Non ti faccio niente

By ochaurobora

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1982. Un uomo misterioso rapisce dei bambini, li tiene con sé tre giorni, quindi li restituisce alla famiglia... More

5 maggio 1982
9 ottobre 2015
Papaveri e papere
Le cose non dette
Vicoli ciechi
Convergenze
Decisioni
Il viaggio di Vincenzo
Caduta libera
Lo schema di Giacomo
Domino
Banchetto
I pezzi sparsi
Le vie senza ritorno
Un'altra alba
Confronti
Nuove strade
Prima
Dopo
L'alveare di Luisella
Gli appuntamenti
Gli ultimi passi
Epilogo

Il macello

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By ochaurobora

Pesante.

Il portellone del magazzino del Ciaffo era pesante.

I piedi finché tornava alla macchina erano pesanti.

Il suo corpo piombato sul sedile era pesante.

Aveva fatto fatica a girare la chiavetta, ad ascoltare il suono della marmitta finché era ancora amplificato dal posto chiuso, TAC TAC TAC TAC TAC, a coordinare il piede, la frizione, la mano, il cambio, sinistra, dritto, ingrana la prima, come quel giorno in via Provinciale, quando aveva deciso di smettere. Si era strappato fuori da quel posto caldo, vicino a casa, alla tana sicura nella quale si rifugiava, le braccia della Nives. L'aveva guardata entrare, girare per tutte le stanze, uscire e risalire sull'auto, che gli pareva quella del Natalino. Era sparita dietro la curva, un'ombra dietro a un finestrino, e quello era stato il loro indegno addio. Com'era difficile prendere decisioni senza di lei, com'era difficile mantenerle. Aveva fatto i primi chilometri sperando in qualunque cosa il destino avesse voluto mettere sul suo cammino, polizia, ambulanze, emissari della sua donna meravigliosa che lo costringessero a tornare a casa, ma non era venuto nessuno. La telefonata era arrivata finché stava immobile sulla sua poltrona, un gatto a ronfare tra i piedi. La voce della donna non aveva tradito emozioni.

«Ciao, Vincenzo, scusa se ci ho messo molto, ma immaginerai che il bambino mi abbia tenuta impegnata. Prima che tu me lo chieda: è ancora vivo. Se vuoi che continui ad esserlo sai già che devi venire da me. E devi venire da solo, niente polizia, niente complici, niente di niente. Io ti guarderò da lontano. Se non sarai solo lo ammazzo. Se vedo qualcuno che ti segue lo ammazzo. Se non fai quello che ti dirò quando te lo dirò lo ammazzo. Siamo d'accordo?»

E lui era partito, dopo che si era fatto ripetere tre volte la strada, come si chiamava il posto, come avrebbe potuto trovarlo se si fosse perso. Lei era stata paziente, quasi materna. Prima di uscire di casa Vincenzo aveva avuto la tentazione di scrivere due righe. Poi invece si era solo preso l'ultima paperella superstite, avrebbe fatto il viaggio insieme a lui dopo anni chiusa nel ripostiglio. Una fine avventurosa per un innocuo giocattolo da bagno. Ci aveva messo tanto, più del previsto. Si era perso innumerevoli volte, anche su strade che conosceva benissimo, non si raccapezzava, non capiva in che zona di Perugia si trovasse e come raggiungere quella industriale, là dove c'era il vecchio macello. Ne aveva sentito parlare, come tutti, per via di quella gente che era andata a viverci, e poi gli sgomberi, le autorità, i vecchi del paese che prima o dopo ci avevano portato una bestia da macellare e che ne parlavano come se fosse roba loro. Meglio che marcisse inutilizzato piuttosto che ci stesse gente foresta. E Vincenzo, che era foresto più di molti altri, restava muto in disparte ad aspettare il momento giusto per andarsene. Ora il macello era roba sua più di quanto non sarebbe mai stato per tutti loro. Quando finalmente aveva trovato le indicazioni giuste e imboccato la via sterrata, si era accomiatato dal mondo, sapendo di andare incontro a una fine molto dolorosa. Era un ingenuo ma era stato abbastanza tempo al mondo da sapere come andassero le cose. Chiese scusa ai bambini morti, chiese scusa a Giacomo e Mariangela, chiese scusa alla Nives per averla lasciata con l'inganno e infine chiese scusa a tutte le anime che aveva creduto di salvare, condannandole a una paura cupa che li avrebbe accompagnati per sempre, come un'ombra. Arrivò al segnale, un vecchio cartello della guardia forestale, e si fermò. Respirava male e aveva paura, la mandibola tremava, le dita erano fredde e sudate. Fece la sua telefonata. Lei non rispose, spense, riprovò, niente. Passarono dieci minuti e lo schermo si illuminò.

«Ho controllato che avessi fatto come ti avevo detto. Bravo. Ora vieni avanti fino al macello, piano. Io ti vedrò cinquecento metri prima, da quel momento tutto quello che farai sarà direttamente collegato alla testa di Gabriele. Il cancello sarà aperto, tu entra, fermati subito, scendi e chiudilo con la catena e il lucchetto che vedrai lì vicino, per terra. Poi resta a sinistra, costeggia tutte le cataste con l'auto, tieniti lontano dal telo verde a terra. Fermati davanti all'ingresso e resta a sinistra. Entra da lì. Ci trovi in fondo.»

Vincenzo era in stato confusionale, ma riuscì a chiedere:

«E' vivo? Gabriele è vivo?»

Lei sembrò seccata.

«CERTO che è vivo! Credi che mi darei tanto da fare se non fosse vivo? Ti sparerei un colpo in fronte e basta, no? Ora entra, che col buio finisce che fai dei guai.»

Questo modo di fare era così vicino a quello della Nives, spiccio, asciutto, che si sentì rincuorato. Almeno sarebbe morto per mano di una donna forte. Seguì le istruzioni alla lettera, con calma e metodo, portando a termine per bene il suo ultimo compito. Parcheggiò l'auto, dando ascolto all'ultimo borbottio della marmitta. Infilò il portafogli e il cellulare in tasca, anche se non gli sarebbero serviti, ma era abituato così. Diede un'occhiata al mondo alle sue spalle. Pensò che era stato bello. Difficile, ma bello.

"Meglio di così non mi è venuto."

Ed entrò nel macello.

*

Era già stato in un mattatoio, una volta. Non più attivo, era stato riconvertito da un architetto e ora ci esponevano delle opere d'arte appese ai ganci. Si era sentito male ma non era voluto uscire perché gli sarebbe sembrato maleducato. La Nives di arte era quasi del tutto digiuna ma tra i pittori che esponevano c'era pure un suo parente e allora non aveva voluto fare la zotica di famiglia. Se n'erano venuti via con addosso un senso di disagio, lui perché aveva immaginato troppo e lei perché non aveva capito granché. Stavano insieme da pochi anni e la Nives era ancora abbastanza soda da fare appetito a molti, ma quella sera non aveva avuto modo di soddisfare ed essere soddisfatta, perché a casa Vincenzo le aveva confessato di avere dei problemi con certe cose, si era messo a tremare accarezzando i gatti, poi era andato in bagno e non era uscito più. Ancora adesso, quindici anni dopo, Vincenzo aveva problemi con certe cose. Il posto gli mormorava di sangue e morte e bestie che avevano paura. L'odore era di vuoto, polvere, umidità che si mangia i muri. Camminava lento, senza riuscire a vedere bene, con l'ansia che si trasformava in angoscia e tutte le paure che confluivano in una sola, l'imperativo categorico: il bambino.

Dov'era il bambino?

Come lo salvava, ora, il bambino?

Come poteva essere certo che lo liberasse?

Non poteva.

Ecco tutto.

Alla fine aveva visto lui prima ancora di vedere lei. La scala a palchetto in cima a una piccola rampa. Sopra la scala una sagoma. Dalla sagoma a una delle travi di metallo una corda. Gabriele era un fagotto informe poggiato sul ripiano della scala munita di rotelle. Vivo, morto, non si capiva. Intorno al collo aveva un cappio semplice, nessun nodo scorsoio. Il cappio era stato assicurato alla trave di ferro. Se la scala si spostava il bambino scivolava giù e moriva impiccato. La scala era inclinata, senza freni o fermi, due ruote già giù dalla rampa. A tenere ferma la scala lei.

«Vieni avanti, Vincenzo, che non ti vedo.»

«C'è buio.»

«Sì, ma qui c'è un po' più di luce. Vieni avanti.»

«Gabriele è vivo?»

«E' vivo.»

«Come faccio a saperlo?»

«Puoi salire e toccarlo.»

«Perché la corda?»

«Per precauzione. Vieni avanti.»

Mise il piede su qualcosa di diverso dal cemento, frusciava, sembrava un telone cerato di quelli che usava per avvolgere gli alberi in inverno.

«Cos'è?»

«Niente. Vieni avanti.»

Lui esitò, meditando di disobbedire.

«Vengo avanti io?» lo minacciò la donna. E fece un movimento, staccandosi dalla scala. Quella si postò in avanti con un suono metallico.

«NO!» gridò Vincenzo, e subito calpestò con vigore la plastica, uno, due, al terzo passo lo scatto, la morsa alla gamba, il secondo piede che pestava cercando di ristabilire l'equilibrio ed ecco un secondo scatto, una seconda morsa, e stavolta un dolore lancinante che penetrava nella carne, bruciando, bloccandolo lì dov'era, strappandogli un mugolio dalla gola. Abbassò gli occhi e non vide niente, erano sotto la plastica ma sapeva lo stesso cosa erano. Tagliole, da caccia. Due ma molte più di due lì sotto, certamente, era andata sul sicuro. Vincenzo si sforzava di trattenere i lamenti, il dolore era atteso –quello o un altro, atteso comunque- e lo voleva tenere, non lasciarlo andare, era suo, se lo meritava, ma un gemito gli sfuggì dalle labbra lo stesso, molto vicino al pianto. Da fuori gli sembrò di sentire un'eco dello stesso suono, accompagnato da un tonfo. Alzò lo sguardo su di lei per capire se lo avesse sentito, ma lei era ancora immobile, gli occhi solo per lui.

«Bene.» gli disse «Adesso parliamo.».

*

«Tu lo sai chi sono?»

«La mamma di Chiara Parrinello.»

«Sì.»

«Io l'ho quasi presa. Volevo prenderla, ma poi...»

«... non era abbastanza triste?»

Il dolore alle gambe era fortissimo, ma Vincenzo trovò le energie per stupirsi. Aveva sempre dovuto spiegarle, queste cose, invece ora no. Proprio ora no.

«Io ti ho visto. Quel giorno e il giorno prima. Ti ho visto, ho capito cosa volevi fare.» si era fermata, stupita di ascoltarsi a voce alta «E non ti ho fermato, perché non eri tu il pericolo.» lo aveva guardato bene, come se si fosse accorta solo allora che fosse lì, che fosse lui. «Tu potevi essere la salvezza.»

«Mi dispiace.»

«Sì, certo.»

Non stava mentendo. Si era sistemata meglio contro la scala, facendola cigolare appena. A Vincenzo era sfuggito un pigolio.

«Quindi hai capito, sai, tutto questo cosa è.»

«Sì.»

«Bene.»

«Ma Gabriele non c'entra.»

«Gabriele c'entra, c'entrava dall'inizio. La mia prima idea, la cosa che avevo pensato, era di ucciderlo davanti a te, farti guardare come sono stata a guardare io allora, tanti anni fa. L'idea era che Pietro ti tenesse fermo, anche se lui mi aveva già detto delle tagliole, aveva molti amici cacciatori, sapeva dove prenderle, come montarle... sono qui da mesi, pronte.» si era immersa nelle proprie parole, un po' come accadeva anche a Bianca «Poi avevamo pensato di ucciderti, farti molto male, guardarti morire. Poi io avrei ucciso lui e poi me. E basta.»

Aveva sospirato.

«Invece lui è morto prima e allora ho dovuto arrangiarmi.» aveva alzato su di lui degli occhi limpidissimi, belli. «Non ho la forza per torturare e uccidere un uomo. La forza fisica, intendo. Tu sei più grosso di me. Senza Pietro era inutile anche provarci, troppo complicato, e poi fare le cose in fretta...» aveva concluso con un gesto vago. «Quindi ucciderò Gabriele e basta. E tu guarderai. E soffrirai. E poi mi ucciderò io e tu resterai qui a morire da solo. Oppure ti troverà qualcuno, non importa. Non importa, tanto sarai morto lo stesso.»

Vincenzo aveva provato a parlare, ma il fiato non veniva, non riusciva nemmeno a inghiottire, venivano fuori singulti muti, inutili come lui.

«Se ti fossi consegnato mi sarei fermata.»

Primo colpo.

«Dopo Nicolò, se fossi andato alla polizia... Ma magari non hai ricollegato, ci sono stati degli imprevisti... Però dopo Greta sì, dopo Greta avresti dovuto. E invece niente, hai dovuto aspettare Manuel, e Giovanni, e io ero sempre lì, sarebbe bastata una parola, una parola sola, sai? Anche per Gabriele.»

Vincenzo piangeva. Silenzioso, immobile come una pianta dal fusto storto, le gambe bloccate, una gonfia, una sanguinante.

«Tu pensavi di essere un eroe. Hai pensato guarda, salvo questi bambini, guarda, gli cambio la vita. E non hai mai pensato agli altri. A quelli che stavano intorno a loro. A quelli che non prendevi e che finivano in mezzo a una strada, disgraziati il doppio, a guardare l'amico salvato, a farsi ammazzare dal padre. Oppure quelli che per colpa tua si sono trovati segregati perché i genitori non volevano che toccasse anche a loro. A tutti quelli che non hanno avuto più fiducia, a chi non ha più fatto un sorriso a un bambino per non essere guardato male, tu hai avvelenato la vita a un sacco di persone, Vincenzo, lo sai, sì? Salvarne uno per colpirne cento.» aveva riso. «Hai creato un mondo di terrore, solo per sentirti un eroe. Ecco. Questo è quello che hai fatto.»

Vincenzo aveva abbassato la testa, singhiozzando sommessamente.

«Io volevo fare bene.»

«Eh, non ti è riuscito. Non ti è riuscito proprio.»

Poi aveva voltato la testa, e le era spuntato un sorriso spontaneo. Vincenzo aveva sentito il suo nome esplodere da qualche parte, a destra, e aveva guardato da quella parte, cercando, gli occhi offuscati dalle lacrime, finché non aveva visto Bianca, immobile, lo sguardo fisso sulla donna davanti a lui, una pistola puntata.

«BIANCA, NO!» aveva gridato

ma non era servito a niente.

Nemmeno quello.

*

Bianca aveva sparato.

Il proiettile era andato vicinissimo alla donna davanti alla scala, tanto che era rimbalzato su una delle aste in metallo. Lei si era spostata istintivamente, abbassandosi un poco, e la scala era venuta avanti, tutta storta da un lato, verso Vincenzo.

«NO!» aveva gridato di nuovo lui, non trovando nessun'altra parola «NO NO NO NO NO!» e lì quella donna anziana dall'aria innocua lo aveva fissato e lentamente si era fatta da parte. La scala aveva ripreso a scendere, rallentando perché qualcosa la tratteneva, e questo qualcosa era la corda appesa al collo del bambino che Bianca vedeva, finalmente, troppo tardi. La testa di Gabriele aveva già lasciato il palchetto e restava appesa al cappio, mentre il corpo tratteneva a malapena la struttura in metallo. Il peso di un bambino di due anni contro l'inerzia e la pendenza di una piccola rampa per scuoiare le bestie. La rampa aveva vinto, la scala aveva preso velocità, il busto era scivolato via e quindi le gambe. La donna non guardava il bambino che restava appeso sopra di lei, e nemmeno guardava la scala che correva verso il basso, incontrando l'ostacolo delle altre tagliole sotto il telo che scattavano e ne deviavano il percorso facendola passare accanto a Vincenzo e sfilare via, verso il buio. La donna osservava lui che si dibatteva, e piangeva, e gridava e diceva no, e cercava di arrancare in avanti poggiando le ginocchia, facendo scattare altre tagliole che non riuscivano a catturarlo, perdendo sangue e dignità e ogni residua speranza di essere stato una brava persona e un uomo buono, perché i frutti della sua bontà eccoli lì che penzolavano sopra un regno di morte. Allora Bianca aveva sparato una seconda volta, e quella volta l'aveva presa, perché la donna era ruotata indietro, di scatto, si era piegata, era venuta avanti giù dall'altra parte, dalla rampa opposta, in un tentativo di nascondersi o fuggire. Bianca non aveva pensato, aveva fatto, si era messa la pistola nei pantaloni ed era corsa verso Vincenzo, deviando a sinistra, piombando sulla scala, girandola, spingendola di nuovo ulla rampa, fino alla cima, al piano, e lì aveva cercato di fermarla, non capendo come, che non conosceva quelle scale, mettendola un po' storta, ci era salita e quella si era mossa, era scesa, l'aveva sistemata, ci era risalita, arrivata in cima aveva sentito che si muoveva di nuovo ma aveva brancolato in avanti cercando di prendere il bambino, sapendo che non doveva afferrare lui ma la corda, che se tirava lui faceva peggio, perché era scivolato, non era caduto come forse era previsto, quindi stava soffocando, non si era spezzato il collo,il collo si spezza in maniera netta quando cadi di colpo, bam, era per questo che lei aveva optato per la pistola, a casa sua non c'erano i soffitti adatti e nemmeno un lampadario perché a lei piacevano i faretti, quindi lo aveva sfiorato, le mani, la pancia, tirandolo per il maglioncino, le ruote che la facevano girare e che stavano per prendere la discesa opposta a quella di Vincenzo, lo aveva fatto dondolare verso di lei e aveva preso la corda, tirando con tutte le sue forze per arrestare la scala, e ci era riuscita ma a malapena, doveva fare alla svelta, mollare con una mano e subito la rampa aveva iniziato a tirarla con forza, aveva ripreso la pistola, un breve conto mentale

"Restano tre colpi."

e aveva cercato di appoggiare la canna alla corda, ma era tutto instabile, la scala scappava, lei non aveva tanta forza quanta ne avrebbe voluta e il bambino stava diventando blu, ci andò più vicina possibile e sparò. Prese la corda, la sfilacciò ma non abbastanza. Sentiva che il braccio sinistro stava cedendo, avrebbe mollato, la scala sarebbe scappata via e avrebbe dovuto ricominciare tutto da capo e non c'era tempo, il bambino sarebbe soffocato, quindi tirò e sentì un suono gutturale uscire dalla sua gola, tutte le energie che andavano nel braccio, una fiammata in faccia per lo sforzo e pensò

"Così è questa, la vita."

portando il braccio destro avanti, puntando la corda, sparando.

La corda si spezzò, la scala balzò indietro, Bianca si piegò in avanti per accompagnare la caduta di Gabriele il più possibile, poi lo lasciò andare e il bambino cadde da solo un metro di altezza. Vincenzo era arrivato arrancando alla base della rampa, cercò di allungare le braccia, ma tra lui e Gabriele, che era in cima, c'erano quasi quattro metri. Il bambino atterrò con un tonfo sordo. La scala arrivò alla fine della rampa, Bianca sporta ancora sopra il parapetto.

Sentì il rombo e l'odore.

Poi la Uno Van speronò la scala.

Il corpo di Bianca schizzò via, come fosse stata una bambola di pezza.

Centrò una delle colonne di metallo, e Bianca sentì un rumore di ramoscelli di bosco, e quel rumore era lei. Ci ruotò intorno come un boomerang, cadde di testa, un secondo rumore, più ovattato. Restò immobile, la faccia che le rimaneva rivolta verso la rampa e Vincenzo.

"Così è questa, la vita." pensò di nuovo.

Vincenzo gridava, gridava ancora, gridava sempre, trascinandosi su per la rampa, la Uno Van che faceva retromarcia e accendeva i fari, puntando la salita dall'altro lato e il bambino lì sopra, sul piano. Le luci accecarono per un istante Vincenzo, che abbassò lo sguardo su Gabriele. Gabriele aveva gli occhi aperti. Alla sua seconda dose di Valium il corpo aveva reagito meglio, ci aveva messo delle ore ma lo aveva smaltito da solo, niente coma. E lo strattone, il debito di ossigeno, quindi l'ossigenazione improvvisa lo avevano scosso quanto bastava da svegliarlo. Non che fosse davvero presente, ma era sveglio. Su un ripiano freddo. Con davanti a lui un uomo sconosciuto, anziano, la barba e i baffi, le mani sporche di sangue, che strisciava verso di lui chiamandolo.

«Gabriele! Gabriele!»

La Uno Van partì, prese male la rampa e ripiombò giù di lato.

Vincenzo aveva guadagnato un metro, le tagliole non gli davano tregua, erano pesanti, era TUTTO pesante, ma il bambino era lì, e se solo lo avesse raggiunto e fosse riuscito a prenderlo e a ruotare sulla schiena forse lo avrebbe fatto scivolare di lato, al di là della rampa, oppure se lo sarebbe messo davanti, la schiena rivolta all'auto, così avrebbe preso lui e le ruote non lo avrebbero sfiorato. La Uno Van aveva fatto retromarcia.

«Gabriele vieni qui.» aveva supplicato Vincenzo «Vieni qui, Gabriele. Non ti faccio niente.»

La mano tesa, rossa, gli occhi pieni di lacrime in quelli del bambino. E Gabriele si era mosso. Non era stato capace di alzare la testa, ma aveva spostato la manina. Una, due volte. Verso Vincenzo. Tesa. Questo bastò a spingere l'uomo oltre le gambe e il dolore e la paura e i fallimenti che avevano divorato il suo universo, un gomito avanti, un ginocchio a strappare carne, la gola a gorgogliare lo sforzo, la mano avanti a sfiorare le dita di Gabriele e prenderle, e tirarlo mentre il motore rombava e le ruote partivano, metterselo sotto mentre arrivavano sulla rampa e pregare che bastasse, che riuscisse a proteggerlo, a salvarlo, a salvare almeno lui.

E in quel momento l'auto di Pietro Parrinello, guidata dalla Nives, aveva centrato la Uno Van.

*

«E' la signora Nives?»

L'uomo era spuntato fuori dal bagagliaio, i capelli in aria, una borsa scura in mano. Non sembrava spaventato dalla doppietta.

«Sì. E lei?»

Si davano del lei come nei vecchi film. Retaggio, educazione.

«Sono il babbo di Daniele.»

La Nives aveva abbassato le canne, ma non troppo.

«Devo usare la macchina.» gli aveva detto.

«Daniele mi ha detto che dovevo portare via una cosa che era dentro questa macchina, mi ha mandato la targa. E' quest'uomo la cosa?»

«Sì, ma ora non importa, devo...»

E avevano sentito uno sparo.

La Nives si era buttata in auto e Gerardo Burati aveva chiuso il bagagliaio, salendo dall'altra parte con la borsa.

«Chi è che spara? Dov'è Daniele?» aveva chiesto affannato.

La Nives era partita.

«E' la.» i fari avevano illuminato il cancello «Dobbiamo scavalcare. Ci sono trappole dentro.» finalmente aveva collegato un nome alle forme che aveva visto all'interno «Tagliole.»

«No, non scavalchiamo.» aveva risposto l'uomo, e un secondo sparo era risuonato.

La Nives si era fermata davanti al cancello e lo aveva guardato mentre apriva la borsa nera.

«Sono stato operaio specializzato per anni. Idraulico, anche. Io ho sempre gli attrezzi in macchina. Pensavo servissero per smontare qualcosa o per il signore, qui dietro.» ne parlava senza esitazione, come se fosse routine fare a pezzi cadaveri per aiutare suo figlio. Nella mente di Gerardo lo era.

«Ha un tronchese?» aveva chiesto la Nives.

«Due.»

«Prenda il più grosso.»

Gerardo era sceso e aveva iniziato a manovrare sulla catena. La Nives guardava dentro, ora che poteva, e vedeva bene che non c'era modo di passare. A sinistra c'erano mucchi di roba, di fronte la sua auto impediva l'ingresso, e sicuro come l'oro Vincenzo si era messo in tasca le chiavi, a destra c'era una specie di apertura nel terreno, e lì dentro sapeva già cosa c'era. Lungo il muro perimetrale, però, tra le varie cataste di roba, c'era un po' di spazio. Lei si ricordava che il macello aveva un ingresso su ogni lato, a sinistra non c'era modo di passare con l'auto, dall'altra parte forse sì. La catena era caduta ed era risuonato un terzo sparo. Gerardo era risalito al volo in auto mentre la Nives già entrava e girava tutto a destra.

«Stanno sparando! Daniele...»

«Daniele non è dentro, Daniele è al sicuro.» era solo mezza bugia, ma la Nives doveva restare concentrata.

Avevano costeggiato con vigore tutto il muro di destra, lasciandoci uno specchietto e un po' di carrozzeria, finché la Nives non aveva visto l'ingresso in fondo al lato lungo, spalancato e sgombro, i mucchi di ferraglia finivano a metà dell'edificio, e aveva spento i fari. Altro sparo, a non pensare che fossero per Vincenzo, nessuno aveva sparato a Vincenzo, era lei che sparava a chi voleva sparare a Vincenzo, poi un rumore di ferraglia mentre si accostavano all'ingresso lateralmente. Dentro si era accesa una luce, era un'auto.

"Col cazzo che scappa." aveva pensato la Nives, e aveva fatto retromarcia, pronta al frontale.

Ma l'auto non era venuta verso l'uscita, era andata avanti e poi si era stortata perché aveva preso una specie di dosso, una rampa. La Nives era venuta avanti mentre l'altra auto faceva manovra, e in un istante aveva sentito un suono un gemito, un verso quasi disumano, ma umano o disumano lei avrebbe riconosciuto il suo uomo in qualunque condizione, e allora seguì la direzione dei fari e vide che illuminavano una specie di salita, e in cima alla salita c'era una specie di fagotto, e oltre quel fagotto...

L'auto aveva fatto retromarcia.

La Nives aveva detto

«Si tenga.»

aveva ingranato la prima

e aveva dato gas.

*

Parte del muso dell'auto era entrata dentro la Uno Van. Saliva fumo, o vapore. Il finestrino del conducente era incrinato ma non rotto. Da dentro un volto di donna era appoggiato al sedile, leggermente reclinato di lato, la bocca schiusa. Gli occhi vivi guardavano l'altra donna alla guida dell'auto del suo ex-marito, ancora aggrappata al volante, il parabrezza in frantumi che aveva lasciato pezzetti dappertutto, sui suoi capelli, sui vestiti, sulle mani.

Si guardavano.

La donna che non sarebbe mai stata madre e la donna che era stata solo madre.

Si vedevano, si sapevano, si raccontavano come era finita.

Erano incredibilmente simili.

Poi gli occhi della donna sulla Uno Van smisero di vedere.

Gerardo, riemerse da sotto il sedile, si era piegato in avanti proteggendosi la testa. Non c'erano airbag in quella macchina. Aveva aperto la portiera.

«Daniele!»

«Bianca.» aveva risposto una voce poco distante.

«Daniele!» aveva insistito Gerardo.

«E' fuori!» aveva detto la Nives uscendo a sua volta dalla macchina «In una buca dopo il cancello. Prenda una torcia per andarci, se ce l'ha, che ci sono le tagliole!»

«Nives?» aveva chiesto la voce.

«Arrivo, stai fermo!»

Gerardo aveva estratto il cellulare e aveva acceso la torcia, uscendo e chiamando a gran voce il figlio. La Nives aveva preso la doppietta ed era salita sulla rampa.

«Ce ne sono altri?»

«Aiuta Bianca!»

«Rispondimi, porco giuda!»

«No, c'era solo lei.»

In cima alla rampa il fagotto era sparito e la Nives lo ritrovava ora sotto a Vincenzo, accartocciato come poteva intorno a quel bambino per proteggerlo. Il bambino aveva gli occhi aperti, si lamentava appena, ma era vivo. Solo allora vide le tagliole.

«Quella maledetta TROIA!» e si buttò in ginocchio a strappare i frammenti di telo rimasti impigliati tra i polpacci di Vincenzo e le morse di ferro.

«Aiuta Bianca.» aveva insistito lui con voce debole.

«Adesso, adesso.»

La Nives aveva aperto e scaricato velocemente la doppietta e poi aveva infilato le canne nella prima tagliola, quella senza denti. Si era aperta abbastanza facilmente, era vecchia, la molla non teneva moltissimo, probabilmente l'osso non era rotto. L'altra gamba era conciata da buttare via, le punte si erano conficcate nella carne, non sapeva nemmeno dove infilare l'arma per farla aprire.

«Aiutala, Nives.» aveva supplicato Vincenzo «Io sto bene, è solo una gamba, aiuta lei, ti prego.»

Sacramentando la donna si era alzata in piedi e si era data un'occhiata intorno. Il posto era ancora illuminato dai fari della Uno Van, ma lì vicino non la vedeva. Si era spostata di un bel po' di metri e poi eccola. Quel che ne restava.

"Signore, fai che sia morta." aveva pensato la Nives, pur essendo un po' scarsina in termini di religiosità. E infatti non venne accontentata. Bianca non era morta. Sembrava fosse stata presa lei da una tagliola, ma una tagliola enorme, grande il doppio della sua altezza, che l'aveva spezzata. Le gambe e il torso erano in una posizione innaturale, ma la cosa peggiore era la faccia. La mandibola era completamente uscita dalla sua posizione e una parte del cranio era schiacciata. C'era sangue, ma non si capiva da dove uscisse. Le si vedeva un solo occhio, e quello era aperto, lucido, quasi ridente.

«Oh, tesoro, mi dispiace.» aveva detto la Nives accoccolandosi accanto a lei. Bianca non si muoveva, occhio a parte. «Senti molto male?» le aveva risposto un verso gutturale che lei aveva interpretato come un "no". Poi aveva guardato da un'altra parte e la Nives si era voltata. La macchina.

«Sì, è morta, è finita, sono morti tutti e due.»

Bianca aveva sbuffato ed emesso un altro suono. "No.".

«Allora cosa? La macchina?»

Bianca l'aveva subito guardata.

«La macchina.» la Nives ci aveva riflettuto «Voi che ti metta nella macchina?»

Bianca aveva spostato lo sguardo verso la propria mano destra. Le dita si muovevano, male ma si muovevano. La Nives le guardò bene, sporgendosi sulla schiena spezzata. Lì c'era la pistola.

«Vuoi che ti metta nella macchina con il cadavere e la pistola. Così sembra che hai fatto tutto tu.»

Bianca l'aveva guardata. L'occhio le rideva.

«E noi ce ne andiamo.»

L'occhio rideva ancora di più.

La Nives si era chinata e le aveva dato un bacio.

«Mi dispiace di essere stata una stronza. E' che lo sai com'è, i pollai, le galline, il gallo...»

L'occhio rideva.

«Sicura che non ti fa male?»

Allora aveva raccolto la pistola e l'aveva infilata in tasca per il calcio, che non si sa mai, aveva preso Bianca sotto le ascelle e aveva iniziato a trascinarla verso l'auto. Vincenzo da sopra la rampa gridava

«Come sta? Nives, come sta?»

«Bene, bene, si aggiusta, stai tranquillo.» rispondeva lei nello sforzo del trascinamento. Aveva girato intorno alla Uno e intorno alla Panda, sistemandoci dentro Bianca con fatica.

«Però mi dispiace lasciarti qui insieme a questo.» fece, buttando un occhio sul cadavere di Parrinello.

Bianca le aveva guardato la tasca e aveva mosso le dita della mano. La Nives le aveva allungato la pistola.

«E' ancora carica?»

Aveva guardato verso Vincenzo, seduto sulla rampa, ora che poteva piegare l'altra gamba, intento a guardarle mentre teneva Gabriele in braccio. La Nives era rientrata nell'abitacolo e aveva piegato il braccio destro di Bianca, mettendole in mano la pistola.

«Riesci?» le aveva chiesto.

L'occhio aveva brillato. Era in anticipo, non aveva fatto passare Capodanno. Pazienza.

«Buon viaggio.» le aveva sussurrato la Nives.

Poi aveva allungato la mano nel bagagliaio e aveva preso il maglione smesso di Parrinello, quello che indossava quando aveva ucciso Mariangela, ed era tornata da Vincenzo. Lì aveva messo il maglione al bambino e ce lo aveva avvolto.

«Cosa fai?» aveva chiesto Vincenzo.

«Non voglio mica che resti qui a morire di freddo.»

«Ma cosa dici?»

«Ora avvisiamo sua madre che venga a prenderselo. Daniele ha il telefono di Cardinali, la chiamiamo con quello. In dieci minuti sono qui, fanno prima di noi.»

Vincenzo aveva guardato il bambino, il bambino aveva guardato lui.

«E Bianca?» aveva osato chiedere con un filo di voce.

«Bianca starà bene.» e lui si era messo a piangere, che di lacrime ne aveva ancora per il resto della vita.

Da fuori era giunta una voce

«Signora Nives?»

«Venga ad aiutarmi!»

Se la chiamava "signora Nives" voleva dire che aveva trovato Daniele, e che non l'aveva trovato male. Gerardo Burati li aveva raggiunti e l'aveva aiutata a liberare l'altra gamba di Vincenzo dalla tagliola. Daniele li aspettava seduto nell'auto della Nives davanti all'altro ingresso.

«Mi chiede di una certa Bianca.» aveva detto Gerardo, la Nives aveva solo scosso la testa.

Vincenzo aveva appoggiato Gabriele a terra e gli aveva fatto una carezza.

«Ora arriva la mamma. Arriva Michela, la mamma.» e il piccolo aveva respirato profondamente, forse capendo, forse era solo molto stanco.

La Nives e Gerardo avevano aiutato Vincenzo a uscire e raggiungere la macchina di lei, mettendolo dietro con Daniele, che non vedendo Bianca era scoppiato in singhiozzi. Mentre la Nives faceva retromarcia Daniele aveva passato il cellulare a Vincenzo, la chiamata già partita.

«Michela? Gabriele è vivo, si trova al vecchio macello della zona industriale. Ci sono anche i Parrinello, tutti e due, sono morti. Ma lui sta bene. Attenti che ci sono delle trappole. Chiama la polizia e manda un'ambulanza, noi ce ne andiamo.».

Dietro la curva Gerardo e Daniele avevano cambiato macchina, senza una parola.

La Nives li aveva aspettati per far loro strada.

Dalmacello era arrivata l'eco dello sparo.

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