Ombre sulla pelle

By EmilyAlexandre

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Edito da Centauria libri, collana Talent, in tutte le librerie e negli store on-line dal 13 ottobre. http://w... More

Buon compleanno fratello
All'Ombra dell'Albero
Come Venezia

Ombre sulla pelle. L'inizio.

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By EmilyAlexandre

Quello che segue è l'inizio di un romanzo storico uscito in libreria, per Centauria Libri, lo scorso 13 ottobre, acquistabile in libreria e negli store on line...

Sperando che possa incuriosirvi, vi auguro buona lettura.

****

Ombre sulla pelle


21 luglio 1665

Parigi

Raramente la piccola chiesa di Saint-Georges aveva avuto così tanta affluenza di martedì mattina: un'adunata di abiti modesti che saltava all'occhio. Si celebrava un funerale e oltre cinquanta persone erano giunte per l'ultimo saluto.

Hector Mistral era stato un soldato, come suo padre, onorato del titolo di cavaliere giovanissimo, per i meriti che aveva dimostrato in guerra; dopo che l'ennesimo colpo di spada aveva quasi rischiato di ucciderlo era tornato a Parigi, dalla moglie, ed era entrato al servizio del suo antico comandante. Il titolo, infatti, benché lo avesse elevato rispetto alla borghesia, non bastava a garantirgli una vita decorosa, e il visconte di Phoer, consapevole del suo valore come uomo e non solo come soldato, lo aveva nominato proprio amministratore.

Aveva svolto con onore quel ruolo per venti lunghi anni, finché la polmonite non gli aveva lasciato scampo. La stessa malattia che gli aveva portato via la moglie solo un mese prima. Era stato un uomo semplice e buono, sempre più vicino alla borghesia che alla nobiltà, uno di quelli che generano spontaneamente affetto e che lasciano un bel ricordo alle proprie spalle.

Oltre al ricordo, Hector lasciava una figlia di diciassette anni, che in quel momento sedeva ritta nel suo semplice abito da lutto, i capelli neri coperti da un velo, gli occhi chiari asciutti nonostante il dolore che ne traspariva e solo un lieve tremore delle mani a rivelare la sua agitazione. Mentre la chiesa andava svuotandosi, un ragazzo le si avvicinò per abbracciarla e lei lo lasciò fare, rinfrancata dal familiare contatto.

Si avviarono insieme, fianco a fianco, verso il cimitero, scortando la bara nell'ultimo viaggio insieme a un drappello di amici. Mentre Hector veniva calato nella fossa accanto a quella della moglie, Marc si decise a spezzare il silenzio che si era cristallizzato nell'aria e che Martine sembrava decisa a far durare per sempre.

«Hai deciso cosa farai? Rimarrai a servizio dal visconte?»

La ragazza scosse il capo. Non intendeva restare un attimo in più nella casa di Fabian Boyer, visconte di Phoer, figlio dell'uomo che aveva combattuto con suo padre e dal quale aveva ereditato il titolo, ma non il carattere. Fabian la desiderava, glielo aveva detto infinite volte, senza pudore né rispetto. Finché lei era la vergine figlia di un uomo stimato da tutti non aveva osato andare troppo oltre, ma durante la malattia del padre i suoi assalti si erano fatti più arditi e ormai, senza Hector, e senza alcuna protezione maschile, Martine sarebbe stata perduta. Strinse i pugni. Nessun giudice avrebbe mosso un dito per lei, difendendo piuttosto il visconte di Phoer se fosse successo il peggio. I privilegi dei nobili, a cui Martine pensava da sempre con un senso di rabbia e frustrazione. Non c'era bisogno che Marc lo sapesse, comunque. Se avesse saputo, avrebbe potuto fare qualche gesto avventato, pagandolo probabilmente con la vita.

«Me ne andrò» sussurrò, quasi a se stessa, e non ebbe il coraggio di incrociare lo sguardo del giovane. «Non sappiamo quando il visconte si sposerà, mentre il barone di Vence si è sposato da poco e la moglie ha bisogno di una dama di compagnia. Partirò stasera, poco dopo il tramonto.»

Ogni singola parola le era costata un'immensa fatica. Per lei, che mal sopportava le prerogative nobiliari, entrare a servizio di una baronessa era una sconfitta: era cresciuta a casa del visconte e, mentre sua madre la preparava a seguire le sue orme come dama della futura moglie di Fabian, lei sognava una vita lontana da Parigi, dai nobili e da quelle infinite costrizioni. Nessuno lo aveva capito, neppure Marc, non fino in fondo.

«Perché non me ne hai parlato?» chiese lui, parzialmente sollevato. Phoer o Vence che fosse, cosa importava? Martine aveva scelto di rimanere a Parigi.

«Perché avevi già i tuoi progetti.»

I progetti. L'unica cosa che riuscisse a dividere Marc e Martine.

Il ragazzo sospirò. «Ne abbiamo parlato mille volte, non c'è motivo per cui i nostri progetti non debbano combaciare. Con il mio stipendio da soldato nel giro di qualche anno avrò risparmiato abbastanza da poterti sposare. Lo vuoi ancora, Martine? Sposarmi?»

La ragazza distolse lo sguardo. Certo che lo voleva. Amava Marc da tutta la vita, da quando l'amicizia era diventata qualcosa di più profondo, ma sposarlo avrebbe significato rinunciare a tutti i suoi sogni, rinunciare a una parte di se stessa. Il ragazzo seguì il suo pensiero anche senza che lei lo esprimesse a parole.

«Martine, è ora di crescere» era stato brusco, ma la cocciutaggine della ragazza lo esasperava. «Puoi sognare di lasciare Parigi, di lasciarti tutto alle spalle e vedere posti esotici, puoi sognare un mondo libero da re e nelle mani del popolo, ma sono sogni, non è la vita vera, ed è arrivato il momento che tu comprenda la differenza.»

«Quindi dovrei rassegnarmi all'idea di vivere in case altrui, al servizio di nobili che si credono migliori di me pur non essendolo?»

Suo padre era stato un uomo infinitamente migliore della maggior parte di loro, ma non era che un cavaliere, un nulla per i nobili di Francia.

«Solo finché non farò carriera, poi ci potremo sposare, avrai una casa tua, una famiglia.»

Martine gli voltò le spalle per evitare che il ragazzo vedesse le sue lacrime; per Marc, Parigi era il centro del mondo e desiderava arruolarsi per servire il re, che considerava l'incarnazione della Francia stessa. Lei, che agognava altro, per quanto folle fosse quel desiderio, si sentiva soffocare alla sola idea di rimanere incastrata in un ruolo perché era quello che la società si aspettava da lei.

«Tu vuoi girare il mondo e mi chiedi di seguire le orme di mio padre, ma io non voglio fare il medico, voglio diventare moschettiere, voglio una casa, le mie radici sono qui. Perché non puoi accettarlo? Perché i tuoi sogni son più importanti dei miei?»

Già, perché?

«Sapevamo che, prima o poi, questo ci avrebbe diviso » replicò lei, più dura di quanto avrebbe desiderato, di quanto non sarebbe stata in circostanze normali, ma la perdita di entrambi i genitori in così breve tempo, e l'ultimo tentativo di violarla da parte del visconte, che non aveva neppure aspettato che il corpo di suo padre si raffreddasse, l'avevano esasperata. Marc scosse il capo.

«Sei tu che ci stai dividendo, Martine. Non puoi accontentarti? Essere felice con ciò che hai, con me?»

La ragazza lo guardò un'ultima volta: desiderava con tutta se stessa che fosse abbastanza, desiderava immaginarsi felice in una casetta come quella in cui era cresciuta, con tanti bambini attorno e Marc che li raggiungeva la sera, ma il suo cuore non era ancora pronto a rassegnarsi.

Il suo silenzio fu eloquente. Il giovane si alzò e si allontanò, senza aggiungere altro, e lei si ritrovò a respirare la scia del suo odore così familiare, reprimendo a stento le lacrime: quella notte diceva addio agli unici due affetti che le erano rimasti.


Nonostante l'insindacabile decisione presa da Martine di detestare Delphine Aubert, baronessa di Vence, costei era una creatura così adorabile che Martine non riuscì nell'intento, malgrado tutto l'impegno che vi aveva messo. La baronessa aveva solo un anno più di lei ed era in attesa del suo primo figlio. La incontrò due giorni dopo il suo arrivo e, nell'attesa, aveva preso confidenza con la casa: la villa, che si affacciava sulla Senna a pochi passi da Notre-Dame, risaliva alla metà del secolo precedente ed era stata completamente ristrutturata dal vecchio barone, con una facciata monumentale e un portico rialzato al quale si accedeva tramite due rampe di scale. L'attuale barone si era dedicato ai giardini, ripensati e abbelliti da un architetto, e la baronessa, da quando vi aveva messo piede, si era personalmente occupata dei lavori di decorazione.

Su richiesta del barone, che non voleva turbare la giovane moglie, Martine non aveva indossato il lutto, ma lei sapeva che suo padre sarebbe stato d'accordo: era stato Hector, dopotutto, non cieco alle intenzioni di Phoer e sapendo che la figlia non si sarebbe decisa a sposare Marc, ad assicurarsi che entrasse a servizio di una famiglia rispettabile subito dopo la sua morte, per garantirle un futuro.

La porta della biblioteca era chiusa, ma attraverso il vetro colorato poteva scorgere la figura della donna seduta in poltrona; prese un profondo respiro e bussò, entrando solo quando una voce le diede il permesso. La baronessa le sorrideva in maniera così gentile che Martine quasi dimenticò di fare la riverenza.

«Accomodatevi» accennò alla poltrona davanti a sé. «Sono felice di avervi qui, cominciavo a sentirmi sola» aggiunse mentre Martine si sedeva.

«Vi ringrazio per avermi accolta, mia signora.» Sapeva perfettamente di essere una giovane senza famiglia e senza prospettive, nonostante il titolo paterno.

«Sapete del mio stato, vero?» domandò l'altra portandosi una mano sul ventre coperto dalle gonne voluminose.

«Sì, signora baronessa. Non manca molto, credo.»

«No, due mesi, non di più, dice il medico» la baronessa sorrise serena. «Mi dispiace per il vostro lutto, spero che qui possiate trovare un poco di serenità.»

Martine sussultò, colpita dal fatto che la donna fosse a conoscenza di quei dettagli. «Confido di sì, signora.»

«Di qualsiasi cosa abbiate bisogno, non esitate a chiedere alla governante. A quanto pare oggi la pioggia non vuole cessare» aggiunse. «Credo che rimarrò a leggere qui. Prendete pure qualsiasi libro vogliate e sedete con me.»

«Certamente, baronessa.» Martine si avvicinò alla libreria e iniziò a guardare i titoli. Alcuni erano conosciuti, altri no, altri ancora li aveva già letti. Suo padre aveva sempre amato i libri e glieli aveva fatti amare, anche se era una ragazza. Non aveva avuto figli maschi, dopotutto.

L'occhio le cadde sulle opere di Chrétien de Troyes. Il re Marco e Isotta la bionda. Marc. Non poté impedire al suo cuore di perdere un battito, né alla sua mano di tremare: a cosa era servito voltargli le spalle se era comunque bloccata a Parigi, al servizio di qualcuno?

Eppure non aveva il coraggio di abbandonare del tutto i suoi sogni, il desiderio di girare il mondo e sapeva che se si fosse sposata non ne avrebbe mai avuto la possibilità. Martine era divisa tra l'addio a Marc e quello ai suoi sogni. Entrambi le toglievano il fiato.

****

Era una notte serena, la luna brillava piena nel cielo e Marc faticava a prendere sonno. Si alzò, cercando di non svegliare il padre, e uscì in strada, con l'intenzione di rischiararsi la mente dai troppi pensieri: non vedeva Martine soltanto da pochi giorni, ma gli sembravano un'eternità, e suo padre, stanco di vederlo vagare senza meta per casa lo aveva spinto a prendere una decisione. Che si arruolasse, o che imparasse il suo mestiere. Improvvisamente, mentre si apprestava a rientrare, un clangore di spade ruppe il silenzio: fu tentato di voltare le spalle a quelli che era sicuro sarebbero stati dei problemi ma poi, seguendo un istinto che una persona più superstiziosa di lui avrebbe definito destino, si mosse in direzione del suono. Girato l'angolo, in una piazza, in quattro stavano assaltando un uomo che, per quanto abile, avrebbe avuto la peggio. Mentre l'uomo disarmava due dei malviventi, Marc intervenne, colpendo un assalitore con un bastone e mettendo in fuga l'intero gruppo. «Grazie.» L'uomo, poco più grande di lui, si voltò verso il ragazzo. «Stavo rientrando a casa e sono stato aggredito, probabilmente erano dei ladri. Vi sono riconoscente, sarebbe potuta finire male.» Si frugò nelle tasche e poi lo guardò mortificato. «Sarei morto per nulla, ho lasciato tutto in caserma. Vi prego, venite domani e permettetemi di ringraziarvi adeguatamente. Conoscete la caserma dei moschettieri?»

Marc si illuminò. «Siete un moschettiere?»

«Perdonate, non mi sono presentato. Alexandre Blanchard, al vostro servizio.» Blanchard. Aveva sentito spesso quel nome dai moschettieri che frequentavano le locande; moschettiere semplice, sì, ma molto in vista. Marc ebbe solo un istante di esitazione, prima di realizzare che se avesse sprecato quell'occasione lo avrebbe rimpianto tutta la vita.

«Non voglio il vostro denaro signore, ho fatto solo quello che chiunque avrebbe fatto, ma se posso comunque approfittare di voi...» tentennò, mentre l'altro lo guardava incuriosito. «Ho sempre desiderato diventare moschettiere e servire Sua Maestà. Non ho denaro a sufficienza, né un nome importante, ma forse voi potreste aiutarmi.»

L'altro era titubante. Non si trattava di una richiesta da poco, ma il ragazzo gli aveva appena salvato la vita e Clovis de Arouet insisteva da tempo perché prendesse con sé un aiutante.

«Sta bene. Venite da me domani» gli aveva detto infine, tendendogli la mano.

E così, la mattina dopo, Marc salutò il padre, diede un'ultima occhiata alla casa in cui Martine aveva vissuto fino a pochi giorni prima e si incamminò. La caserma brulicava di uomini che duellavano, pulivano le armi, parlavano e giocavano a dadi. Il ragazzo percepì il cuore battere un po' più forte: aveva immaginato mille volte il momento in cui avrebbe varcato quella soglia e si sarebbe messo a disposizione del luogotenente.

«Cercate qualcuno, giovanotto?» Marc sobbalzò, colto alla sprovvista. Alle sue spalle stava un uomo sulla sessantina, con il volto lungo e bruno, gli zigomi sporgenti, il naso adunco, l'occhio intelligente e un pesante accento guascone che lo identificavano, senza lasciar spazio a dubbi, come il luogotenente-capitano, su cui il giovane aveva tanto fantasticato.

La madre di Marc, infatti, nata in Guascogna, lo aveva cresciuto nel mito di quel giovane che, tanti anni prima, dal paesino vicino al suo, si era recato nella capitale per far carriera.

«Signor d'Artagnan, è un onore per me conoscervi.»

«Vi ringrazio, ma non mi avete risposto ancora» ribatté l'altro, sorridendo bonariamente.

«Cerco il moschettiere Blanchard, signore. Alexandre Blanchard.»

«Potete cercarlo laggiù» disse d'Artagnan indicando una delle palazzine. «Buona fortuna, ragazzo.»

Quando egli vi si recò, però, nella stanza trovò solo tre giovani che giocavano a carte, ma nessuna traccia di Blanchard.

«Buongiorno. Sto cercando il moschettiere Blanchard, mi hanno detto che lo avrei trovato qui.»

«Vi avevano detto bene, ma si è allontanato» disse uno dei tre, posando le carte. «Il mio nome è Raoul, loro sono Victor e André.»

I tre dimostravano più o meno la stessa età, ventitré anni circa, ma le somiglianze finivano lì. Raoul era longilineo ed elegante, fin troppo per un uomo di spada e non di lettere; gli occhi erano chiari e i capelli scuri, portati lunghi e ben curati. André, il più alto tra loro, aveva un aspetto possente, con i muscoli che si intravedevano sotto la divisa, un sorriso impertinente e folti baffi che si sfiorava di tanto in tanto per darsi un tono. Victor, infine, sembrava il più serio, oltre a essere il più avvenente: l'unico orpello, una croce d'argento al collo.

«Marc Pereton. Il moschettiere Blanchard mi ha detto di presentarmi oggi per mettermi al suo servizio.»

«Ah» un lampo di comprensione illuminò gli occhi di Raoul. «Siete il suo salvatore! Alexandre ce ne ha parlato, noi facciamo parte della compagnia del luogotenente de Arouet, di cui Blanchard è il secondo. Vi arruolerete?»

«Come cadetto, non come moschettiere.»

«In molti iniziano così, me compreso» replicò Victor con benevolenza. «Sapete già dove alloggerete?»

«Ho lasciato poco fa la casa di mio padre, pensavo di cercare un alloggio qui intorno.»

I tre si scambiarono un'occhiata.

«Noi abitiamo insieme, la casa è piccola e spartana, ma un letto possiamo darvelo, se credete» offrì Raoul. Marc guardò gli altri due dubbioso, ma quelli non protestarono.

«C'è da sopportare André che russa» aggiunse Victor,«ma fortunatamente passa più tempo nei letti altruiche nel suo.»

Marc si rilassò appena: quei giovani avevano la sua età o poco più, erano diventati da poco moschettieri e sembravano amichevoli. Quando Alexandre tornò, alcune ore dopo, li trovò tutti e quattro occupati a perdere a dadi soldi che neppure avevano.

«Marc, benvenuto» commentò soltanto, sedendosi e poggiando sul tavolo da bere e da mangiare. «Con gli omaggi di Sua Maestà.»

Alexandre Blanchard era uno strano personaggio, e molti non si spiegavano come avesse fatto a conquistarsi un posto nella cerchia più ristretta del sovrano. Era figlio di un marchese, certo, ma era l'ultimogenito, e tutti sapevano che il padre lo aveva destinato alla vita monastica.

Invece, si era arruolato ed era diventato moschettiere sette anni prima, giovanissimo, sotto la guida dell'allora moschettiere, e poi luogotenente, Clovis de Arouet. L'amicizia con re Luigi era nata da un banale, e segretissimo, incidente di caccia, in cui il sovrano si era lasciato sfuggire una preda e Alexandre aveva, istintivamente, coperto la sua goffaggine assumendosi la responsabilità. Una spontanea simpatia si era trasformata, negli anni, in fiducia reciproca. Merce rara, alla corte di Francia.

«Come sta il re?» chiese, tra un boccone e l'altro, Raoul.

«Infastidito.»

«Cos'ha fatto il duca?»

Alexandre sorrise. Il duca altri non era che Filippo d'Orléans, il fratello del re, e tutti sapevano che i grattacapi del sovrano si dovevano per metà proprio a lui.

«Si è presentato a uno spettacolo teatrale in abiti femminili, accompagnato dal Cavaliere di Lorena.»

«Avrà attinto al guardaroba della moglie. Gli abiti non le mancano» scherzò André.

Victor sbuffò. «Non sarebbe certo la prima volta.»

«No, ma il re non se ne rassegna. A ogni buon conto, mi risulta che siate in servizio tra pochi minuti. Radunate la compagnia e andate al Louvre. Noi invece andremo dal luogotenente,» aggiunse rivolto a Marc, «così potrete arruolarvi.»

Nell'appartamento di de Arouet trovarono numerosi moschettieri e postulanti riuniti, nonché d'Artagnan in persona, che squadrò Marc con curiosità.

«Poco fa, parlandovi, ho sentito l'ombra di un accento familiare, giovanotto. Sono forse in errore?»

«No, signore. Sono nato a Parigi e sempre vi ho vissuto, ma si dice che i figli prendano l'accento della madre e la mia era guascone, come lo siete voi.»

«Voi sapete che per entrare nei moschettieri, a meno che non si abbia denaro sufficiente o una solida raccomandazione, bisogna aver dato prova di sé in qualche campagna o aver compiuto imprese segnalate, o ancora aver prestato servizio in altro reggimento per due anni?»

«Ne sono ben consapevole, signore, e mi rimetto alla vostra valutazione.»

Il grand'uomo lo squadrò, non senza benevolenza, mentre Marc tratteneva il respiro.

«Io stesso iniziai all'Accademia reale» disse infine.

«Vi unirete a loro e, salvo la presenza obbligata in alcune lezioni, sarete al servizio del moschettiere Blanchard. Che ne dite?»

Marc non poteva dirne proprio nulla, l'emozione era troppa. Stava iniziando l'avventura che aveva sognato tutta la vita.

***

Delphine, cresciuta come figlia di un marchese, sarebbe dovuta essere avvezza alla magnificenza della corte: in realtà, vi si era recata poche volte e sempre durante il regno cupo e ben poco festaiolo di Mazzarino, pertanto non ci si dovrebbe stupire davanti al suo sguardo rapito.

Aveva impiegato molto tempo a prepararsi e sfoggiava un abito nuovo che non aveva nulla da invidiare a quelli delle altre dame eppure, circondata da tante splendide donne, si sentiva insicura. Il Louvre era magnifico quella sera, illuminato da torce e custodito dai moschettieri; la baronessa continuava a guardarsi attorno estasiata, bevendo ogni immagine che riusciva a catturare.

«Andiamo a portare il nostro omaggio al re, mia cara.» Il marito le offrì il braccio e si fece largo nel vortice di colori e profumi: era tutto un volteggiare di stoffe preziose, perle e calici di champagne, una sinfonia senza fine fatta di futili chiacchiere e risate celate da sfarzosi ventagli. Una perfezione finta e costruita, Delphine lo sapeva, tutti a corte indossavano una maschera, o molte maschere da cambiare all'occorrenza, ma non per questo era meno seducente. In un piccolo palco rialzato, i sovrani ricevevano gli omaggi degli ospiti. Il re indossava un abito rosso bordato d'oro, il colore dei Cesari, e sedeva composto, muovendosi solo di tanto in tanto per scambiare due parole con d'Artagnan alle sue spalle. Luigi sorrideva a tutti, di un sorriso brillante e festoso, così diverso da quello pallido della moglie.

Non era un matrimonio felice, quello di Maria Teresa: dopo un primo anno di relativa serenità, il marito aveva ricominciato a interessarsi alle altre donne. Dei loro tre figli, solo il delfino sopravviveva, ma la sua salute precaria era costante fonte di ansia per entrambi i genitori e per il regno intero. E come se questi dolori non fossero abbastanza, l'amante in carica del re, Louise La Baume Le Blanc de la Vallière, aveva avuto dal sovrano due figli in salute.

A poco a poco Delphine iniziò a sentirsi a suo agio, nonostante il rossore che le imporporava le gote; da donna sposata sentiva in sé una sicurezza che non aveva mai posseduto prima, la serenità di chi sapeva di aver ottenuto tutto dalla vita, un buon matrimonio con un uomo rispettabile e un figlio in arrivo. Stava chiacchierando con alcune conoscenti quando un brusio segnalò l'arrivo di qualcuno di importante. La coppia che avanzava verso il re attirava ogni sguardo: l'uomo, portamento regale e abiti sfarzosi sulle tinte del viola, dava il braccio alla moglie, bellissima e fiera. Enrichetta Anna, duchessa d'Orléans, colei che tutti segretamente definivano la vera regina di Francia, sorrideva, gli occhi fissi sul re.

«Maestà, vi rendo omaggio» disse Filippo, piegandosi nella riverenza. Luigi sbuffò divertito davanti all'esagerato inchino del fratello e scese dal trono per abbracciarlo, poi si voltò verso la cognata.

«Come state, Madame?» chiese lui, con autentica sollecitudine, mentre ella si rialzava. «Siamo addolorati per il vostro lutto.»

Due settimane prima Enrichetta aveva messo al mondo una bambina, morta poche ore dopo la nascita. Il re, che aveva perso già due figlie, comprendeva bene quel dolore. La regina, alle sue spalle, strinse le labbra e tacque. Per la duchessa si trattava della prima uscita pubblica e il pallore del volto ne denotava la stanchezza. Dal canto suo, Filippo, dopo alcuni giorni di cupo isolamento, era tornato alle sue abitudini di sempre e anche quella sera si unì ai suoi favoriti, mangiando a volontà e bevendo ancora di più. Delphine, comunque, aveva troppo da osservare quella sera per concentrarsi solo sui due fratelli Borbone.

Tra le dame quella sera il pettegolezzo più sussurrato non riguardava Enrichetta, ma l'identità della nuova favorita del re. Luigi XIV aveva, infatti, ereditato dal nonno, il grande Enrico IV, un certo debole per le donne e un'attitudine alla conquista. L'arte del corteggiamento e il desiderio di sentirsi amato e ammirato erano parte di lui da sempre e non ne faceva certo mistero. Louise lo aveva attratto, anni prima, per l'innocenza con cui aveva ceduto, nonostante il rigore morale che l'aveva sempre contraddistinta e che l'aveva persino spinta a fuggire, a un certo punto, costringendo d'Artagnan a inseguirla fino in un convento. Ultimamente, però, il suo assurdo rifiuto di tornare a corte l'aveva allontanata dal sovrano. Sarebbe riuscita a riconquistarlo? Dopotutto, il re sembrava non essersi del tutto stancato di lei ma, al tempo stesso, si guardava attorno, con gioia di molte famiglie. Una figlia nel letto del sovrano poteva aprire molte porte.

Le scommesse, spesso accompagnate da numerosi scudi d'argento e luigi d'oro, riguardavano soprattutto una dama della regina, Lucrezia Laferé, figlia del duca di Luynes, e una dama di Madame, Françoise-Athénaïs de Rochechouart de Mortemart, marchesa di Montespan, dame non solo belle, ma argute, colte e divertenti. Fu proprio su Lucrezia che gli occhi curiosi di Delphine si soffermarono. Una perfetta bellezza, incorniciata da abiti dorati che mettevano in risalto il candore della pelle, i boccoli biondi che parevano assorbire l'intera luce delle mille candele, lo sguardo altero, distante. La ragazza appariva annoiata, ma non appena vide Delphine le andò incontro, portando con sé il profumo di gelsomino che da sempre la caratterizzava, con l'ombra di un sorriso a distenderle le labbra.

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