La Ruota degli Angeli

By Lightning070

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Napoli, 1934. Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato... More

Premessa
I. Un po' di freddo (certo male non fa) - Parte 1
I. Un po' di freddo (certo male non fa) - Parte 2
II. La nostra buona stella (è la peggiore tra le luci) - Parte 1
II. La nostra buona stella (è la peggiore tra le luci) - Parte 2
III. La più grande libertà (è quella che ci tiene in catene) - Parte 1
III. La più grande libertà (è quella che ci tiene in catene) - Parte 2
IV. C'è tutto il mondo (tra la culla e la fossa) - Parte 1
IV. C'è tutto il mondo (tra la culla e la fossa) - Parte 2
V. La luce delle lanterne (e quella delle lampare) - Parte 1
V. La luce delle lanterne (e quella delle lampare) - Parte 2
VI. Le lacrime dell'Inferno (servono a qualcosa) - Parte 1
VI. Le lacrime dell'Inferno (servono a qualcosa) - Parte 2
VII. Paese reale (di sudditi e re) - Parte 1
VII. Paese reale (di sudditi e re) - Parte 2
VIII. Chi per strada va (per strada muore) - Parte 1
VIII. Chi per strada va (per strada muore) - Parte 2
IX. Le ultime volte (non bussano alla porta) - Parte 1
IX. Le ultime volte (non bussano alla porta) - Parte 2
X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 1
X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 2
X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 3
XI. Apriti cielo (e manda un po' di sole) - Parte 1
XI. Apriti cielo (e manda un po' di sole) - Parte 2
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 1
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 2
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 3
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 4
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 1
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 2
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 3
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 4
XIV. Io ti terrò la mano (tu tienimi l'anima) - Parte 1
XIV. Io ti terrò la mano (tu tienimi l'anima) - Parte 2
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 1
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 2
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 3
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 4
XVI. Vittoria (ma com'è piccola, ma com'è fragile) - Parte 1
XVI. Vittoria (ma com'è piccola, ma com'è fragile) - Parte 2

XIV. Io ti terrò la mano (tu tienimi l'anima) - Parte 3

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By Lightning070


          L'ha detto ad alta voce, imbottigliandosi su una nota stridula che non gli appartiene. Il cuore si trasforma in un timpano cupo nella gabbia toracica. I passi di Bruno si fermano.

«Lo sapevo da prima,» ripete, più piano, scandendo ogni sillaba e sentendola pesare come piombo sulla lingua.

Un fruscio di vestiti. Poi, lo scatto della porta che si chiude. I passi, da più tenui, aumentano d'intensità, finché non scorge la sua sagoma di fianco a lui e avverte il lieve spostamento d'aria addosso.

«Cos'è, che sapevi da prima?»

L'aria arde, gli brucia i polmoni.

«Di Annina.» Non riesce a guardarlo in faccia, tiene gli occhi puntati oltre il velo fumoso della tenda. «Lo sapevo da prima, che era là sotto. E non me l'ha detto nessuno.»

C'è un battito di silenzio così assoluto che la sente, là sotto, a urlare oltre metri di tufo e muratura. Bruno posa a terra la borsa e ha il suono di un macigno che si schianta a valle; e anche di un'ancora che viene di nuovo infissa sul fondale.

«E allora come facevi a saperlo?»

Lo sa già, anche senza guardarlo, che Bruno riesce a scorgere la luce della follia nei suoi occhi; lo sa, che lo sta analizzando come si analizza un paziente bizzoso e indecifrabile.

«Bruno...» gli si spezza la voce a tradimento.

Strizza la bocca e si rifiuta di guardarlo, premendosi un palmo sul volto a nasconderlo e a frenare suoni che non gli appartengono.

«Non ho alcun accordo segreto col Partito, non... non so nemmeno come puoi pensare una cosa del genere di me,» sbotta, con ira repentina che gli scotta le guance.

Vede un lampo di pentimento passare sul volto di Bruno; seguito dalle sue mani che cingono le sue in una stretta impalpabile che non rifugge. Gliele scosta dal volto.

«Non la penso,» dice, semplicemente, «era un'ipotesi che ho scartato dal principio, mi pare ovvio. Sono cose che ho pensato perché non sapevo cos'altro pensare. Così come quella che tu potessi essere l'assassino di una bambina. O un assassino, in generale.»

Ricciardi lo guarda interrogativo, a quell'ultima aggiunta, e Bruno scuote la testa.

«Ho pensato che, magari, potevi aver ucciso chi ha ucciso Annina. Riccia', io non ho nulla su cui basarmi, se non sapere cosa è assolutamente impossibile. Ma questo sarebbe stato più comprensibile di tutto il resto, per quanto... assurdo.»

In tutta risposta, Ricciardi butta via un respiro contratto, con un sorriso amaro come fiele che gli tira le labbra.

«Non ucciderei mai nessuno, Bruno. Per nessuna ragione al mondo,» sussurra, gettando di nuovo lo sguardo oltre la finestra. In strada, i passanti velati dalla tenda appaiono non dissimili dalle sagome evanescenti dei fantasmi. «La morte porta morte e nient'altro. Non credo nella giustizia di sangue, io. E tu dovresti saperlo più di tutti, se davvero mi conosci così bene.»

Bruno, in tutta risposta, porta le sue mani alle labbra, premendole sulle sue dita in un gesto che vale più di mille parole. Non ne pronuncia alcuna. Rimane soltanto a capo chino di fronte a lui, respirando quelle scuse silenziose tra le sue falangi.

Sta respirando anche per lui, in quel momento, perché si sente la testa leggera e assalita da capogiri intermittenti.

«Hai altre ipotesi assurde, Bru'?» tenta di scherzare, anche se la voce gli esce tremolante e affatto ilare. «Sarebbe il momento giusto per dirle.»

Bruno scuote la testa, senza incrociare i suoi occhi né assecondare quell'invito.

«Ne ho altre, ma le tengo per me. Ho parlato pure troppo, per stasera. E tu troppo poco.»

Ricciardi sospira piano a quella frecciata più morbida, per poi tirare Bruno verso di sé: vuole solo scostarlo dal riquadro della finestra, anche se la luce è spenta e i vetri di fronte bui, ma legge nei suoi occhi l'impulso di baciarlo, subito represso. Come se non si sentisse in diritto di farlo, dopo averlo ferito a quel modo; o forse, come se non volesse concederglielo prima di udire la verità.

Quando Ricciardi ritrova la voce, è in un flusso confuso che non riesce ad arginare:

«Bruno, io ho bisogno di saperti qui, in questo momento. Ho bisogno di sapere che non mi credi davvero pazzo, che ti fidi di me e dell'uomo che sai che sono; perché non lo so nemmeno io, cosa sto facendo, ma temo più di dirti la verità che di perdere il posto o di morire o di finire rinchiuso da qualche parte; l'unica cosa che temo di più è che possa accadere a te, e non-»

«Riccia', respira,» lo frena lui, liberandogli le mani e serrandole sui suoi gomiti. «Cosa può esserci, di così terribile da non poterlo dire nemmeno a me?»

Lo chiede con voce che si fa più acuta, quasi stridula, in un sottotono che ha il retrogusto della disperazione. Ricciardi si irrigidisce, e sa che Bruno può sentirlo. Gli si incastra il fiato in gola e capisce, in quel singolo istante, che non riuscirebbe a dirglielo nemmeno volendo. È chiuso troppo in profondità, quel segreto, si è radicato troppo a fondo per estirparlo senza sanguinarne.

«Preferisco che t'immagini qualunque cosa, piuttosto che dirtelo,» soffia via in un refolo. «Piuttosto che dirtelo adesso; perché, prima o poi, lo so che dovrò farlo. Lo so. Ma non ora. Non ora; ora non ce la faccio neanche a pensare.»

Si è corretto senza nemmeno volerlo e il cuore prende a sbattergli in spasmi convulsi, perché già quella è una mezza promessa. Scosta da sé le mani di Bruno e poi le stringe troppo forte, le sta quasi stritolando: vede la sua pelle sbocciare in aloni pallidi quanto la sua nei punti in cui sta premendo.

Non saprebbe nemmeno come dirglielo, quali parole usare. Non è un qualcosa che può rivelare così, su due piedi. Non ci ha mai pensato; non c'è un modo per spiegare a qualcuno che vede i morti, perché non ne conosce nemmeno lui la ragione profonda, né la causa; non ha mai saputo nulla, nulla, se non di essere maledetto.

Non c'è una singola possibilità di non venir preso per folle.

Anche se, magari, Bruno non lo allontanerebbe come teme, lo guarderebbe comunque con gli occhi compassionevoli di chi si ritrova davanti un insano, qualcuno con un cervello difettoso che gli propone visioni impossibili.

«Dopo che differenza farebbe?» lo riscuote Bruno, ora con tono stanco.

«Per te, nessuna.» Fatica a parlare, ha l'impressione di non aver più controllo su ciò che dice. «Quindi, non capisco cosa ti costi aspettare, anche solo un giorno di più.»

A quel punto, Bruno rifugge la sua stretta. Per un istante, Ricciardi precipita in caduta libera; poi il medico fa scivolare una mano sulla sua nuca e lo costringe a guardarlo, con abbastanza forza da fargli dolere i lividi. Infila gli occhi nei suoi, le pupille chiodi roventi conficcate in profondità. Non c'è nulla di affettuoso in quel gesto, adesso.

«Domani, dunque,» dice semplicemente, col tono di un giudice che suggella un verdetto. «Domani andrebbe bene dirmelo?»

Ricciardi annaspa, rifugge il suo sguardo prima di poterselo impedire e poi rinnega anche ciò che ha appena detto:

«No. No, ma ti giuro che...»

«Come mi hai giurato di non cedere alle pressioni di Falco e del Partito?» lancia un'occhiata sarcastica al proprio orologio da polso. «Toh, manco ventiquattr'ore, hai resistito. Meglio che i giuramenti te li tieni per te, come io mi tengo per me ciò che penso.»

Ricciardi tace, bloccato nella sua stretta che, adesso, è molto meno gentile di prima; Bruno la ammorbidisce di colpo e ritrae una mano, come rendendosene conto solo ora.

«Io non penso che tu sia pazzo,» scandisce infine, storcendo appena la bocca in quello che sembra un moto pentito. «Al contrario: tu sei tra persone più brillanti e lucide che conosca. Oltre che la più onesta, in un modo quasi fastidioso. Se davvero non vuoi dirmi qualcosa, un motivo valido ci deve pur essere; anche se non riesco a capirlo e anche se mi fa imbestialire.»

«C'è, te lo assicuro.»

«E io ti credo.»

«Non mi pare proprio.»

«Lascia perdere quello che ti ho detto prima.» Bruno parla in fretta, gli occhi irrequieti che si appuntano qua e là sul suo volto, il tono falsamente noncurante. «Nun te ne fa', parlavo a vanvera... volevo solo farti reagire.»

«E ci sei riuscito a meraviglia.»

A quella stoccata, lui ammutolisce per un istante, rimangiandosi qualunque cosa stesse per dire; Ricciardi quasi si pente di essere stato così aspro, ma le accuse di Bruno gli bruciano ancora, per quanto vuote.

«Io mi voglio fidare di quello che mi dici. Di te.» Nel parlare, Bruno si accosta di più a lui, gli sfiora il naso col suo, i lineamenti tesi da un'improvvisa ondata di amarezza. «Voglio farlo, anche se la cosa non è ricambiata.»

«No, non è così. Non ci pensare neanche.»

«Ci penso perché è quello che mi stai dimostrando.»

Ricciardi deglutisce a secco, con la sensazione di galleggiare nel vuoto. Di poter mettere un piede in fallo e precipitare.

«È solo che è un fatto... lungo e difficile da spiegare. E doloroso, anche.»

Agita la testa e la sente in fiamme, troppo leggera; vorrebbe solo accostarsi a lui e dimenticare come si pensa. Gli serra le mani sulle spalle, senza trattenersi, stritolando il bavero della sua giacca.

«Io ho paura, Bruno. Di perdere te e di perdere l'unica ragione di vita che ho, cioè fare il commissario e dare un senso a quello che faccio. O di perderti in altra maniera, perché prenderesti a vedermi come...» si interrompe, uno sfiato secco che è quasi un colpo di tosse e si riversa infine in un sussurro tremulo: «Se questa cosa salta fuori, io rischio davvero di finire in un manicomio. T'assicuro che è così. Che cambieresti idea su di me.»

Abbassa per un istante gli occhi, pentito d'aver aggiunto quella parte, un brivido che gli attanaglia la nuca. Bruno lo guarda fisso per un istante, e ha l'impressione che lo stia passando da parte a parte.

«Ci potresti finire lo stesso perché sei un deviato, Riccia'; e quello, ormai, è il segreto di Pulcinella per tutti. Ma non mi pare che ti preoccupi così tanto.»

Bruno riesce sempre a scoccare via le parole come frecce ben mirate, senza curarsi di smussarle o di dove vadano a colpire, ma sempre con precisione chirurgica e un sottotono mordace. Stavolta, però, Ricciardi le respinge, le scaglia via con stizza:

«Io non mi sento un deviato perché amo te.»

Ammutolisce, il cuore che sprofonda mentre prende coscienza di ciò che ha appena detto, di come l'ha detto e del fatto che Bruno abbia sgranato impercettibilmente gli occhi. Serra con più forza le dita sulle sue spalle e si affretta a continuare, a precipitarsi sul resto della frase come se non avesse mai parlato; come se non avesse appena rivelato ciò che si porta in cuore da mesi:

«Però per questa cosa sì, mi ci sento, e non credo nemmeno di aver torto nel pensarlo.»

C'è un caleidoscopio di emozioni contrastanti a viaggiare sul volto di Bruno, un gioco di luci che non riesce a seguire: un tremito delle ciglia scure, guizzi indecifrabili che gli sfiorano le labbra, a metà tra smorfia, incredulità e meraviglia, ombre che emergono e sprofondano nei suoi occhi dalle pupille mobili, grandi, a inghiottire l'iride.

«Alfredo,» dice infine, e quel nome spigoloso è una stilettata tra le costole che va a incidergli l'anima. «Te lo chiedo un'ultima volta. Poi... poi basta, per me è chiusa qui.»

Ricciardi si irrigidisce a quell'espressione, incerto su come interpretarla, ma i suoi sottintesi sono tutt'altro che positivi. Le vede di nuovo, quelle sottili linee d'ombra che lo circondano sempre, di solito invisibili. Le vede e sa che dovrà varcarne una, sa che non può continuare a camminare nel limbo in cui ha costretto Bruno finora.

Lui chiude per un istante gli occhi, per poi riaprirli nei suoi.

«Come facevi a saperlo?»

Lo chiede senza enfasi, come se già non si aspettasse alcuna risposta. Come se andasse comunque bene così.

«Domani,» dice invece Ricciardi, con il sollievo e la paura che si mescolano in correnti opposte nel liberare quella singola parola, rubando a Bruno stesso quella proposta che lui non ha avuto coraggio di accettare. «Puoi aspettare fino a domani?»

Domani. Non oggi, non adesso, non tra poche ore. Inaspettatamente, Bruno incurva le labbra in un moto stanco.

«Non mi dai molta scelta,» sospira rassegnato, per poi aprirsi del tutto in un sorriso sottile, malinconico. «Riccia', io ne faccio tante, di questioni di principio. Ma, se proprio devo essere sincero, non voglio farlo pure con te. Estorcerti qualcosa con la forza e il ricatto mi pare proprio il tipo d'atteggiamento che dovrei ripugnare. Sarei assai ipocrita a praticarlo.» Scrolla le spalle in un moto stanco, facendogli scivolare la mani sulle braccia. «Domani, tra un secolo... me lo dirai quando vorrai dirmelo, punto.»

Ricciardi cade. Ne è certo, la voragine di sollievo puro che gli si apre nello stomaco non è solo un'illusione e sta cadendo per davvero, attraverso il pavimento che s'è spaccato; o forse solo a terra, tradito dalle proprie gambe.

Non cade, però, perché è più svelto ad afferrarsi a Bruno: lo attira a sé per stringerlo con più forza di quanto dovrebbe, rubandogli una lieve esclamazione e lasciando andare un respiro spezzato che si perde contro la sua spalla, nelle braccia che subito si serrano attorno a lui.

Nel suo porto sicuro, l'unica persona al mondo che riesca a insinuarsi nel groviglio nebuloso dei suoi pensieri senza volerli per forza districare uno a uno.

Bruno fa scorrere una mano leggera sulla sua schiena, su e giù, in una corrente costante che sembra acqua attraverso i vestiti e gli accarezza i capelli di onde placide. Respira piano, lentamente, in contrasto col suo affannarsi convulso; gli preme un sorriso appena accennato a fior di pelle, lì dove il suo pallore s'inasprisce dei blu e viola che gli hanno inferto sul collo.

«Stavolta, non t'ho manco dovuto strapazzare troppo, per cavarti fuori una mezza risposta. Stai facendo progressi, commissa'.»

È nella vibrazione bassa e sobbalzante della sua risata muta, non del tutto allegra né puramente triste, nel suo tono d'un tratto addolcito, che Ricciardi lo capisce davvero. Che Bruno, da quella porta, non sarebbe mai uscito. Che, anche nel caso avesse varcato la soglia, vi sarebbe rientrato dopo poco, per raccogliere i pezzi e rimetterli insieme, non importa se alla rinfusa.

Non per una caparbia ostinazione nel voler riparare l'irreparabile, ma nella certezza cieca che non ci fosse proprio nulla da aggiustare; che bisognasse al massimo raddrizzare la cornice del quadro in cui sono racchiusi. Nella convinzione assoluta che non è un segreto malcelato o una curiosità legittima a tracciare degli argini per ciò che scorre tra loro da molto più tempo di quanto riesca a contare.

Non è quello a definirli; non è solo quello, ed è stato Bruno stesso a tracciare il confine che, nella propria testa, aveva assunto le proporzioni smisurate di una trincea. Di fatto, rimane ciò che è: una mera riga per terra, effimera e valicabile con un semplice passo, ma rispettata di comune accordo come dovrebbe esserlo ogni altro confine.

Ricciardi si scosta un poco da lui per guardarlo in viso, conscio di apparire stanco, esangue, forse febbricitante e confuso; ma Bruno è più rapido. Prima che possa pronunciare altre parole futili, gli cattura le labbra con foga e mette a tacere ogni discorso.

Ricciardi lo accoglie come si accoglie una folata d'ossigeno, lasciandosi sfuggire un respiro più udibile, soffocato nella sua bocca. Trova un nuovo appiglio cieco sulle sue spalle e poi ne trova altri mille, fragili e saldi al contempo.

È raro, che sia Bruno a prendere l'iniziativa. Non l'avrebbe mai detto, al principio, visto quanto più spigliato si dimostra nei rapporti umani. È come se, a dispetto della sua disinvoltura e della sua indole provocatoria, non fosse ancora del tutto certo di quali gesti possa permettersi, di quanto possa osare o di quanto lui è disposto a concedergli.

Ricciardi vorrebbe dirgli che non lo sa nemmeno lui, ma che potrebbe osare tutto e più di quanto riesca a immaginare e gli concederebbe pure tutto se stesso, se solo non gli si annodasse la gola ogni volta che riesce a sfiorarlo.

Per questo, quando è Bruno a sospingerlo sul divano, incuneando un ginocchio tra le sue gambe per baciarlo più a fondo, non trattiene un singulto sorpreso, inghiottito subito dalle sue labbra. Si sente trascinare in basso da una cascata improvvisa che gli rimesta le viscere di scoppiettii elettrici, assordanti quanto il respiro di Bruno nelle orecchie.

Si fermano di scatto, quasi in sincrono, entrambi affannati e coi vestiti mezzi scomposti. Con la consapevolezza bruciante che non c'è tempo: non c'è mai tempo, per loro, né luogo. È come vivere costantemente in un limbo rubato ad altri.

Bruno si stringe di nuovo a lui e sembra farsi piccolo all'improvviso, nonostante lo sovrasti, spingendolo semidisteso sul divano; Ricciardi gli preme le labbra sul collo rovente, inalando il suo calore.

Rimangono bloccati in quel groviglio di arti intersecati e mani aggrappate dove non si dovrebbe nemmeno posare lo sguardo. Una statua scomposta, congelata in quell'attimo sospeso, che a ogni sguardo risulterebbe inequivocabile: un qualcosa di ripugnante, da condannare e nascondere alla vista.

Strizza gli occhi e affonda le dita nella schiena di Bruno. E se lo ripete, se lo urla: non è certo per il modo in cui lo stringe a sé, che si sente un deviato. È forse la cosa più normale e umana che gli sia capitata, invece.

Avverte il suo peso addosso, piacevole; il calore che filtra attraverso la stoffa dei loro vestiti come se nemmeno ci fossero, passando da pelle a pelle in un alone sottile. Inspira a fondo il suo profumo, una traccia che saprebbe rievocare ovunque e che lo inebria ogni volta. Adesso, sente solo tabacco e colonia e una traccia illusoria di creolina, quel miscuglio assurdo che gli preme tra naso e palato e lo guida a cercarlo.

Bruno lo scosta, però, incorniciandogli il viso tra le mani per fissarlo da vicinissimo, tanto da potergli contare le ciglia scure e i puntini di bianco e grigio tra la barba, tanto da avvertire il suo respiro sulle labbra ancora umide. Tanto da vederla chiaramente, la patina lucida che gli vela lo sguardo. Ricciardi fa scivolare le dita sul suo collo e trova subito il battito accelerato sotto i polpastrelli, un'eco del proprio.

La luce si è affievolita, in quei pochi minuti. Il salotto è già scivolato in una penombra bluastra, mentre al di là dei vetri iniziano ad accendersi d'oro le prime finestre.

«Sto pensando a troppe cose orrende, e t'assicuro che non è per colpa tua.»

Bruno lo dice in un sussurro instabile, che gli ricorda con un sobbalzo doloroso il terrore della scorsa notte. Gli sfiora lo zigomo ancora sensibile con un pollice, lo fa scorrere fino al livido che gli abbraccia la nuca e non ha bisogno di dire altro.

Tra quei gesti così intimi, a insinuarsi sottopelle assieme al tepore dei respiri, c'è anche il soffio della paura, quella cruda e mordace che avvelena loro i pensieri. La stessa che ha letto in ogni sguardo e sorriso di Bruno da quando l'ha rivisto, in quel tremito di nervosismo e incostanza che ne intacca il volto calmo e fa stonare la sua risata, nella patina acquosa che rende sfocate le sue iridi. Quella che bisbiglia, infida, che un domani potrebbero non averlo.

«Lo so,» risponde, altrettanto piano. Segue con lo sguardo la goccia trasparente e rapida che scivola sullo zigomo di Bruno, celata subito dalla sua barba. «Anch'io.»

Non aggiunge altro, non gli dice che andrà tutto bene, perché di promesse che non può mantenere ne ha fatte fin troppe. Gli lascia un bacio sul labbro superiore, però, là dove si è impigliata quella goccia salina e si intravede ancora la cicatrice del calcio che gliel'aveva spaccato, e perde poi le dita tra i suoi ricci.

Bruno preme la fronte contro la sua, mentre la penombra si fa più densa, un raggio di sole spento alla volta. Nella la luce grigia che filtra dall'esterno, Ricciardi vede solo il contorno spigoloso del suo volto e l'impercettibile lucore ancora liquido dei suoi occhi.

Il medico schiude le labbra, come a voler dir qualcosa, poi le serra di nuovo e sfiora invece le sue in un tocco impalpabile, fugace; si acciglia e sembra combattuto, in lotta con le proprie stesse parole.

Ricciardi non ne ha di così complesse, da trasformare in voce: vorrebbe solo dirgli di restare non solo a cena, ma ancora per tutta la notte, per arrivare con certezza insieme a quel domani che sembra così remoto. È un desiderio assurdo, di cui non è certo nemmeno lui, infranto sul nascere dal rumore cadenzato di passi sulle scale.

Il loro sospiro unisono si mescola in uno sfiato sofferto. Strizzano entrambi gli occhi quasi fosse arrivato loro addosso una bastonata, come se anche tra quelle mura potessero raggiungerli; come se potessero rubare loro ogni cosa anche lì, strappandogliela direttamente dal petto con le loro mani luride.

Pochi secondi, il tempo di un ultimo bacio convulso, di bocche che annaspano, mani che afferrano i vestiti e dita che arricciano ciocche troppo scomposte; si separano quando l'ultimo passo risuona sul pianerottolo ed è come recidere di netto un arpione rovente ancorato al di sotto delle costole.

Bruno si alza in piedi, passandosi con foga il palmo sul volto e rassettandosi la giacca e il colletto al suono della sporta che viene poggiata a terra, seguita dal tintinnio delle chiavi. Ricciardi lo guarda dabbasso, inerte sul divano

 Guarda Bruno, la sua sagoma agile e coronata di ricci nella penombra, la curva decisa del suo naso e la linea piena, sempre impertinente e adesso amareggiata delle sue labbra. Vorrebbe dirgli un milione di cose, probabilmente tutte inutili e scontate; e vorrebbe dirgliele meglio di quanto abbia fatto poco fa. Come ogni altra volta, riesce solo a dirgliele con gli occhi.

Poi, con un gesto che gli fa balzare il cuore oltre il costato (di paura, d'aspettativa, di illogica emozione) Bruno si riaccosta fulmineo a lui che già la chiave sta girando nella toppa; e riaggancia un palmo caldo alla sua nuca, e gli imprime un bacio fermo che gli spezza il respiro contro le labbra e i denti; e, mentre la porta gira ormai sui cardini, parla a un millimetro da lui, affannato, quasi inudibile, in un refolo bollente che gli fa incespicare il cuore:

«Ti voglio un bene dell'anima, Riccia'. E questo non cambia, né domani, né tra un secolo.»

È una frazione di secondo, quella in cui gli è concesso di guardarlo negli occhi, di sprofondarvi più di quanto abbia mai fatto. In quelle iridi calde che ora sembrano profondissime, onde di castano e ambra mescolate a pagliuzze di luce fioca.

È una frazione di secondo troppo breve per rispondere, ché Bruno è di nuovo in piedi, un sorriso brioso stampato in faccia e la voce pimpante già rivolta altrove:

«Nelide, t'aiuto io, va'! Ché qui il commissario s'è addormentato.»

«Signore, grazie!» esclama Nelide. «Ma volesse dormire una notte intera, ché senza cà lampi, cà nun trona!»

«Eh, tieni proprio ragione,» ribatte pronto Bruno, che probabilmente non ha capito un'acca.

«Chiedo scusa se c'ho messo tanto, ma il forno era già chiuso; m'è toccato passare dalla signora Mirante qua sotto, che m'ha trattenuto a lungo assai...»

«Un'attesa insostenibile, Nelide,» ribatte lui, fintamente melodrammatico, «ma son sicuro che mo' ti farai perdonare con la cena.»

Ricciardi non può fare a meno di sorridere tra sé, nel sentire quel chiacchiericcio acceso, che porta con sé un velo di serena quotidianità. Si prende un singolo istante, prima di levarsi in piedi. E mettersi su la faccia finta. E portare avanti quella pantomima lunga una vita, o quel che ne resta.

Un istante, per lasciar sfarfallare il cuore tra le costole e per asciugarsi gli occhi, divenuti troppo lucidi anche per chi dovrebbe essersi da poco svegliato. Per ricacciarsi in gola la risposta a cui non ha fatto in tempo a dar suono, ma che Bruno ha sentito, prima, detta nel tono più sbagliato ma anche più sincero. Per chiudersi dentro le parole che lui gli ha rivolto, a dispetto di tutto; prim'ancora che il domani arrivi, con tutti i suoi fardelli e le sue incognite.

Nell'incrociare lo sguardo ora luminoso di Bruno, che ride di non sa quale sua battuta e che pare guardare non solo al domani, ma a mille altri dopo di esso, gli si incurvano le labbra. E spera che, quando quel domani arriverà, riuscirà anche a schiudergli l'anima su tutti i fantasmi che vi tiene nascosti da una vita.

Note dell'Autrice (formato maxi):

Cari Lettori,
su, non potevo veramente lasciarli "litigati" dopo tutto quello che ho fatto loro passare negli ultimi... 15 capitoli? Non si fa, no. O anche, "il limone se lo meritavano", come mi ha detto giustamente una lettrice in altri lidi. Scusate, dopo una certa ora divento una scaricatrice di porto, ma ora torno nei ranghi.

Passiamo alle cose importanti: dalla prossima parte si entra nella fase finale della storia. Che sembra un po' minaccioso, a dirlo. Io vorrei già iniziare a parare le mani avanti per mille motivi, ma mi asterrò dal farlo finché non arriverò a un determinato capitolo. Sappiate solo che, sì... ci siamo! (qualunque cosa voglia dire).

Sul capitolo corrente, invece, non ho molto da dire... per il semplice fatto che direi troppo e quindi vi lascio soli con le vostre reazioni rispetto al comportamento ballerino dei nostri due idioti. Sì, sono tutte legittime, incluso lanciarmi e lanciargli oggetti contundenti ahahah

Dulcis in fundo, un grazie megagalattico, stratosferico e infinito a Cossiopea per aver realizzato la splendida fanart che trovate in fondo al capitolo <3 E' stata una sorpresa assolutamente inaspettata che mi ha fatto fluttuare a un palmo da terra e niente, GRAZIE COSS e andate a spizzarvi i suoi scritti, ché è un'autrice meravigliosa e vi farà il cuore a pezzettini **

Ci vediamo lunedì col prossimo capitolo e grazie di cuore a tutti coloro che continuano a leggere e commentare questa storia!

-Light-

Angolo dello spam: potrei non essere esattamente puntuale con gli aggiornamenti nelle prossime settimane (quello del prossimo lunedì, però, è garantito!)... quindi, se voleste ingannare l'attesa con altre mirabolanti (?) avventure partenopee, vi invito a leggere le altre mie shot/storie:
- Un corpo e mezzo (comica, leggerina, senza pretese, mio pezzetto di cuore)
- Esser felici (dura il tempo di un ballo) (romantica, no plot, solo smancerie e 1g d'angst)
- La finestra senza sole (long, il prequel spirituale di questa storia, molto h&c, molte pare)
- Il silenzio della neve (corta, shalla, natalizia, scritta per un contest)
-IN ARRIVO: Fic senza nome numero 6 (finta erotica, pare mentali, confusione sessuale ftw)

Mi dileguo e vi lascio alla meraviglia di Coss <3


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«Mi serve un favore» dice all'improvviso e io inarco un sopracciglio «Mi hai detto che se avessi avuto bisogno di qualcosa avrei potuto chiedertelo» ...
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