― 𝐌𝐢𝐬𝐚𝐧𝐭𝐡𝐫𝐨𝐩𝐲 *̥˚...

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" Facciamo schifo entrambi: tu perché hai paura della putredine ed io perché ci sguazzo dentro. " ✧✧✧✧ Dove D... More

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By teddyhuman

ᴄᴀᴘɪᴛᴏʟᴏ V

[ 🌲 ]

Chūya sposta lo sguardo su Dazai, lascia che i suoi occhi vitrei scorrano sulla sua figura senza però dedicargli attenzione, quasi stesse parlando da solo:

-Apri la porta di casa, non ho intenzione di farti mettere piede nella mia.
E non aspettarti gentilezza, non ne meriti.-

Una volta detto ciò torna all'interno del suo appartamento chiudendosi la finestra alle spalle, con un perforante rumore di legno e vetri a fare da punto fermo per le sue parole.
Non ha nemmeno voluto vedere l'espressione del moro, è rientrato nella sua cucina senza il coraggio necessario a fronteggiare la voce ferma di Dazai ancora una volta.
Cosa pensa di trovare in quella casa estranea?
Cosa gli potrà mai dire quando lui stesso non sa di cosa parlargli?
Perché dopo tanto tempo i ricordi si sfilacciano, ed un uomo come lui non riesce nemmeno più a distinguere cosa è vero e cosa è falso.
Attraversa il corridoio umido della sua abitazione senza rendersene conto, si muove incerto nella realtà confusa di quella sera.
La colpa di questa sensazione è da attribuire all'orologio che ticchetta, alla buio che inghiotte i mobili, alle stelle che non si vedono ed all'aria fredda che congela i polmoni ad ogni respiro.
In breve tempo è davanti all'uscio del vicino, non trova nessuno ad aspettarlo lì se non una porta semi aperta ed una figura affusolata seduta ad un tavolo, con indosso il più falso ed accomodante dei modi.
Si chiude la porta dietro le spalle spigolose, l'altro gli fa cenno con la mano muovendo le dita in un rapido gesto, che in quella desolante penombra sembra spasmodico come il battito d'ali d'un colibrì, intimandogli d'accomodarsi
su una delle sedie, senza imbottitura, del suo tavolo di vetro.
Chūya cammina con la schiena ricurva ed i nervi tesi, aggirandosi per l'ampio spazio come un animale indifeso e pronto a diventare preda.
L'altro, dal canto suo, non fa nulla per rendere l'atmosfera un minimo più accogliente se non guardare il fulvo con occhi attenti, seguendo ogni suo delizioso movimento tremante:

-Fammi indovinare: non viene spesso gente a casa tua.-

Chiede il rosso, quasi stizzito:

-Perché nella tua?-

Replica rapido il moro, con un sorriso mefistofelico ad adornargli le labbra.
Si beccano a vicenda come gabbiani, senza un vero motivo se non quello di darsi fastidio.
Chūya si siede davanti a Dazai, posa le mani giunte sul tavolo e si sporge un poco verso il bordo della sedia assumendo così una posa da bravo scolaro, sintomo di un'abitudine radicata ma mai voluta.
L'altro, di contrario, è stravaccato sulla seduta con le gambe magre allungate sotto al tavolo, mentre le spalle poggiano sullo schienale senza alcuna parvenza di buona postura.
Tira fuori il rosso pacchetto di sigarette dalla tasca dei suoi grigi pantaloni da casa, sbiaditi e troppo corti, gettandolo sul tavolo con noncuranza.
L'altro sobbalza per via dello schiocco acuto che il contenitore produce impattando con il legno, Dazai gli fa un ammicco con la testa guardando prima lui poi il pacchetto incartato da plastica lucida e leggera:

-Non fumo.-

Nessuna risposta all'affermazione del rosso, solo un silenzio opprimente ed un sorriso ironico del castano che sembra dire
"Davvero?"
senza bisogno nemmeno di schiudere le labbra.
Chūya si muove rapido afferrando il pacchetto con frenesia inutile e fuori luogo, come se in quella stanza qualcuno potesse giudicarlo per questo.
Il suo modo di portare la sigaretta alla bocca con le dita che tremano un poco intorno ad essa, quasi non riuscissero a sostenere l'infinita leggerezza della colpa di quel gesto, e le labbra piene che faticano a tenerla dritta ricordano ad Osamu i tempi passati, quando fumava di nascosto nei bagni della scuola con i piedi sul gabinetto ed il vociare della bidella nelle orecchie.
Il fulvo dal pacchetto tira fuori anche l'accendino dalla fantasia infantile, la rondella seghettata di esso scatta sotto il suo pollice venendo accompagnata dal flebile soffio del gas che prende fuoco, grazie ad un minuta scintilla incandescente.
È un breve istante ma il volto di Chūya si tinge d'ocra e di sole come il sorriso lieto di un bambino al tramonto, la minuta fiammella scossa dal suo respiro vibrante gli si specchia nella pupilla scura, sembrando che stia per essere inghiottita dalla sua melanconia.
Quella breve e fugace luce sparisce improvvisamente così com'è arrivata, e mentre dalle labbra del fulvo scivolano nuvole grigie le sue mani grondano di scura penombra, pronte a rovistare nella sua pila di ricordi e menzogne:

-Da bambino vivevo nel centro di Yokohama insieme ad i miei genitori.
Mia madre era una donna splendida, ogni suo gesto era accompagnato da una regalità così soave e radicata da sembrare finta.
Ancora ricordo la sua abitudine d'indossare vesti tradizionali in casa, mi ricordo anche che dava grande importanza ad ogni misera e stupida tradizione.
Era cagionevole di salute, eppure questo non le impediva d'imporre la sua presenza sublime ma severa. Nonostante la corporatura fragile e la tosse insistente, ogni suo singolo respiro sembrava gridare a squarciagola quanto fosse potente ma in quel modo così femminile, affascinante, che solo lei poteva permettersi di avere.
Possedeva quel tipo di fascino che poteva rubare i cuori ma che, al contempo, poteva anche far crollare imperi.
Mio padre era diverso: lui era forte, aitante, burbero, capace di grande forza d'animo e superbia.
Ogni cosa in lui era così...grandiosa e mascolina, il suo stesso volto decantava a gran voce la sua poderosità, il suo pugno di ferro, facendo da specchio ad una personalità così rigida da spezzare tutte le altre.
Non ho mai potuto reggere il confronto, la corporatura esile ripresa da mia madre e la mia invalidante sensibilità mi hanno sempre reso la vittima preferita della sua magnificenza.
Era un uomo in grado di piegare al suo volere chiunque ma incapace di crescere un figlio.
Aveva consapevolezza di questo e me lo diceva ogni qualsivoglia volta ne avesse l'opportunità, non che abbia mai pronunciato queste parole, ma ogni suo gesto, ogni sguardo, mi ripetevano sempre la stessa cosa
"Non posso farlo, semplicemente non chiedermelo perché non posso."
A sua discolpa posso dire che non era un uomo cattivo, ero io che non ero in grado di capirlo.
Il mio essere così inferiore e misero davanti alla sua grandiosità me lo rendeva un essere totalmente incomprensibile.
Ma effettivamente molte cose mi erano incomprensibili, quando ero bambino.
Ad esempio non capivo cosa significasse aver fame.
Con questo non intendo dire d'essere stato ricco, non sono così banale, voglio dire che non mi sono accorto una volta sola d'aver mai avuto lo stomaco vuoto.
Ricordo mia madre che mi diceva
"Devi aver fame, è tutto il giorno che giochi con i tuoi amici, ti va la torta?
Ne abbiamo ancora un po' in cucina."
Ed io, per compiacerla, le sorridevo assecondandola mentre mordevo quella fetta di torta glassata.
Ma quello che lei intendesse per fame mi resta un mistero. -

Chūya sospira ridacchiando leggermente con lo sguardo basso, le dita flessuose giocano con il filtro coperto di carta ocra della sigaretta e per un misero attimo Dazai la vede, quella donna splendida che l'altro gli ha dipinto ora è nelle sue dita candide:

-Non so se io stia cominciando a raccontare da troppo indietro o se magari tutto questo sia solo un inutile straparlare, il che è molto probabile.
Non sono sicuro di quando io abbia iniziato ad avere paura, ma so che è iniziato con i miei genitori.
Non do la colpa a loro, che sia ben chiaro, se io non sono incapace di vivere con la schiena dritta e la testa alta loro non posso farci nulla.
Però mi hanno insegnato che gli esseri umani si deludono facilmente, che sono contraddittori, incomprensibili, e per questo pericolosi.
Con il tempo compresi che il loro essere volubili e criptici era un ostacolo troppo grande per essere superato con indosso le mie vesti, così iniziai a fingere creando una versione diversa di Chūya Nakahara per ogni persona con cui avevo a che fare.
Non stai capendo?
Non ti giudico, alcune volte nemmeno io riesco a tenere il passo con quello che penso.
Ti spiego, con mia madre ero perfetto: i miei pantaloni erano sempre puliti e le mie ginocchia non presentavano mai sbucciature; avevo una calligrafia impeccabile, voti eccellenti, una pronuncia priva di qualsiasi inflessione dialettale, od errore che fanno comunemente i bambini.
Davanti alle sue amiche vanagloriose ero affabile, sorridente, non facevo i capricci ne tantomento piangevo; conoscevo a memoria il galateo ed apprezzavo l'arte del tè come apprezzavo l'avere una vasta conoscenza in campo botanico e floreale; mi lasciavo crescere i capelli, come lei desiderava e mi vestivo come lei voleva che io mi vestissi.
Questo è il Nakahara che mia madre desiderava e che tutt'ora crede che io sia, non ho mai sgarrato una sola virgola della mia recita, nonostante siano passati anni io continuo ad impersonare quel ragazzo femmineo e caro che colma, in maniera molto misera, il suo rimpianto di non aver potuto mettere al mondo una figlia femmina.-

Si porta la sigaretta alle labbra chiudendo gli occhi per qualche istante, sotto le palpebre i suoi bulbi fremono così come le sue mani che temulano nervose.
Il suo petto si gonfia un poco e l'estremità bruciata della sigaretta arde di brace, accecando gli occhi dello spettatore silente e facendo volare via della leggera cenere.
Lascia che il fumo scivoli dalla sua bocca, fa sì che gli accarezzi le labbra ed il volto mentre, nel buio della sua cecità e nel silenzio del curioso, tenta di rimettere in ordine le confuse parole successive:

-Con mio padre era diverso, lo ero io e lo era l'effetto sortito dalla mia messinscena.
Ero l'uomo forte e sicuro di sé, che indossava la cravatta perché secondo lui "i ragazzi si devono vestire eleganti, anche solo per uscire con gli amici"; m'intendevo di borsa e mi fingevo infervorato davanti ai dibattiti politici, come se davvero m'interessassero; ridevo fragoroso alle sue battute e mi comportano come se avessi trent'anni.
A dire il vero mi comportavo come lui, ma si vedeva lontano un miglio che era una farsa, non importava quanto io m'impegnassi o perfezionassi la mia "arte", semplicemente non potevo essere come lui.
Ma come potevo se non ero in grado di comprenderlo, di prevedere le sue mosse?
Lui che mi minacciava con la cinghia ma che poi, davanti alla mia più totale approvazione del suo gesto, si fermava lasciandomi da solo su un pavimento gelido con una cinta di cuoio duro davanti alle ginocchia.
Lui che anche solo mettendomisi accanto mi umiliava con la sua mascolinità, mostrando a tutti quanto il mio aspetto androgino e gracile fosse disgustoso, specchio di un interno ancora più fragile.
Con lui non funzionò mai nulla, per questo decisi di allontanarmi frequentando un'università lontana, ma che comunque sapevo essere all'altezza delle sue aspettative.
Da lì in poi, essendo onesti dalle scuole medie in poi, vi furono altri innumerevoli Chūya Nakahara.
Fui il buffone, lo spavaldo, il gentile, il romantico, il cattivo, l'amante, il drogato: potremmo parlare di questo per tutta una vita e comunque non ci basterebbe.
Se ti avessi incontrato prima sarei riuscito a creare una versione di me stesso che anche tu avresti apprezzato, cucita su misura per i tuoi bisogni.
Così ho speso la mia vita adattandomi agli altri come fa l'acqua nei bicchieri, cambiando forma ed attitudine in base al mio interlocutore, all'occasione, al luogo.
Ho vissuto nel terrore che qualcuno potesse scoprire le mie buffonate, i miei inganni, vedendo quanto in realtà fossi corrutibile, debole e disgustosamente inferiore rispetto a chiunque.
Però poi dopo tanti anni passati a nascondere la mia vera identità mi sono reso conto di non averne più una, ad un certo punto mi colpisce dritto in faccia il fatto che il mio essere ha sempre avuto valore solo attraverso agli occhi degli altri e che adesso appartiene proprio agli altri, frammentato in miriadi e miriadi di menzogne, lasciando a me solo un pugno di mosche.
Quindi mi sono chiesto: che senso ha vivere così?
Perché devo continuare a fingere?
Ma soprattutto, per chi devo continuare?
Ora che non ho più nessuno, ora che ho allontanato la mia famiglia e chiunque altro io abbia mai conosciuto, non ho più senso d'esistere
Dopo tanti anni passati ad essere quello che gli altri cercano cominci a credere che tu non possa fare altro.
Ti dimentichi come si faccia ad essere altro.-

Così Chūya tace tenendo tra le dita un mozzicone spento e consumato da nulla se non il tempo, ora le sue mani non tremano più e la sua seduta impeccabile si è persa in una posa stanca, non affranta, triste o addolorata, solamente stanca: come se quella schiena ricurva potesse essere lo specchio di anni passati senza capire nulla di quello che stava accadendo.
Dazai si alza dalla sua sedia facendo strusciare la zampe sul pavimento, provocando un rumore stridente e fastidioso al punto da far accapponare la pelle e con pochi, lenti e sordi passi si avvicina al fulvo.
Si appoggia al bordo del tavolo proprio accanto a lui, tiene le braccia incrociate al petto mentre osserva la sua schiena spigolosa.
Schiude le labbra pensoso ed indeciso tra il parlare nell'unico momento in cui gli è, e mai più gli sarà, concesso di farlo oppure dare retta al suo orgoglio, costruito ma gelosamente custodito.
Allunga una mano verso il volto dell'altro prendendo tra le dita acri di tabacco un suo boccolo delicato e freddo, come se fosse normale, come se quel piacere fosse diventato un vizio grazie al tempo.
E Chūya lo lascia fare:

-Io non odio le persone, od almeno non da sempre.-

Così il posto della voce acuta e gracchiante del rosso viene occupato presto dal quella più calda e profonda di Dazai:

-Inizialmente le invidiavo, le invidiavo con tutto me stesso.-


Angolo autrice
Comincio con il dire che la parte in cui Chūya dice di non conoscere la fame e quella in cui parla delle cinghiate, sono ispirate rispettivamente da lo squalificato (Osamu Dazai) e da lettera al padre (Franz Kafka).
Scrivere questo capitolo è stato un parto, comunque lo faccio finire con la BIG CONFESSIONE di Dazai, e vi ringrazio di essere arrivati fin qui.
Ve se ama.
Teddyhuman

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