𝕿𝖗𝖚𝖊 𝕮𝖔𝖑𝖔𝖗𝖘|| P.D

By thanatosi

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You were red and you liked me because I was blue. But you touched me and suddenly I was lilac sky. Then you d... More

Prologo
01| Decisioni stupide
02| Niente cazzate
03| Me la fai la Dybala Mask?
04| Non mi sembra una buona idea
05| Pareggio
06| Festeggiato
07| Apnea
08| Mierda
09| Tutta colpa della neve
10| I pazzi vanno assecondati
11| Un posto migliore
12| 2-1
13| Per te
14| Ma non potevi innamorarti di una persona normale?
15| Esprimi un desiderio
16| Cose buone
17| Com'era Madrid?
18| Quello di cui hai bisogno
19| Puoi dirmelo?
20| Non è mai una buona idea
21| Voglio solo che tu sia sempre felice
22| Non con lei
23| 10
24| 00:00
25 | Va tutto bene, te lo giuro
26| Lunedì (bianco)nero
27 | Tsunami
28 | Fino alla fine
29 | L'unica cosa che conta
30 | Amorfoda
32| Nero
Epilogo
𝕽𝖎𝖓𝖌𝖗𝖆𝖟𝖎𝖆𝖒𝖊𝖓𝖙𝖎 𝖊 𝕹𝖔𝖙𝖊

31| Bianco

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By thanatosi


(19 maggio)

La prima cosa che pensò quando riaprì gli occhi fu che forse quella fine se l'era meritata a pieno, e non poteva scaricare la colpa su nessuno.

Una luce bianca accecante le bruciò gli occhi e tutto quel candore che la circondava non faceva altro che innervosirla.

Il medico che l'aveva visitata le aveva detto che sarebbe uscita entro un paio di giorni, salvo complicazioni. Olga invece le aveva chiesto di non preoccuparsi e restare calma.

Visto dall'esterno sembrava tutto più semplice, come se gli aghi nelle braccia non bruciassero, come se non avesse avuto costantemente voglia di vomitare. Come se non avesse finito tutte le sue lacrime e ora, dai suoi occhi non usciva più niente. I singhiozzi c'erano sempre, ma era un pianto spento il suo, finalizzato a se stesso, senza la minima intenzione di impietosire gli altri.

Aveva chiesto scusa e non sapeva nemmeno a chi. Forse a se stessa, perché alla fine cosa restava?
C'era solo lei a lottare.
Non c'era più nessuno.
Non c'era lui.

Suo padre era rimasto lì, solo che Idie non poteva saperlo, non l'aveva visto. Era rimasto fuori dalla porta, immobile, senza sapere cosa fare

Però c'era.

Erano le sette di sera, circa. La Juventus aveva alzato lo scudetto al cielo e Gigi Buffon aveva detto addio a quella squadra che amava e rispettava da diciassette anni.
In un altro momento storico, Idie sarebbe andata allo Stadio, avrebbe pianto dalla commozione e poi festeggiato la vittoria.

Invece.

Quando la porta si aprì lentamente, sbuffò. Aspettava di ritrovarsi difronte all'infermiera con l'odore di disinfettante addosso e i modi sgarbati che l'avevano urtata poco prima.

Invece, due occhi trasparenti la stavano fissando.

Paulo se ne stava con le spalle appoggiate alla porta, la maglia celebrativa della Juventus addosso e una sciarpa (bianconera) come bandana sulla testa.

In un'altra situazione, Idie l'avrebbe preso in giro fino a farlo innervosire o sospirare.
In quella situazione, Idie pensò a quanto fosse ridicolo tutto quello.

Si studiarono per un po', soppesarono gli sguardi e poi li distolsero (prima Paulo, poi Idie).

Idie era senza guance, le braccia più sottili e le labbra gonfie. La pelle era cadaverica, sotto agli occhi c'era ancora qualche residuo di trucco nero. Se ne stava stessa sulla branda rialzata e Paulo si rese conto di quanto fosse bella lo stesso, e di come andasse bene sempre e comunque, anche tra le mura di quell'ospedale.

E allora avrebbe voluto urlare, prenderla anche a schiaffi forse e questo sarebbe andato contro a tutto quello che gli era stato insegnato, contro la sua morale e la sua etica.
Ma semplicemente non ce la faceva a vederla così e sapere di essere lui, in gran parte, il colpevole.

La stanza puzzava di disinfettante e medicinali, a Paulo gli ospedali facevano schifo. Gli ricordavano suo padre, il modo in cui era andato via, la morte.

Il numero della camera era la 010 ed era silenziosa, illuminata, spaziosa, con un solo letto al centro.

«Non ce la fai proprio a non creare danni?» fu la sua domanda, con un sorriso ironico sulle labbra.

Idie non colse quell'ironia, anzi, si innervosì perché era una frase che troppo spesso aveva sentito e ne aveva -letteralmente- le palle piene.

Il ragazzo sospirò, e decise che era meglio non alzare i toni o stuzzicarsi come spesso avevano fatto.

«Mi hanno detto quello che è successo, volevo..» le parole gli rimasero incastrate in gola e non riuscì più ad andare avanti.

Idie alzò lo sguardo scuro su di lui, incastrò gli occhi nei suoi senza lasciargli scampo «No, non ce la faccio proprio a non creare danni» cantinellò, alzando le spalle, proprio come se fosse una bambina «Volevi sapere questo?»

«Voglio sapere se stai bene» ribatté, e automaticamente la mascella si indurì e le mani iniziarono a tremare.

«Secondo te?»

Scosse il capo, e si mise le mani in tasca. No, non stai bene e non sto bene neanche io, ma mi si legge in faccia questo.

«Non devi festeggiare uno scudetto?-chiese indicando la maglia che indossava. C'era scritto #M7TH -vattene»

«Non mi puoi cacciare» alzò le spalle, e a Idie iniziarono a formicolare le mani, ma diede la colpa ai medicinali e non alla sua presenza.

«Tu mi hai cacciata, mi hai allontanata e ignorata. Ti sto solo ripagando con la stessa moneta»

Poche ora prima, un giocatore del Hellas Verona gli era andato addosso facendolo rotolare sull'erba. Per un istante aveva pensato di essersi rotto qualcosa e aveva smesso di respirare. Poi si era ricomposto, si era toccato la caviglia e il ginocchio: andava tutto bene, ma faceva un male cane.

Ora, quelle parole, facevano molto più male di qualsiasi fallo da cartellino rosso.

Abbassò lo sguardo e a Idie sembrò un bambino mortificato, ma non le importò. Era lei quella messa peggio tra i due.

«Io sono instabile, okay? Lo so. Lo sanno tutti e non smettono per un solo istante di ricordarmelo. Ma tu, Dybala, sei il peggiore tra i bastardi»

«Non sono venuto qui per farmi insultare»

«E allora vattene, insultarti è l'unica cosa che mi va di fare ora»

«No», mormorò e si sfiorò il polso.
Il filo rosso era ancora lì e non poteva tagliarlo.

Il clima era così pesante da rimpicciolire gli spazi, i centimetri e le mattonelle. Lì, in piedi, aveva le vertigini e un caldo addosso irreale, non da Torino.

«Il tuo capo ti ha dato il permesso di venire qui? Ti ha dato l'ora libera? Dopo che fai? Ti ubriachi insieme agli altri?»

«Ti fa stare meglio?- chiese, sentendo la voce che si spezzava e diventava roca -trattarmi male, dico. Ti senti meglio se mi fai male?»

«Sinceramente? Sì, tantissimo. Vorrei metterti le mani al collo se solo potessi»

Gli occhi di Idie erano più scuri, le pupille dilatate, ma il modo in cui lo guardava era quello di sempre e lui lo sapeva bene. Era una finta indifferenza mista all'ira, eppure ogni movimento del ragazzo catturava la sua attenzione: il modo in cui muoveva le mani, tendeva i muscoli e si leccava le labbra.
Tutti gesti che conosceva a memoria e che aveva voglia di riguardare all'infinito.

«Io me lo lascerei anche fare» sussurrò e poi, inaspettatamente, fece un passo in avanti che gli costò molta più fatica di quanto avesse mai ammesso.

La verità era solo una.
Paulo e Idie erano legati da un filo, che poteva essere lungo e aggrovigliarsi su se stesso. Ma c'era ed era lì, e loro due erano all'inizio e alla fine del filo. Tutte le volte che filo si tendeva e iniziava a tirare, a ledere, a bruciare sulla pelle, avevano bisogno di un nuovo contatto.

E in quel momento, il filo era tesissimo.

«Avvicinati, allora» lo provocò per vedere la sua reazione. Allo stesso tempo, però, desiderava disperatamente toccarlo, anche solo sfiorarlo per sbaglio e respirare il suo profumo che riusciva a percepire anche da lontano.

«Non è una buona idea» si bloccò ed Idie ebbe l'impressione che stesse per indietreggiare.

«Perché? Hai paura che il Presidente ti possa mandare via?»

«Non mi riuscirei ad allontanare dopo- confessò, sentendosi minuscolo davanti a quegli occhi -sarebbe peggio, poi»

Un rantolò le sfuggi dalle labbra e le morse come per punirsi di quel segnale di debolezza «Non voglio che ti allontani»

«Domani parto,- annunciò, cercando di restare calmo. Sapeva esattamente cosa dire, il problema era riuscire a trovare il coraggio per farlo -mi hanno convocato per il Mondiale»

Non sapeva se esserne felice e augurargli buona fortuna o sperare che quella fosse una presa in giro.

«Ah» fu l'unica cosa che riuscì a pronunciare.

Davanti a se, ai piedi del letto, c'era una cassettiera rosa, elegante e antica. Sopra Olga aveva appoggiato i suoi vestiti, i bracciali che aveva al polso, e la collana con il numero 10.

Paulo se la rigirò tra le mani, era fredda al tatto e non gli apparteneva più.

«Lo so che mi odi- disse -so che odi anche lui. E pensi che il mondo intero ti odi, che il tuo stesso padre ti odi. Non è così. E forse sei troppo testarda per capirlo o troppo giovane. Forse è stato tutto un enorme scherzo del destino che ha voluto farcela pagare per qualcosa che abbiamo commesso nella vita precedente. Non lo so..quello che so è che tutto quello che sto facendo è per il nostro bene»

Non l'aveva mai sentito parlare così tanto e così a lungo. Non era da Paulo e non erano da Paulo quelle parole. Sembrava molto più saggio, molto più maturo dei suoi ventiquattro anni. Dov'era finito il bambino che si addormentava sul divano in posizioni strane? Dov'erano finiti quegli occhi sereni?

«Che..significa? Io non ti odio»

«Significa che io domani parto e tu parti tra un mese. Significa che dobbiamo smetterla di raccontarci cazzate e di cercarci, perché non ci siamo più noi due»

Gli occhi si spostarono velocemente dalle sue labbra ai suoi occhi, senza capire se quella fosse la verità «Ti ha chiesto lui di dirmi queste cose?-sputò velenosa -Pensa davvero che io..»

«Ho una carriera davanti, Idie. Sono stato convocato ai miei primi Mondiali, la gente mi paragona a Messi..non ho bisogno di complicazioni»

Una lacrima solitaria le solcò il volto «Sono una complicazione ora?»

«Lo sei sempre stata»

Non contento, mentre continuava a giocherellare con la collana, continuò a parlare «Mi dispiace se hai pensato che potesse essere più di quello che è stato..davvero, mi sono lasciato trasportare. Scusami, se puoi perdonami»

Idie prese a respirare rapidamente. Controllò l'orario e poi guardò il calendario. Era surreale, lei, l'ospedale, le parole di Paulo.

Se puoi perdonami.

Erano le parole che solo un codardo avrebbe potuto pronunciare, solo in quel modo schifoso, con quei non-colori addosso e lo sguardo basso.

«Smettila di dire cazzate, ti costa tanto ammettere che ti ha costretto a lasciarmi? Cosa ti ha promesso? Un aumento? La fascia da capitano? Valgo meno di tutto per te?»

«Ho preso la mia decisione»

«Io no!» strillò a quel punto, e quindi al diavolo la flebo, al diavolo le raccomandazioni e i buoni propositi.

Lo stava perdendo, e non poteva fare nulla se non stare ferma a guardare la sua felicità allontanarsi.





___________


Mi Sono prosciugata, non ho più le parole e questa è solo la prima parte del capitolo.
Grazie mille
(Non mi odiate)

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