Non disperdere nell'ambiente

Von SugarGarden93

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La copertina appartiene all'opera del fotografo svedese Eric Johansson e meglio rappresenta le intenzioni di... Mehr

1. La Ragazza Dei Bigliettini Colorati
Parte I
Parte II
Parte IV
Parte V
2. Forse Ho Solo Dormito Meglio
Parte I
Parte II

Parte III

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Von SugarGarden93

A quanto pare avevano preso la cosa molto seriamente. Non salivano più i frattoni, la calce e i mattoni, ma solo materiale umano. Dovetti per forza chiudere le finestre e abbassare le tapparelle. Non riuscivo più ad ascoltare i miei pazienti perché l'occhio cadeva sempre su quel via vai di gente che saliva lassù da ormai quattro giorni. Mancava solo la biglietteria, ma era l'unica volta che il biglietto era gratis.

Un circo di gente che si metteva a ciondoloni vicino a lei. Sempre come lei. A parlare con lei. E una volta finita la seduta tornavano giù di nuovo. Più contenti di prima? Non era chiaro. Forse neanche a loro.

Iniziarono molto pochi, tipo due o tre persone al massimo, fino a formare gruppetti di sette, otto anche dieci, venti persone. E io ero solamente una spettatrice che in quei giorni aveva raccolto una cinquantina di biglietti, senza averne tenuto neanche uno.

Però mi turbava, era snervante.

Avrei potuto esserci anche io, ma l'agenda era piena di impegni e ogni secondo perso a guardare quella ragazzina era un secondo perso per chi aveva bisogno di me. Cercai di rimanere concentrata e non pensare troppo al caldo o ai discorsi che non potevo sentire. Dovevo chiudere.

Nel tempo quella ragazzina divenne mito. E successivamente uno scoop televisivo. Iniziarono a notarla redattori, giornalisti e altri curiosi. Così li chiamavo.

Come l'acqua del mare può essere cristallina e trasparente il giorno prima e sporca e sudicia il giorno dopo, allo stesso modo su quel piano in costruzione fu allestito un set televisivo. Qualche cinepresa, due o tre microfoni, un piccolo sistema di illuminazione che catturasse bene la sua immagine, monitor e casse acustiche. Tutto come se fosse al suo comando. Quella ragazzina per fortuna parlava e respirava. Non scriveva solo, ma vedeva tutto e dava indicazioni a tutti. Catturava l'attenzione. Era brava in questo.

Ma questo voleva dire che l'avrei vista in televisione, su qualche rete privata o pubblica. Dipende dall'importanza che poteva avere.

Il sabato ricevevo solo di mattina. Il pomeriggio potevo seguire l'eventuale diretta. E così fu.

Aspettavo quel momento da quando vidi per la prima volta quella felpa qualunque. Aspettavo il primo piano. Aspettavo di sentire la sua voce. Aspettavo di seguire il filo dei suoi discorsi, di vedere la faccia dell'altro interlocutore. Ero riuscita a non distrarmi durante le sedute alzando il tono della voce così da lasciar passare eventuali brusii.

Era tutto pronto.

Eccola lì. Di una bellezza folgorante. Non scostava mai la ciocca dalla fronte e guardava in camera con gli occhi mezzi chiusi, vividi e lucidi, azzurri e incantevoli.

Alzai il volume.

Non era la prima diretta, non c'era alcuna presentazione, ma avevo capito che si chiamava Miami, dieci anni appena compiuti. Le avevano riservato un grande spazio sul palinsesto per seguire le sue conversazioni con quelli che salivano lassù. Nessuno sapeva cosa avessero in comune quelle persone, ma certamente il biglietto era la sfida più ardua. L'abbinamento più difficile, tutto affidato al caso, senza dubbio. Non era scritto da nessuna parte.

Arrivò il primo.

Il signor Jeremy West, un musicista sulla sessantina che praticava molti generi, tra cui la musica contemporanea. Non era neanche di quelle parti. La voce si era sparsa molto in fretta. Si mise vicino a lei accovacciandosi con qualche acciacco. Con il suo biglietto sempre ben stretto.

Lei attaccò dopo qualche istante:

« Cosa c'è scritto? » il musicista spiegò il biglietto senza neanche guardarlo:

« Origami a forma di farfalla »

« Non sarei capace di farne uno » ammise « tutte quelle pieghe così difficili da fare »

« Però devi ammettere che il risultato finale è stupefacente »

« Infatti rimango sorpresa, come fa ad uscire una farfalla da un foglio di carta? »

« La farfalla non esce, sono le tue mani che creano la farfalla »

Il suo viso rimase sorpreso di qualcosa che già sapeva. Si stupì lo stesso. Aveva finalmente una chiara visione dell'ovvio.

« Tu saresti in grado di creare una farfalla? » il signor Jeremy fece un largo sorriso. Non smetteva di stirare quel bigliettino, come a seguire una qualche cadenza.

« Purtroppo le mie dita sono diventate tozze con gli anni » le mostrò le mani curate « non ho più la lucidità per seguire tutte le linee »

« Però tu sei un musicista... Le farfalle non sono musica? »

« Beh, in un certo senso è così, le farfalle possono diventare un pretesto per fare della buona musica » iniziò a muovere le mani come un prestigiatore « è come uno spettacolo di magia, ci sono il flauto, il clarinetto e il violino che con il loro suono sono in grado di riprodurre la stessa solarità »

Lei sembrò voler imitare il musicista nei suoi movimenti, alla fine si limitò a fargli una specie di verso. Poi si fece seria.

« Ti è mai capitato di guardare il cielo e vedere uno sciame di farfalle? »

Il signor Jeremy seguì gli occhi della ragazzina fin dentro il cielo. Quel giorno era limpido, lontano da qualsiasi sofferenza. Per un attimo furono un tutt'uno. Si era creato un silenzio scenico che gli operatori non poterono risolvere.

Non sembravano cercare qualcosa nel cielo, piuttosto lo avevano già trovato.

Lo stavano solo ammirando in tutta la sua bellezza. Lo sapevano solo loro. Le telecamere non guardavano in alto, ma giravano attorno al punto in cui si trovavano. Ingrandivano le forme e ruotavano sul posto riprendendo una piccola fascia stretta di cielo che precludeva ogni loro percezione al pubblico.

Poi il musicista si alzò e andò via. Senza proferire parola. Anzi abbastanza di fretta. Come se fosse rimasto turbato.

La mia testa macinava ragionamenti e dubbi. Gli stessi dubbi che mi ero fatta qualche giorno prima, ma che non volevo prendessero quota.

Dopo di lui venne il signor Tom Klark, conosciuto dalle mie parti come "la borraccia". Sempre in compagnia di una bottiglia di brandy, ma quella volle fare un sacrificio. Lasciò il naso rosso e l'apparenza di un uomo sano a casa per confrontarsi direttamente con lei.

« Cosa c'è scritto? » quella domanda ormai la divertiva. Anche lui senza leggere:

« Riflesso allo specchio » quasi gli scappò il bigliettino dalle mani tremolanti.

« Perché ti tremano le mani? » cercò di tenere ferme le mani il più possibile. L'occhio della telecamera riprese tutto. Proprio come volevano.

« Un piccolo disturbo » si riprese subito « un po' di nervoso, i grandi sono così, hanno paura dell'altezza »

« E dell'altezza dello specchio tu hai paura? »

« Ci convivo praticamente ogni giorno »

« E non ti fa paura? »

« Il brandy mi aiuta a non pensarci troppo » Miami si girò con tutto il corpo verso di lui, incuriosita da morire.

« Anche a te capita di essere come sulle montagne russe? »

« Più che altro mi lascio trasportare dal vento... » disegnò con le braccia una tavola piatta « così, mi ritrovo d'un tratto ad essere leggero come una piuma » sapeva nascondere bene il suo stato di bevitore incallito dietro l'immagine che si era creata di fanciullo innocente. Fino a prova contraria. Lei teneva le braccia sulle ginocchia e seguiva il suo peregrinare nel regno della fantasia.

« Ma se sei così leggero perché non scappi via? »

« Eh, ci sono cose che mi tengono ancorato a questo mondo »

« E se ce n'è fosse uno migliore ci andresti? »

« Mi basta la mia immagine allo specchio per provare ad immaginare un mondo migliore »

« Essere leggero allora non è così bello? »

« Solo per chi ha potuto esserlo veramente » tenne un dito davanti al naso come a fare la predica. Il tremore era scomparso, cercò negli occhi di Miami quella leggerezza che non lo aveva mai cercato. Se non era lui a cercarla dentro un bicchiere di brandy.

Non voleva piangere, ma si sforzava di farlo.

Lei lo invitò a guardare il cielo, per trovarci dentro un riflesso che non fosse quello del signor Tom Klark. Ma di qualcuno più vicino a lui, magari meno brillo e tossico. Più leggero, certo, ma non così tanto.

In quel momento fu così, sembrò disgustato per ogni goccia di alcol ingerita. Allentò piano piano il desiderio di gettarsi di nuovo nel primo cassonetto, vide solo il sole che faceva la sua parte.

Si susseguirono altri curiosi personaggi.

Un avvocato, un medico, un bambino più piccolo di lei, un vagabondo, una disoccupata, una sarta, un single libero professionista, un pescatore e una moglie infelice. La più bella sitcom del mondo a mio parere. Uno scambio continuo di vicissitudini che lasciavano alla fine un sapore particolare.

Il mio pane.

Miami insegnava a guardare il cielo con occhi diversi, ti costringeva prima o poi ad aprire il bigliettino per trovarci un senso. Ti faceva diventare più piccolo di lei. E ci riusciva perfettamente.

Verso le cinque e mezza il programma finì il suo tempo. Balzai immediatamente fuori casa per andare in avanscoperta. Volevo vedere che cosa avrebbe fatto Miami una volta terminata la diretta. Scesi coi tacchi per non sembrare troppo curiosa, quasi disinvolta, ma affannata. Feci l'incrocio di fretta non sentendo più le gambe. I cameraman si diradarono in fretta, si tolsero gli occhiali da sole e qualcuno fece un applauso.

D'un tratto intorno a lei ci fu un silenzio di tomba.

Mi misi a spiare dietro la tapparella nel mio ufficio. Feci filtrare più luce possibile nel mio occhio per poter vedere ogni suo singolo movimento.

Rimase seduta per dieci minuti.

Poi finalmente si alzò. Non c'era nessun operaio ad aspettarla. Era rimasta sola completamente. Scese la scala a pioli accanto a lei. Ma non sarebbe potuta arrivare a terra. Perché non usare l'ascensore di servizio per gli addetti?

Preferì scivolare via da un tetto ad un altro. Passeggiò sulle tegole delle case adiacenti. Come una ballerina. Non scese mai a terra. 

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