Io sono il Drago [Vincitore W...

By CactusdiFuoco

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In molti mi chiesero come fossi arrivato alla mia grandezza, a quella forza sfrenata, a quell'acume sfolgoran... More

Prologo
Schwarzwald
Benvenuto
I desideri di un giovane drago
Un giovane, glorioso assassino
Non sai chi sei finché non incontri i gufi
Oro
Ermes Siegader To'rvak
Piccolo excursus geopolitico
Paulus Grimorius
Licnomanzia
Parliamo un attimo, mi disse.
Scheletri donati ai draghi
Un misterioso processo di creazione
Il Secondo Natale
Prima discesa nelle ombre
Sfidare il buio
Il desiderio di leggere libri
Il cuore della biblioteca
Avartak
Piccola e gestibile emanazione della Notte che Urla
I misteri di Paulus
Tartaruga femmina
Un patto non stretto
Devo uccidere Orotagon
Vestiti da cerimonia
Rito d'ammissione
La profezia della scacchiera
Eletto dal popolo
Heslant il blu
Uno storico, bibliomane e criminale
La bellezza di un drago
Il tempo dell'amore, forse
Un libero consigliere
F-FINE?
Io sono il Drago - Ebook e libro cartaceo!

I mostri di Gunkanjima

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By CactusdiFuoco

Quando ero piccino, neanche io ero pienamente consapevole di cosa fosse Horn Blu Island. Lo credevo un posto magico, glorioso, misterioso, ma nella mia testa questi termini, magico, glorioso, misterioso erano più piccoli, più domabili e di gran lunga meno pericolosi di com'erano nella realtà: significavano incontrare di quando in quando un esperimento magico pronto ad uccidermi, di poter combattere con il fuoco, di vedere immensi castelli. Mi sbagliavo, ovviamente: volevano dire piuttosto che la realtà era instabile, che niente era ciò che sembrava, che il confine fra il possibile e l'impossibile era labile, capriccioso.

Scoprii insieme alla realizzazione del mio primo compito ufficiale che cosa significava abitare sull'Isola dei Prodigi, come gli umani la chiamavano, e cosa comportava essere un messaggero per l'Antica Dragoneria.

Credo che non mi furono date istruzioni e avvertimenti precisi proprio per questo, perché potessi conoscere e capire ciò che era incredibile, vedendolo con i miei occhi senza evitarlo in alcun modo.

Il mio primo compito, affidatomi due giorni dopo, fu quello di portare un quaderno dal cuore della capitale a un piccolo centro abitato vicino. Esatto! Un quaderno apparentemente comune, cucito con un filo grezzo e spesso, con la copertina di pelle nera rinforzata ai bordi da sottili lamine di metallo.

Non mi fu chiesta alcuna segretezza, né mi venne intimato di non guardare le pagine dell'oggetto, che erano completamente bianche.

Ovviamente non riuscivo a capire che utilità avesse la consegna di un oggetto così semplice, ma non ribattei e mi misi immediatamente in viaggio. Dopo aver volato da quasi sulla costa alla capitale fatto a tempo record, non sarebbe stato niente di difficile trovare un piccolo paese... o almeno era quello che pensavo.

In realtà la capitale, e le sue mura, erano così immense che era impossibile sbagliare purché si seguisse una direzione approssimativamente corretta, mentre quello che cercavo era un agglomerato di case minuscolo, nascosto in mezzo alla vegetazione.

Snervato, volai avanti e indietro sulla foresta incrociando un altro paio di giovani draghi che mi salutarono con grande entusiasmo: uno era un draghetto bianco che portava sulla fronte una fascia di cuoio con impresso un kanji, l'altro un drago blu costiero minuscolo che sembrava piuttosto smarrito e mi chiese indicazioni per un posto che non avevo mai sentito nominare, il "Ciollocakao".

Salutai entrambi con discrezione, ma non mi fermai ovviamente a parlare con nessuno.

Quando iniziai a stancarmi di vedere alberi tutti uguali dall'alto, capendo che probabilmente le case erano troppo basse per spuntare sopra le chiome, scesi a terra. Mi ritrovai in un sottobosco stranamente pallido, con pianticelle di un verde chiarissimo che si attorcigliavano sopra mucchi di foglie secche dal colore paglierino. Un centopiedi rosso e nero, che sarà stato lungo almeno un metro, mi strisciò in mezzo alla zampe prima di tuffarsi, rapido come una scheggia, in un mucchio di foglie.

Cercai di orientarmi con l'olfatto, di riconoscere l'odore degli esseri umani, ma il profumo del bosco era forte e quasi inebriante. Mi infilai in un macchione di spinose felci azzurrognole e camminai fino ad attraversarlo tutto, sperando che dall'altro lato gli odori si sarebbero affievoliti abbastanza da lasciarmi riconoscere una qualche traccia.

Quando finalmente sbucai, mi ritrovai di fronte ad un ponte che si stendeva sopra un fiumiciattolo basso e lento. Il ponte era viola, dall'architettura pesante, e sembrava fatto di un qualche tipo di pietra che non conoscevo. Mi avvicinai cautamente ad esso e presi ad annusarne la base, poi toccai con un artiglio il corrimano e non accadde nulla, così salii sul ponte e presi ad attraversarlo. Odorava di fringuelli, il che era parecchio strano... che cosa ci facevano, abitualmente, dei fringuelli su un ponte?

Controllai dentro la mia sacca che il quaderno fosse a posto e lo vidi a posto, intatto. Tuttavia c'era qualcosa che mi aveva spinto a guardarlo: il quaderno scalciava ripiegando la sua copertina come se fosse una sorta di gamba.

«Sta buono!» Gli ringhiai e quello smise immediatamente come se avesse potuto sentirmi, pur non avendo orecchie.

Era tutto molto bizzarro, ma ci voleva ben altro per impressionarmi. Quando rialzai lo sguardo, vidi qualcuno venirmi incontro, salendo dall'altro lato del ponte: era una donna piccina, dai lineamenti rotondi, gli occhi a mandorla e la pelle pallida. Non avevo mai visto un essere umano con una faccia simile, poiché non avevo mai visitato l'oriente e sulla nostra isola era quasi impossibile incontrare cinesi o giapponesi. I suoi lunghi capelli neri erano stati raccolti in una coda alta che ondeggiava, liscissima, come un filo di fumo nella brezza sottile, mentre addosso le ricadeva un kimono verde, ricco di decori gialli, e sulla schiena portava uno spadone a due mani dall'impugnatura di pelle grigia.

Mi dissi che era un'ottima idea chiederle delle indicazioni, così le andai incontro anch'io

«Mi scusi, buona donna» dissi, cercando di sembrare molto educato e contenuto «Sto cercando il paese di Gunkanjima, saprebbe aiutarmi?».

La donna si portò un dito alle labbra, forse per impormi il silenzio o forse per dirmi che lei non poteva rispondere con la voce, poi indicò una direzione ben precisa, oltre il ponte. Ringraziai con un cenno della testa e presi a proseguire, quando la donna mi afferrò un'ala e mi tirò con violenza verso di sé, spostandomi.

Non feci in tempo a protestare che vidi un dardo sibilare attraverso il punto in cui mi ero trovato poco prima e sbattere contro il corrimano del ponte, rimbalzando. La freccia aveva un impennaggio rosso sangue, decorato con due punti bianchi.

Non mi ero accorto che qualcuno ci spiava, attraverso la vegetazione? Com'era possibile? Credevo che i miei sensi fossero più all'erta che mai, credevo di non aver potuto essere sorpreso, e ora con amarezza mi rendevo conto di come avrei potuto essere una facile preda di chiunque si nascondesse nei boschi.

Mi dissi che non era solo colpa mia: tutti dipingevano Horn Blu come un luogo di pace, in cui i draghi mantengono l'ordine assoluto, come potevo immaginare che i boschi pullulassero di briganti?

E in effetti, come scoprii più tardi, non erano stati dei briganti a scagliarmi quella freccia...

La donna orientale si mise di nuovo il dito sulle labbra, chiaramente dicendomi di non parlare, e mi sospinse verso la mia meta con una certa urgenza. Non sembrava aspettarsi in cambio nulla, pur avendomi salvato la vita.

La ringraziai di nuovo, con un cenno del capo, e proseguii. Non ero per nulla rilassato, anzi: ora che sapevo di poter essere attaccato, ero un fascio di nervi e muscoli pronti a scattare.

All'improvviso, mentre camminavo sotto le mutevoli ombre delle chiome fruscianti, strani pensieri si insinuarono nella mia mente. Mi chiedevo... mi chiedevo se tutto ciò che stavo passando, tutti i momenti di paura che avevo vissuto, erano colpa del fatto che avevo trasgredito al volere di mia madre e poi l'avevo abbandonata. Certo, era vero che in realtà era stata lei ad abbandonare me, ma era anche vero che non l'avrebbe fatto se le avessi dato ascolto, se mi fossi piegato allo sgradevole compito di fare amicizia con uno di quei piccoli umani, se non fossi stato quello che oggi definirebbero "un ragazzo difficile". Che pensieri sciocchi che avevo: mia madre mi aveva abbandonato perché ero diverso dagli altri cuccioli, non aveva neanche voluto approfondire la questione sulla mia salute, non aveva voluto controllare se davvero ero malato oppure se mi era successo qualche evento traumatico che mi aveva fatto chiudere in me.

Strinsi i denti, guardando in alto, dove un piccolo uccello bruno stava saltellando sui bordi di un nido, mentre uno dei suoi genitori, forse sua madre, cinguettava dietro di lui come per incoraggiarlo a saltare.

Io non ero mai stato incoraggiato, avevo imparato a volare da solo. Non dovevo niente a mia madre, né il bene né il male.

Eppure è curioso il mondo, non è vero? A volte i nostri genitori sono solo dannosi per noi, ci mettono i bastoni fra le ruote o non credono in noi, e noi dovremmo continuare per la nostra strada, non curarci di loro, ma siamo programmati biologicamente per dare peso alle parole di mamma e papà. Programmati biologicamente per essere limitati dai nostri simili.

Se volevo essere il migliore, dovevo liberarmi di questo peso... eppure era strano, non avevo mai pensato a mia madre prima d'ora. Si, forse in effetti qualche volta ci avevo pensato, qualche piccola striscia di pensiero correva alla Foresta Nera e a quel momento in cui ero diventato indipendente, ma erano sempre stati pensieri che mi rendevano fiero di me, mai dubbioso... mai infelice.

Non seppi giustificare questi pensieri finché non mi resi conto che era perché sentivo l'odore di mia madre. All'inizio, ovviamente, non capii immediatamente che era il suo odore, sapevo solo che era molto familiare, ma poi la vidi.

Mia madre.

Era grande e nera come la ricordavo, tozza e forte, e stava mangiando un cervo, accucciata fra due alberi caduti, ad almeno trecento metri di distanza da me. Cosa avrei dovuto fare? Fuggire? Avvicinarla? Dirle che aveva sbagliato ad abbandonarmi, che ero un drago perfetto, che ero diventato un messaggero dell'Antica Dragoneria?

«Che ci fai qui?» Sussurrai, agitando la coda da un lato all'altro, sentendomi come una tigre in trappola.

Mia madre non riuscì a sentirmi e strappò via con un morso solo la coscia sinistra del cervo, ingollandola con un singolo movimento. Un rivoletto di sangue le scendeva dall'angolo della bocca e gocciolava sulla sua spalla.

Già, che ci faceva lì, a Horn Blu Island? L'avevo lasciata in Germania ed ero stolidamente convinto che sarebbe rimasta lì per tutto il resto della sua vita perché, dopotutto, i draghi neri sono territoriali.

Mia madre. Battei le palpebre e distolsi lo sguardo, poi continuai a camminare alla ricerca del paese in cui dovevo consegnare il mio carico. Proprio allora, lei mi vide.

«Ti serve aiuto, giovanotto?» Domandò ad alta voce, in un draconico dal pesante accento tedesco, che non ero più abituato a sentire.

Mi chiesi rapidamente cosa avrei dovuto fare, se risponderle o andarmene più velocemente che potevo facendo finta di non averla sentita. La seconda opzione non avrebbe funzionato: la voce di una dragonessa adulta non è qualcosa che si può ignorare e se mi avesse inseguito, come purtroppo i draghi tendono a fare con i cuccioli che li ignorano, avrei solo rischiato di farmi male o di perdere il quaderno.

Così mi voltai.

«Si, si, potente dragonessa, mi serve aiuto» Dissi, chinando il capo.

Sperai che non mi riconoscesse.

Senza alzare la testa, sentii il fruscio delle sue squame e delle sue ali mentre l'enorme corpo si alzava. La sentii avvicinarsi con le squame che mi si accapponavano, la punta della coda che si arricciava, pronto a scappare o combattere.

«Che aiuto ti serve?» Mi domandò lei, gentilmente

«Sto cercando il paese di Gunkanjima» risposi, sempre con gli occhi puntati a terra

«Hmm... Gunkanjima» lei si fermò, riflettendoci «Che cosa ci vai a fare? Non è facile trovarlo»

«Devo consegnare un pacco importante» dissi, inspirando poi profondamente.

Lei mi diede delle indicazioni così complesse che non riuscii a capirle né riesco ancora a ricordarle, usando parole che non avevo mai sentito prima e che compresi solo molti anni dopo. Mi chiesi se mi stesse prendendo in giro, ma aveva un tono serissimo e non volevo chiederle alcuna spiegazione.

Ringraziai, cerimonioso, e mi defilai.

Solo quando fui lontano da lei mi accorsi che avevo le spalle curve, la testa bassa e un peso sul petto che dovevo alleviare respirando profondamente.

Forse non ero capace di portare quel quaderno. Forse mi ero perso.

Strinsi i denti, guardandomi intorno mentre camminavo.

E fu allora che vidi finalmente Gunkanjima, il minuscolo paese che dovevo raggiungere.

Era un piccolo agglomerato di casette colorate, molto vicine tra loro, che spuntavano sul fianco roccioso di una collina, seminascoste da una gran quantità di alberi contorti.

Quindi ero capace di trovare il paese! Sollevato mi diressi verso di esso, quando udii un rumore come di strappo e la terra iniziò a franare sotto i miei piedi. Spalancai le ali e schizzai verso l'alto, ma qualcosa mi afferrò la coda in una stretta feroce e mi tirò verso il terreno che si era aperto sotto di me. Ringhiai, dibattendomi, e spinsi con le ali per sollevarmi più in alto, ma fu tutto inutile e fui trascinato sottoterra.

La terra si chiuse sopra la mia testa come la bocca di una cosa viva e sprofondai in un buio totale. Sputai fuoco istintivamente, riuscendo a distinguere per un istante un intrico di cose che si muovevano, radici vive o grovigli di serpenti ricoperti di barbigli, mentre un urlo di dolore mi risuonava nelle orecchie. Avevo ferito l'abominio che mi aveva catturato, così sperai di poterlo finire e schiacciare grazie alla mie sole forze.

Mi contorsi mentre sprofondavo sempre di più nel grembo oscuro della terra che mi franava addosso schiacciandomi le ali. Continuai a sputare fuoco, ma quando la terra iniziò a scivolarmi nella bocca aperta dovetti chiuderla per non strozzarmi.

Ringhiai e minacciai, ma presto non ci fu più ossigeno e iniziai a soffocare.

Era così che sarei morto? Ucciso da qualcosa che non potevo vedere, sottoterra, e divorato da un groviglio bruno, mostruoso, di appendici?

Sapevo di avere pochi istanti prima di perdere conoscenza e che avrei dovuto usare quei pochi istanti per creare qualcosa di efficace. Cosa sapevo riguardo alla mia situazione? Qualcosa mi stava stringendo forte la coda e ora anche le zampe posteriori. Il fuoco aveva ferito la creatura (l'avevo sentita gridare, anche se non avevo visto la sua bocca). Ci trovavamo sottoterra, non lontani da un villaggio, quindi anche solo chiamare aiuto poteva essere una buona idea.

Ma chiamare aiuto, quando stai per soffocare e non sai quanto in fretta ti noteranno, non era la soluzione migliore.

Allora usai la magia.

Usare la magia quando stai soffocando e non puoi vedere nulla, quando senti di non riuscire a pensare lucidamente e sei consapevole del fatto che non potrai aiutarti con le parole, è estremamente pericoloso: basta concentrarsi sul concetto sbagliato, indirizzare il flusso di energia verso l'interno piuttosto che verso l'esterno, ed una morte aberrante e dolorosa ricadrebbe sul mago. Tuttavia sapevo di non avere altra via d'uscita. Era come giocare a dadi con il diavolo sapendo che quei dadi potevano o non potevano essere truccati e che il premio in palio era la tua anima.

Dovevo usare la magia senza parlare e senza sbagliare; flettei le dita, sentendo le punte dei miei artigli scivolare sui miei palmi, e raccolsi la forza dentro di me, cercando di squarciare la barriera scintillante che mi divideva dal mondo magico.
La paura di morire fu un motivo sufficiente per riuscire ad entrare in comunione con il mondo incorporeo: tutte le cose che vivevano potevano capire la mia paura e la disperazione faceva volare la mia mente stanca come un razzo, prosciugandomi ancora più forte le energie.

La mia anima era un proiettile che squarciava la realtà: immaginai che squarciasse anche il corpo della creatura e bastò quello per dargli l'impressione che lo stessi facendo davvero. Entrai nella mente aliena, arcaica, della creatura tentacolare per convincerlo di starlo uccidendo.

Il mostro urlò, contorcendosi in un'agonia inesistente, e mi risputò fuori dalla terra come se fossi un boccone amaro.

Respirai con la bocca spalancata, artigliando il terreno.

Fate un esperimento: trattenete il respiro. Trattenete il respiro da adesso fin quando non vi dirò di respirare di nuovo.

Immaginate di non essere voi stessi a trattenere il respiro, immaginate che vi sia del tutto impossibile respirare perché siete stati seppelliti vivi, sotto una massa nera, umida, pesante, di terreno. Immaginate che qualcosa sia dolorosamente stretto intorno alle vostre caviglie e vi tenga ancorati in quelle tenebre oscure. Non potete chiamare aiuto: se aprite la bocca, la terra si insinuerà fra le vostre labbra e riempirà la vostra gola, strozzandovi.

Ora respirate di nuovo.

Voi avete solo immaginato tutto questo: siete al sicuro, siete seduti in un posto la cui temperatura è probabilmente ottimale per voi e non c'è nulla che stia cercando di mangiarvi. Tuttavia state ansimando e sicuramente non è stata un'esperienza gradevole. Forse il vostro battito cardiaco è persino accelerato, a volte accade quando si trattiene il respiro.

Siete al sicuro. Io non lo ero.

Ora potete capire un po' meglio cosa provai a quasi-morire nella mia prima missione per l'Antica Dragoneria.

Ero accasciato al suolo, adesso, ansimante. Brividi di un freddo glaciale mi correvano su e giù per la schiena e per le zampe.

Mi alzai con cautela e controllai la mia borsa: il quaderno era sempre lì, per fortuna, più sinistro che mai.

Iniziai a credere che la città di Gunkanjima fosse il peggior posto di Horn Blu Island. Mi sbagliavo, ma non lo seppi se non diversi anni dopo: durante la mia infanzia, senza dubbio, il posto più orribile che visitai fu proprio Gunkanjima.

Quando finalmente arrivai fino alla città, controllando quello che succedeva intorno a me ad ogni passo nel caso a qualche altra bestia orribile venisse in mente di catturarmi per divorarmi, notai che era completamente disabitata ed abbandonata.

Le porte erano spaccate, la vernice scrostata, grosse porzioni di un muschio scuro crescevano sulle pareti delle case e alcune finestre avevano i battenti strappati via. La città non odorava neppure di umani e non si potevano vedere animali da cortile o da compagnia in giro.

Mi si accapponarono le squame. Normalmente non avrei avuto alcun problema di fronte ad un piccolo villaggio fantasma, ma dopo essere quasi morto temevo che qualcosa si nascondesse dentro quelle abitazioni e che fosse pronto ad attaccarmi.

Respiravo così pesantemente da riuscire a sentire solo il suono dell'aria che mi entrava e mi usciva dalla bocca e dalle narici.

«C'è qualcuno? Qualcuno abita qui?» Quasi urlai, sperando di essere udito.

Un silenzio di spettri e di vecchie tombe aleggiava su quel luogo. Sotto i miei piedi, la roccia scricchiolava come legno e di quando in quando i gemiti parevano quelli di minuscole creature vive.

Mi chiesi se quel piccolo agglomerato fantasma fosse realmente Gunkanjima oppure se fossi finito nel posto sbagliato.

Girai dietro una casetta tutta contorta, mangiata dai licheni, e sul retro di essa scorsi per un istante un murales terrificante prima di distogliere lo sguardo. Era la cosa, quella creatura infernale che mi aveva catturato e a sua volta era stata catturata in una grande pittura murale, nell'atto di afferrare un bambino bianchissimo.

Sentii lo stomaco stringermisi e guardai il terreno, spaventato dall'idea che potesse aprirmisi di nuovo sotto i piedi.

Non avevo tanta paura quanta ne avevo avuto nell'affrontare i gufi-mostro, questa era più un'ansia sottile e insidiosa, quella dell'ignoto, di cose non dette, di cose non viste... il timore di non poter contrastare il futuro.

Il silenzio, quella volta, fu peggio di stridii e di ruggiti.

«C'è nessuno?!» Esclamai di nuovo, pronto a volare via se nessuno si fosse presentato.

Inaspettatamente, una vecchietta uscì da dentro una casa, reggendosi ad un bastone duro e nodoso, decorato con cordini neri e rossi e graziosi amuleti di metallo, grandi come un'unghia, a forma di animali stilizzati. Era un'anziana piccola, dai lineamenti orientali, con una crocchia alta di capelli grigi, stretta e ordinata.

«Oh, tu devi essere il postino» Mi disse, naturale.

Non potrò mai dimenticare quel momento, l'istante surreale in cui una vecchietta umana, chiaramente ignara di ciò che avevo passato per portare il quaderno, mi disse che ero un postino. Non un messaggero dell'Antica Dragoneria. Non un avventuriero, un guerriero. Un postino. Un essere il cui lavoro è quello di portare la posta.

Se non uccisi la vecchietta, avventandomi contro la sua gola, non fu perché ci tenevo a fare una buona impressione alla Dragoneria, né perché si trattava di una piccola vittima inutile, ma perché ero troppo stanco. E, se devo essere sincero, perché pensavo che una volta uccisa si sarebbe potuta trasformare in qualcosa di molto peggiore, come a volte accade alle streghe potenti.

«Sono un messaggero» La corressi, debolmente.

La vecchietta allungò la mano sinistra, aspettando che le dessi il pacchetto.

«Lei è la signora Chiyoh?» Domandai, sospettoso. Non volevo consegnare il pacco nelle mani sbagliate dopo che ero quasi morto per portarlo.

La vecchietta annuì.

Aprii la borsa, presi il quaderno e lo misi in quelle manine rugose. Avevo fatto il mio dovere. La mia missione era finita.

«I miei ossequi, signora» Salutai. Non avevo voglia di dire che era stato un piacere, non avevo voglia di dire "arrivederci".

La vecchietta sorrise

«I miei nipotini ameranno questo libro!» disse, muovendo la manina rugosa per salutarmi.

I suoi nipoti. I suoi nipoti. I miei denti stridettero per quanto li stavo stringendo. Cosa diavolo era quel quaderno in realtà? Era davvero un prezioso artefatto di qualche tipo oppure era poco più di un giocattolo?

Volai via più rapidamente che potei, sollevandomi sopra le chiome degli alberi. Gli alberi che si rimpicciolivano sotto di me erano stranamente minacciosi, come se fossero pieni di disappunto per il non poter volare come me e volessero uccidermi. Era solo la mia impressione, lo sapevo benissimo, ma stavo diventando ansioso.

Notai che Gunkanjima era a malapena visibile dall'alto, nascosto strategicamente dalle chiome scure e contorte. E che quel poco che si vedeva somigliava curiosamente ad un cimitero.

Mentre ritornavo alla sede, vidi mia madre alzarsi in volo dal bosco con qualcosa di insanguinato e ancora vivo fra gli artigli delle zampe posteriori. Volai più veloce, allontanandomi per sempre da Gunkanjima e dai suoi mostri.

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