguardo metallico saetta veloce su Jean, un sorriso stampato sul volto mentre lui quasi trema al pensiero che è lui la croce di sua sorella, l'ancora troppo pesante che gli impedisce di salpare e gli tarpa le ali. Andrà sempre peggio, questo vorrebbe dirlo a sua cugina: che probabilmente dovrà rinunciare al karate e che quel vestito diventerà troppo corto, gli stivali troppo provocanti, il piercing al naso e il taglio sbarazzino una richiesta sfacciata e licenziosa d'attenzioni. Quanto è innamorata lei quando gli sorride tenera; quanto invece possono nascondere le gentilezze di lui, che le sposta la sedia per farla sedere e le va ad appendere il soprabito scuro?

Il cameriere è velocissimo nell'aggiungere un coperto per Jean, che prende posto accanto al castano e gli passa un braccio dietro le spalle con fare amichevole, attirandolo a sé per un mezzo abbraccio scomposto e sbilenco. Mikasa siede accanto a lui e gli stampa un sonoro bacio sulla guancia pallida, ungendola appena col burro di cacao che portava sulle labbra.

"Sempre dentro a quel coffeeshopstai, ancora un altro paio di giorni e mi sarei scordato com'è fatto il tuo brutto muso."

"E che gran perdita sarebbe stata, Yeager!"

Ridono, un suono cristallino e melodioso che vira d'intensità quando il biondo punzecchia giocoso il fianco di Eren, stringendogli la carne al di sopra dei vestiti. Lo vede nei loro occhi che quello è un gesto diverso, fraterno e gentile, non corrosivo come quando Erwin lo fa con lui per fargli notare gli sbagli, magari per rimetterlo in riga e sull'attenti come un soldato pronto a marciare quando sono in pubblico e non vuole alzare la voce. È anche mortalmente sicuro che la pelle del castano non si macchierà col marchio violaceo delle dita dell'amico né fra qualche minuto, né nei giorni a seguire.

"Ti piacerebbe...!"

Sbuffa divertito, Mikasa che li guarda punzecchiarsi alternando sguardi luminosi fra i due ragazzi e il menù; c'è una sorta di felicità strana sul fondo delle sue iridi che gliele fa brillare davvero, e allora Levi si sente di troppo. Forse avrebbe fatto meglio a restarsene a casa per non sporcare quel quadretto con la sua presenza.

Eren e Jean hanno un rapporto che non si aspettava, tutto gomitate, frecciatine e amore fraterno; sua cugina guarda il fidanzato come se fosse l'unica cosa capace di vedere davvero in quella stanza e in cambio riceve solo la trappola dentata degli stessi sguardi teneri. Levi ingoia più volte boli di saliva che gli sembrano acidi, amari e disgustosi come la peggiore medicina. Scribacchia sul taccuino qualche numero dal menù senza esagerare mentre la casa offre del sakè con cui si bagna le labbra per cortesia senza fare un sorso vero e proprio.

Le ordinazioni non ci mettono molto ad arrivare, il servizio è veloce ed efficiente, ma quei brevi minuti morti sono letali per Levi.

"Allora? Che si dice?"

Perde all'improvviso tutta la voglia e la disperazione con cui si è attaccato alla libertà quel pomeriggio quando Eren risponde alla domanda allegra di sua cugina. Vorrebbe dirgli di fermarsi, che non sa quello che fa, che non conosce le implicazioni nascoste dietro quello che dice e gli fa venire una gran voglia di lasciar andare il pianto isterico che inizia a premergli sul fondo della gola, ma tace come sempre. Quanto nasconde quella maschera sterile e consumata che si cuce addosso ogni mattino, scacciando dallo specchio lo sguardo pietoso del suo riflesso che lo guarda, spento e lacero, a volte nemmeno lui lo sa.

"Levi mi stava giusto raccontando dei suoi capelli lunghi."

Pare una granata, una bomba ad orologeria pronta ad esplodere e lui deve fare attenzione alla deflagrazione che rischia di abbagliarlo, ai frammenti che rischiano di colpirlo e di conficcarglisi nella pelle, allo scoppio che gli fa fischiare le orecchie di un suono acuto e insopportabile. Pare quasi un po' più spento e irrealistico quel tavolino dopo che Eren l'ha colpito in quel modo e Mikasa no, ti prego, non ti ci mettere anche tu e mostrami pietà perché ogni volta che provo a dimenticarlo anche solo per mezz'ora e a fare finta di vivere una vita che non mi appartiene, lui mi segue ovunque.

"E ci stava benissimo, se posso dire la mia. Non ho mai deciso perché abbia deciso di tagliarli e sono passati quanti anni? Cinque, sei?"

Cinque, pensa. Cinque anni di amore in tutte le sue sfaccettature, da quelle dolci come nettare d'ambrosia che l'hanno cullato in dolci fantasie, leggere e impalpabili come i petali dei fiori che Erwin è sempre stato solito regalargli e dolci come baci rubati a fior di pelle, a quelle oscure che si celano dietro di esse, non mostrandosi mai alla luce diretta come il lato oscuro della Luna. Rifuggono sguardi e nessuno le vede, nessuno le nota, nessuno le percepisce. Sono sfumature tanto sottili quanto subdole e bastarde.

Cinque anni in cui gli sembra di essere il fantasma del sé stesso di un tempo. Di quando ancora era pieno di entusiasmo e ogni mattina faceva il pendolare senza il terrore dei treni per raggiungere Rotterdam e frequentare il corso d'interior design che aveva completato con il massimo dei voti, di quando fremeva per quei primi incarichi di lavoro e stage in varie agenzie immobiliari che lo rendevano fiero di sé stesso e del suo percorso. Gli bastava poco, per essere felice. Gli bastavano quei primi stipendi, il sorriso sui volti delle coppie per cui disegnava e arredava la casa dei sogni e gli sguardi sfuggenti e interessati che scambiava col titolare di una delle più rinomate agenzie immobiliari di Rotterdam, con cui aveva ottenuto una collaborazione che gli fruttava a meraviglia sulla busta paga. Gli bastava sua madre col pancione e col sorriso negli occhi.

Non risponde a sua cugina, ma guarda sbieco Jean perché tu la farai soffrire e lei non lo sa, hai visto come ti guarda? È innamorata e non mentirgli, sei il peggiore dei bastardi. Come potrai fargli questo?Non ne può più di quel discorso, ed è disposto a tutto, tutto pur di distogliere l'attenzione da quegli sprazzi di passato che davveroavevano il sapore e il profumo della libertà; la beffa che gli fa il presente non riesce nemmeno a farglieli ricordare, talmente Erwin gli ha annichilito i sensi. E smettila di guardarmi, perché sono sicuro che appena troverò il coraggio di parlare, lo dirò a mia cugina. Glielo dirò cosa significa una relazione, non lascerò che tu le faccia del male e che l'inganni con un paio di occhiate tenere e rose fresche.

"Eren mi ha raccontato di come Jean si è dichiarato a te."

Non è quello giusto, Mikasa. Io non posso parlare, ma tu leggi fra le righe. Ti prego. Forse nessuno è quello giusto.

"E sei un bastardo! È imbarazzante, dannazione!"

Si lamenta il biondo, gettando la testa all'indietro mentre Eren ridacchia coprendosi la bocca piena col dorso della mancina e Mikasa quasi rischia di strozzarsi con un pezzo di sashimidi tonno. Ha notato che sua cugina ha evitato ogni tipo di fritto proprio come lui; lei probabilmente lo fa per la palestra e per mantenersi in forma, mentre Levi mentirebbe a sé stesso se dicesse che alla fine non ha avuto davvero i sensi di colpa per quel mezzo cartoccio di patatine fiamminghe che ha condiviso col marito.

"È stata una dichiarazione... Piuttosto singolare, direi."

Ridacchia la corvina, e Jean mugugna qualcosa sottovoce masticando parole che tanto assomigliano ad un "non sarei mai riuscito a dirtelo da sobrio, lo sai bene."

Vorrebbe ridere anche lui ma non lo fa; è semplicemente grato di aver spostato i riflettori sulla relazione di Mikasa e Jean e di essersi liberato del loro calore che iniziava ad imperlargli la pelle di sudore, a dirigere la sua mente in luoghi e tempi da cui deve stare lontano. Il passato lo scotta troppo, o forse a farlo è il peso dei rimpianti delle sue decisioni e di un animo troppo fragile.

Gli altri ridono di nuovo e non sa per cosa. Non tiene il ritmo dei loro discorsi, guarda i loro sorrisi e i denti snudati senza vederli davvero, suppone che si stiano lanciando battute e frecciatine di cui ignora la natura. Solo quando quelle risa cessano riesce di nuovo ad aggrappare il filo di seta sottile che lo tiene aggrappato alla realtà e a sottrarsi dal nulla che lo ha immerso, che ha respirato e che sente annacquargli i polmoni col suo liquido gelido.

"Tu piuttosto, dovresti muoverti a trovare qualcuno. Sei rimasto l'unico scapolo del gruppo."

"Scapolo, ma senti come parli! Sembri mia nonna. O una contadina del primo dopoguerra."

Jean rivolge una smorfia al castano alla sua replica, che ribatte con una linguaccia infantile; Mikasa li guarda intenerita.

"E tu ed Erwin, invece?"

Non se la aspetta quella domanda, non da Eren che lo guarda con gli occhi brillanti. Trema, trema dentro, per l'eterna ed ennesima volta padrone della sua disfatta. Ha tentato di deviare l'attenzione degli altri da sé, ci è riuscito per il misero tempo che quel serpente ci ha messo a mordersi la coda e a portarlo al punto di partenza, a restituire la sua voglia di individualità a chi appartiene. Ad Erwin, incisa a taglierino sulla carne tenera del cuore con le parole sacre della loro promessa di matrimonio in ferite ancora fresche.

Gli si chiude lo stomaco, quei nigirinon gli sembrano più buoni come i primi bocconi; il riso è insipido e il pesce crudo è viscido. Poggia le bacchette e ingoia un conato con lo sguardo basso, gli occhi che si specchiano nelle iridi verdissime di Eren perché ti prego, non puoi farmi questo, non qui e non ora.

Sente solo l'amaro della bile sul palato per qualche istante in cui il silenzio lo assorda e gli lascia le labbra schiuse in quella supplica afona. Tasta inconsapevolmente le ciocche corvine e l'undercut sul collo, odia quei capelli così dannatamente cortiche deve rasare almeno una volta alla settimana con quell'aggeggio apposito che Erwin gli ha regalato per un Natale di anni prima e di cui si ostina ad ignorare il nome.

Parla perché tutti lo guardano colmi d'aspettativa, di preoccupazione per quel silenzio, le iridi stranite; il cipiglio interrogativo e pensieroso che aggrotta le sopracciglia di Eren è la scintilla che appicca l'incendio.

Allora parla di quando ha incontrato Erwin, di quando era un ragazzo allegro, di quando l'amore di Kuchel era il perfetto specchio in quello delle iridi di Robert e Isabel era il coronamento di un sogno meraviglioso, condiviso e tanto sofferto. Parla di quando aveva i capelli lunghi fino alle spalle, e lascia che il lato oscuro della Luna rimanga lì dov'è.

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SPAZIO AUTRICE

Per una volta ho aggiornato entro i canonici 15 giorni, mi commuovo. Questo capitolo doveva comprendere anche la parte del passato di Levi ed Erwin, ma ho deciso di rimandarla al prossimo per non allungare troppo e portarvi un capitolo eterno e pure in ritardo. Jean mi fa sempre bene al cuore.

Alla prossima!

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