La Ruota degli Angeli

By Lightning070

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Napoli, 1934. Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato... More

Premessa
I. Un po' di freddo (certo male non fa) - Parte 1
I. Un po' di freddo (certo male non fa) - Parte 2
II. La nostra buona stella (è la peggiore tra le luci) - Parte 1
II. La nostra buona stella (è la peggiore tra le luci) - Parte 2
III. La più grande libertà (è quella che ci tiene in catene) - Parte 1
III. La più grande libertà (è quella che ci tiene in catene) - Parte 2
IV. C'è tutto il mondo (tra la culla e la fossa) - Parte 1
IV. C'è tutto il mondo (tra la culla e la fossa) - Parte 2
V. La luce delle lanterne (e quella delle lampare) - Parte 1
V. La luce delle lanterne (e quella delle lampare) - Parte 2
VI. Le lacrime dell'Inferno (servono a qualcosa) - Parte 1
VI. Le lacrime dell'Inferno (servono a qualcosa) - Parte 2
VII. Paese reale (di sudditi e re) - Parte 1
VII. Paese reale (di sudditi e re) - Parte 2
VIII. Chi per strada va (per strada muore) - Parte 1
VIII. Chi per strada va (per strada muore) - Parte 2
IX. Le ultime volte (non bussano alla porta) - Parte 1
IX. Le ultime volte (non bussano alla porta) - Parte 2
X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 1
X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 2
X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 3
XI. Apriti cielo (e manda un po' di sole) - Parte 1
XI. Apriti cielo (e manda un po' di sole) - Parte 2
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 1
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 2
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 3
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 4
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 1
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 2
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 4
XIV. Io ti terrò la mano (tu tienimi l'anima) - Parte 1
XIV. Io ti terrò la mano (tu tienimi l'anima) - Parte 2
XIV. Io ti terrò la mano (tu tienimi l'anima) - Parte 3
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 1
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 2
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 3
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 4
XVI. Vittoria (ma com'è piccola, ma com'è fragile) - Parte 1
XVI. Vittoria (ma com'è piccola, ma com'è fragile) - Parte 2

XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 3

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By Lightning070


          Benché il sole marzolino scaldi il basolato con un timido accenno di primavera, Ricciardi ha l'impressione di immettere acqua ghiacciata nei polmoni, quando mette piede fuori dalle spesse mura dell'Annunziata.

Lo fa con foga inusitata, senza nemmeno trattenere il pesante portone per agevolare il passaggio a Maione e alla vedova Gigliolo subito dietro di sé. Gli tremano le mani e trattiene il vizio di agitarle, di arricciare inquieto le falangi contro il palmo, di premersi il pollice sulle nocche fino a sentirle cigolare.

Le àncora quindi nelle tasche del soprabito, dove le sue dita trovano i fili allentati delle cuciture, e li avvolge sugli stessi solchi doloranti e non del tutto rimarginati che si è inflitto ieri sui polpastrelli, rischiando di riaprirli.

Il suo sguardo irrequieto si appunta sul quadrato azzurro striato da stracci di nubi sopra di lui, in uno specchio più vivo delle volte affrescate a guisa d'un vero cielo dentro la Real Casa; poi, sulla fontana centrale, che gorgoglia in flutti instancabili a ritmo col ribollire della sua mente. Gli sfrecciano in testa in immagini caleidoscopiche, dilaniando ogni pensiero di senso compiuto.

Gli occhi limpidi ma tristi di Arturo Esposito, così simili a quelli di Annina, impressi in tonalità bigie sulla carta fotografica. La sagoma torreggiante di Don Nicola: lo zoppo, lo sciancato, al contempo temuto e amato dagli orfani e dagli scugnizzi. Il Munaciello, quella figura enigmatica che, da bislacco racconto popolare, ha ormai assunto contorni demoniaci.

E Annina. Annina Esposito che grida sottoterra.

«Va' via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Nitido, nell'occhio della sua memoria, emerge un singolo dettaglio di quella foto, un dettaglio che gli fa coagulare il sangue nelle vene e gli spinge la lingua contro il palato per la nausea: la mano tozza, nerboruta di Arturo Esposito poggiata con indolenza una spanna sopra il capo di Annina.

«Riccia', la bambina aveva il collo spezzato. Di netto. Gli è bastata una mano.»

I pensieri abbattono la diga e sgorgano uno dopo l'altro, stillano nella sua testa in una cascata inarrestabile, in un coacervo di voci assordante che, però, forma una sinfonia ben precisa:

«Va' via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

«Tu... che ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»

«Dio solo lo sa, cos'abbiano passato quelle povere creature.»

«Il fu colonnello era 'asciuto pazzo dopo che ha perso il figliolo suo.»

«Stava benissimo, teneva pure il nome sui vestiti, come ai ricchi!»

«Ci sono punizioni peggiori della morte, credetemi.»

«Me lo devi promettere, Alfredo. Me lo devi giurare.»

«Basta! Non ho fatto niente! Basta! Basta!»

«Commissario.»

Una lieve pressione sul gomito lo fa trasalire, spezzandogli il respiro tra naso e gola in modo udibile. Si volta di scatto a incrociare gli occhi affranti di Maione, scossi da un tremito visibile. Il brigadiere ritrae subito la mano, con fare di scuse, e Ricciardi si chiede da quanto lo stia chiamando, per spingerlo a ottenere la sua attenzione a quel modo così diretto.

«Dimmi,» esala, con voce affatto salda e il cuore che gli corre a mille e non accenna a placarsi, come avesse preso forma e corpo propri, in aperta ribellione col suo corpo.

«La vedova Gigliolo,» dice Maione, con un'occhiata discreta alle proprie spalle, «credo voglia parlarvi.»

Ricciardi segue il suo sguardo: la donna è rimasta in cima allo scalone che nemmeno si è accorto di aver disceso, frastornato com'era dai propri pensieri. Annuisce in risposta al brigadiere e ripercorre svelto quel breve tratto. I suoi battiti non rallentano, in una lieve tachicardia che gli comprime la testa e risveglia l'emicrania, rimasta sopita finora come una belva in letargo.

Si affianca a Caterina in silenzio, offrendole il braccio: stavolta lei lo accetta senza remore, staccandosi dalla balaustra a cui si era appoggiata e lasciandosi accompagnare lungo i larghi e bassi gradini che, nelle sue condizioni, risultano pressoché invalicabili da sola. Maione li aspetta in fondo alla rampa e poi li segue dappresso, a qualche falcata di distanza.

Con l'aria fresca all'esterno, Caterina sembra aver riacquistato un poco di vigore, e abbandona il suo sostegno quando sono ormai sotto l'arco d'ingresso dell'Annunziata. Rimane in piedi con sforzo che gli tira il viso, ma senza tentennamenti, nell'ombra che reca un sentore di umido.

«Dalla vostra reazione, mi sembra chiaro che conosciate l'uomo nella foto,» dice la donna, fissandolo con occhi vivi, ora di nuovo schermati dai ricami della veletta.

Ricciardi annuisce.

«Non di volto, finora, ma sono certo sia quell'Arturo Esposito di cui vi accennavo.» Esita per un singolo istante, per poi continuare: «E sono altrettanto certo che abbia ucciso vostro marito.»

Caterina freme sul posto, a quelle parole, una sottile vibrazione che le scuote i lineamenti, rendendoli un tremolio d'acqua inquieto tra l'ira e lo stupore.

«Conosceva Fernando, quel balordo.» Strizza la bocca, cercando le parole successive. «E sapete anche come mai l'avrebbe ucciso?»

«Per vendetta, presumo. Prestò servizio nella stessa armata di vostro marito e rimase ferito gravemente durante la guerra, senza però venir decorato come lui e i suoi commilitoni. Immagino non fosse facile dover vivere in miseria, da invalido, mentre altri vivevano nell'agiatezza, o comunque in modo dignitoso. È da solo un movente alquanto solido.»

«E Annina, dunque?» lo interroga ancora Caterina, gli occhi che sfuggono per un istante verso il basso, pensosi. «Non pensate che abbia a che fare anche lei con tutto questo?»

Ricciardi si umetta le labbra, d'un tratto incerto su come trarsi d'impaccio su quel punto senza rendersi sospetto.

«Lo penso, certo,» risponde cauto, tentando anche di tenere a bada la stizza. «Se davvero è la figlia di Esposito, mi risulterebbe più improbabile pensare che non vi sia alcun collegamento.»

«Voi pensate che l'abbia uccisa lui. La sua stessa figlia.»

Caterina lo dichiara senza alcuna inflessione, ma, oltre i ricami floreali, le sue iridi ardono di una luce pericolosa, intorbidita dal disgusto.

«Io lo penso per istinto, ma lo suggeriscono anche le prove. Circostanziali, in gran parte, ma non abbastanza da poter essere ignorate.» O prove non tangibili e recate da spettri. «Mi perdonerete se non mi espongo sui dettagli, ma sono informazioni sensibili.»

«Non che potrei mai avere il tempo di rivelarle ad alcuno, commissario.» Ricciardi abbassa lo sguardo, colto in fallo, ma coglie il sorriso macabramente ironico di Caterina. «Ciononostante, comprendo il vostro riserbo. Penso che mi abbiate coinvolta anche troppo.»

Ricciardi raddrizza la schiena, mascherando un moto inquieto.

«Ne sono ben conscio. Non è mia abitudine trascinare a questo modo...»

«Non era un'accusa,» lo interrompe subito Caterina. «Sono solo lieta che il mio intervento, anche se tardivo, possa aver gettato un po' di luce in questo scempio.»

«Senza dubbio. Vi dobbiamo molto.»

Caterina accetta il ringraziamento con un lieve inclinare del capo, le ciglia chiare che vanno a schermare gli occhi per un istante. Il suo volto trasuda un avvicendarsi di emozioni contrastanti, vecchie e nuove. Deve aver sorriso molto da giovane, a giudicare dal sottile reticolo di delta ridenti attorno agli occhi, ma i solchi curvi ai lati della bocca suggeriscono anche sofferenza, e sono ora più scavati che mai.

Vi è, però, anche una sottile patina di serenità a levigarli, come se fugare almeno in parte i dubbi circa la condotta di suo marito le avesse sollevato dalle spalle un fardello finora inamovibile.

«Temo di dovervi affidare il resto, commissario,» dice Caterina, dopo qualche istante di silenzio. «Per quanto non mi dispiacerebbe guardar negli occhi chi ha ucciso mio marito e vederlo dietro le sbarre, vi sarei solo d'impaccio.»

Ricciardi non la contraddice. Soprattutto, manca loro qualche passo intermedio da compiere, prima di poter stringere un paio di manette ai polsi di Esposito; in primis, trovarlo.

«Vi assicuro che sarete la prima a venire informata del suo arresto,» risponde Ricciardi, con fermezza. «Se mi lasciate detto dove alloggiate a Napoli...»

«In verità, mi starei dirigendo alla stazione,» lo sorprende lei, con inaspettato brio.

Ricciardi è rapido a riprendersi dalla sorpresa, anche se non riesce a celarla del tutto:

«Tornerete a Roma, dunque.»

Caterina alza in modo impercettibile le spalle: un gesto semplice, affatto composto, che ne dissesta per un attimo la postura imperturbabile.

«Amo Napoli, ma non tanto da morirvi.»

Ricciardi non risponde, ma si ritrova a gettare un'occhiata al reticolo di un azzurro intenso disegnato dai palazzi sopra di loro. Con gli anni, a dispetto dei mormorii spettrali e non di cui è popolata, si è ritrovato a considerare quella città così caotica come una sorta di seconda casa. Però, pur trovando ormai caloroso il suo abbraccio prima soffocante, potendo scegliere, non si priverebbe neanche lui di un ultimo sguardo sulle colline boscose e i cieli aperti del suo Cilento.

«Allora, permetteteci almeno di accompagnarvi fino alla stazione dei treni.»

«Avete un'indagine da portare avanti,» lo frena lei, scuotendo ferma la testa, «e non molto tempo per condurla a termine, da quanto mi è dato capire. Non vi angustiate per me: la stazione non è poi così lontana a piedi e avrò comunque il viaggio per riposare.»

Maione, che finora s'è tenuto in disparte ascoltando in silenzio, fa per opporsi, ma Ricciardi gli fa cenno con lo sguardo di desistere: gli è chiaro che Caterina voglia rimanere sola coi propri pensieri, godendosi magari una delle ultime passeggiate che le è concesso fare. Può solo immaginare l'amarezza scaturita dal timore di non poter vedere coi propri occhi l'assassino del marito consegnato a giustizia. Tenta di lenirla almeno in parte, sapendo di suonare goffo nel farlo:

«Vi farò recapitare un telegramma a Roma non appena porteremo a termine l'arresto.»

«Vi auguro buon viaggio, signora Gigliolo. Riguardatevi,» aggiunge Maione, accorato.

Lei sorride quieta a entrambi, non sa se per mera cortesia, forse trovando le loro parole eccessivamente speranzose. S'avvia senza un'ulteriore parola, per poi fermarsi dopo due soli passi.

«Commissario.» Caterina Gigliolo si volta appena verso di lui e, stavolta, il sorriso che le screzia le labbra è pieno, sincero. «Grazie per esservi dimostrato l'uomo che pensavo voi foste.»

Ricciardi non fa in tempo a replicare, se non con uno sguardo che trova per un singolo istante gli occhi ora luminosi della vedova, che lei s'è già voltata di nuovo, la sua figura in nero che si avvia a passo claudicante verso la stazione.

Caterina Gigliolo è appena scomparsa dietro l'angolo della basilica, che Maione tira un sospiro sonoro, tanto che Ricciardi lo squadra accigliandosi.

«Che fetenzìa, commissa',» sputa fuori a mezza voce, quasi senza muovere le labbra. «Vorrei quasi che non c'avesse aiutato. Povera donna.»

Ricciardi annuisce cupo, stringendo le mani dietro la schiena. Si sente la mascella indolenzita, in una sorta di continuazione dell'emicrania, e si accorge solo ora di aver serrato con troppa forza i denti, preso dalla tensione.

«Camminiamo un po', Raffae',» lo invita, con un cenno della mano, che porta poi a premersi la fronte. «Aiutami a schiarirmi le idee, ché mi sento un pandemonio in testa.»

«Io sento solo una gran voglia di mettere le mani al collo a Esposito, per fargli passare un briciolo di quello che ha fatto passare a quella creatura innocente,» ringhia Maione, assecondando il suo passo lento, meditabondo.

«Lo so. Ma dobbiamo agire con metodo, o qui rischiamo di mandare all'aria tutto e farci interdire dall'indagine una volta per tutte.»

Ricciardi si oppone alla direzione in cui lo stanno portando i piedi: il carcere di Poggioreale, dove un derelitto Beniamino Iannello rischia di passare il resto della vita dietro le sbarre.

Si sente ancora osservato dal buio degli androni e dagli angoli dei vicoli, ma, se l'OVRA avesse voluto arrestarlo, l'avrebbe già fatto. L'unico filo di ragnatela di sanità, che gli impedisce di temere il peggio per Bruno, è che il medico è la loro unica arma di ricatto concreta: per quanto detesti l'idea di saperlo agli arresti, con tutto ciò che ne conseguirebbe, dubita che lo spedirebbero al confino o che arriverebbero a misure estreme, se l'intento è indurre lui a seguire le loro direttive.

Senza Bruno, perdono anche l'unico ascendente che hanno su di lui, a meno di iniziare a falciare ogni suo contatto più o meno stretto. Se arrestare un facinoroso e potenziale sobillatore non causerebbe troppo scalpore, coinvolgere gente comune e inoffensiva come Nelide o Maione, o di spicco e chiaramente vicina al regime, come Livia, non si attirerebbe certo il favore dell'opinione pubblica.

Se anche fossero pie illusioni, non trova senso nel crucciarsi per qualcosa che, al momento, non potrebbe comunque evitare. Non è certo arrivato a un passo dalla tana della belva per poi far dietrofront al piffero del Partito. Gliel'ha giurato, a Bruno, e prima che a lui non potrebbe venir meno alla tacita promessa fatta ad Annina.

Quasi si stupisce della freddezza con cui quei ragionamenti si susseguono nella sua testa, pur tormentata da un pulsare ritmico e pressante: è forse dal momento in cui ha udito per la prima volta la voce di Annina, che non si è sentito mai davvero lucido e in grado di osservare fatti ed eventi tramite la lente cristallina della logica. È da quando Falco l'ha aggredito in quel vicolo, che non si sente libero da ogni senso di lecita paura.

Si volta verso Maione nel camminare, distogliendo il brigadiere da quelli che, senza dubbio, sono riflessioni tetre:

«Maione, lasciando da parte per un attimo Esposito e Annina... tu che ne pensi di ciò che ci ha nascosto Madre Filippa?»

Il brigadiere ci rimugina su per qualche secondo, lo sguardo che vaga qua e là in modo assente.

«Sinceramente, commissario?» chiede, con uno scatto bizzoso delle sopracciglia folte. «Che qualunque cosa sia, avrebbe causato più grane che difendere un sospetto pedofilo senza uno straccio di prova tangibile per scagionarlo.»

«Pensi ancora che Gigliolo si sia macchiato di qualcosa?»

«Io non lo escluderei, checché ne dicano la suora e la vedova. Voi sì?»

«Quella di Gigliolo era una mente sofferente, oppressa dal lutto e forse imprevedibile,» gli concede Ricciardi, misurando le parole. «Ma, se davvero avesse usato violenza su Annina, pensi che lei sarebbe poi andata a cercarlo di sua volontà?»

«Questa è solo una vostra supposizione, e non penso sia rilevante, in tutta onestà,» scuote la testa Maione. Ricciardi non insiste, temendo di insospettirlo, ma apprezza la sua franchezza.

«Su questo hai ragione,» replica soltanto. «Quello che sappiamo per certo, o quasi, è che Annina era figlia di Esposito, che Gigliolo se l'era presa in simpatia, e che Esposito ha probabilmente ucciso entrambi.»

Maione tira via un sorriso amaro.

«E qui decade la vostra teoria sul fatto che ogni crimine si può ricondurre alla fame o all'amore, commissa'. Io, qui, ci vedo solo becera follia.»

«Non decade affatto,» ribatte lui, con veemenza, suscitando un moto perplesso da parte del collega.

Sbucano a Piazza Forcella e Ricciardi, prima di spingersi oltre, verso la Questura, e sancire l'intenzione di non far mosse avventato, interrompe il loro vagare per i vicoli del rione. Si poggia a sedere sul bordo del fontanile oblungo al centro, la cui acqua si arriccia in onde minute. Caccia le mani in tasca e, quando Maione si accomoda al suo fianco, riprende il discorso:

«La gelosia non è altro che la faccia distorta dell'amore, a ben vedere. In quello che ha fatto Esposito ci vedo follia, sì, ma anche una gelosia così profonda da ritenere la propria figlia alla stregua di un qualcosa da distruggere, piuttosto che doverla considerarla di qualcun altro. In qualunque modo lo vogliamo intendere, sia esso semplice amore filiale o qualcos'altro di depravato a cui non voglio nemmeno pensare.»

Maione emette uno sbuffo sottovoce.

«Beh, se proprio volete rigirarvela così... certo, torna tutto.»

Ricciardi gli rivolge un sorriso sottile, fugace.

«Non voglio mica aver ragione per forza, Maio'. Però, da qualunque parte io guardi questo caso, riesco solo a vederci una rabbia tale da poter essere scaturita solo dall'amore più malato o dalla fame più nera.» Tace per un istante, meditabondo, con un altro tassello del mosaico che va a incastrarsi. «Se Esposito ha lasciato sua figlia all'Annunziata e si è fatto monaco, dieci anni fa, è solo perché, suppongo, non poteva più permettersi di mantenerla, vista la sua pensione misera. Lui stesso, stando ai registri, fu allevato nella Real Casa. Può darsi che l'abbia considerato un luogo sicuro per Annina, e che le suore gli abbiano concesso di seguirne la crescita, pur a distanza e all'insaputa della figlia, in virtù del suo legame con loro. Non ci vedo un intento maligno da parte di Esposito, in questo, solo disperazione.»

«In cambio, però, il novello Don Nicola s'è trovato a svolgere i compiti più ingrati per l'Annunziata,» commenta Maione, incrociando le braccia al petto. «Si spiega perché la priora era così restia a fornire informazioni su di lui e su Annina.»

«Non sbagli,» concorda Ricciardi, «e pure il fatto che un loro ex-protetto, per giunta loro accolito, sia diventato un efferato assassino e infanticida non è certo motivo di lustro,» aggiunge, cupo, mordendosi l'interno della guancia. «E nemmeno un traffico di bambini per evitare il sovraffollamento dell'istituto, o il cedere una di loro al padre legittimo ma ancora indigente, suo futuro omicida, per chissà quali pressioni... quale sia stato il fattore scatenante, posso solo supporlo, ma m'immagino c'entri in qualche modo Gigliolo, se ha ammazzato lui per primo.»

Maione scuote con forza la testa, riassestandosi poi il berretto sul capo.

«Commissa', ma ce lo vedete, un alto prelato che approva mica un frate solo, ma un ordine intero ca' 'mmiezz'e 'mbroglie s'arrecréa?» storce la bocca verso il basso, allargando gli occhi con fare eloquente, di chi vuol dare a intendere che ci sia un limite pure all'assurdità.

Ricciardi non può dargli torto: per quanto la Chiesa tenda a essere indulgente coi propri membri, vi è un limite di tolleranza oltre il quale, da semplice tafferuglio diocesano, la cosa arriverebbe direttamente alle orecchie della Santa Sede, con tutte le conseguenze del caso.

«Madre Filippa ha tutti i buoni motivi per tenere la cosa sotto silenzio,» conclude, rialzando il capo che ha tenuto finora reclinato in basso.

Freme sul posto, preso dalla frustrazione: per la faccenda dei bambini impiegati in attività più o meno lecite, dubita di poter agire senza avere almeno una confessione diretta, oltre all'imbeccata abbastanza confusionaria di Cristiano. La verità è che non ha tempo per indagare a fondo. Detesta scendere a compromessi, ma, per ora, deve concentrarsi su Annina e sperare che, aiutando lei, potrà aiutare anche tutti i bambini rimasti invischiati in quel torbidume.

Si alza, d'un tratto rinvigorito, e si avvia a passo sostenuto da dove sono venuti, rinunciando a resistere all'impulso che lo guida in quella direzione. Stanno superando la struttura massiccia di Porta Capuana, quando Maione parla di nuovo:

«A parte il voler evitare di avere troppi piccirilli da gestire, voi pensate che l'Annunziata lo sapesse, che quelli mandati via con Don Nicola venissero sfruttati per dei furti?»

«Non lo so,» ammette lui, soffiando dal naso, «ma non mi stupirebbe se avessero chiuso un occhio, pur essendone a conoscenza. Di certo, non avremo mai conferma da loro, a meno di non estorcerla a Esposito.»

«A sapere dove trovarlo, commissa',» bofonchia Maione.

In sincrono, guardano entrambi a terra, verso un tombino di scolo a bordo strada. Quando i loro occhi si incrociano di nuovo a mezza via, Ricciardi sa che hanno avuto lo stesso pensiero.

«Non è una ricerca che possiamo portare avanti da soli, come singola unità d'investigazione,» afferma Ricciardi, suo malgrado. «Va coinvolta l'intera Squadra Mobile, come minimo, se c'è da passare al setaccio la città sotterranea, dove penso che trovi rifugio.»

Maione si rabbuia.

«Garzo non vi darà mai l'autorizzazione, non con un sospetto certo già in fermo e sottochiave. E da quanto m'avete detto, qua non è Garzo a dettar legge.»

«No, ma la cosa può tornare a nostro vantaggio... per questo, intanto, stiamo tornando a Poggioreale,» sospira a denti stretti Ricciardi, accennando col mento davanti a sé, alla strada che stanno percorrendo. «Non posso far rilasciare Iannello senza ripercussioni gravi, né credo di averne ancora l'autorità, né voglio farlo e dare loro un buon motivo per sospendermi. Ma posso offrire una nuova pista e un sospetto più plausibile di lui per temporeggiare ed evitare che venga imprigionato subito e trasferito fuori Napoli, rendendo più complesso scagionarlo.»

A quel punto, Maione esita, il suo volto illeggibile dietro una maschera d'improvviso stoicismo. Adocchia il cerotto sul suo volto in un gesto affatto discreto.

«E pensate che vi permetteranno di negoziare?»

Ricciardi sfugge il suo sguardo, resistendo l'impulso di toccarsi lo zigomo. I dubbi di Maione sono più che leciti, ma non vuole rivelare di aver tentato di scendere a patti con l'OVRA. In parte per orgoglio, in parte perché, a parte il fatto di essere ancora in libertà, non ha prove del fatto che l'intercessione di Livia abbia dato i suoi frutti.

«Devo almeno provarci,» mormora allora, lo sguardo puntato in lontananza, a seguire i fili sospesi dei tram che tagliano il cielo tra i palazzi.

Non lo dice ad alta voce, ma pensa che, nel suo tentativo di scagionare Iannello, potrebbe finire per farsi infine arrestare lui stesso. Sta valicando un limite, uno dei tanti che ha continuato a ignorare dall'inizio di quel caso: interferire con le decisioni prese dai suoi superiori, in questo caso indirizzati dall'OVRA, è esattamente il genere di mossa che potrebbe far scattare Falco, ponendo fine a quell'esigua tregua che gli ha concesso finora.

Perciò, quando varca la soglia severa di Poggioreale, è con tensione palpabile che chiede alla guardia penitenziaria di turno di poter conferire con il direttore in merito alla detenzione di Beniamino Iannello. Ed è con uno sbigottimento tale da lasciarlo a boccheggiare, che si sente rispondere:

«Veramente, Iannello è stato rilasciato manco un'ora fa.»

Ricciardi scambia un'occhiata con Maione, il cui volto stralunato è specchio più ampio del proprio. È il brigadiere, il primo a ritrovare la parola:

«E da chi, se è dato sapere?»

La guardia, che non s'è degnata di sedersi composta, né d'abbassar troppo il quotidiano che gli nasconde mezza faccia, corruga le sopracciglia, distogliendosi dai trafiletti sportivi. Li squadra da capo a piedi con sospetto; Ricciardi si sente scrutato in modo particolarmente pungente, quasi cercasse qualcosa di preciso.

Parrebbe sul punto di chiedere qualcosa, poi scrolla le spalle, come decidendo che non è affar suo, o di aver preso un abbaglio, e risponde in tono annoiato:

«Per ordine del commissario Ricciardi.»

Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
rieccoci qui con un po' di roba sul fuoco.

Si delineano, forse, i moventi del Munaciello/Don Nicola/Esposito, diciamo addio a Caterina e entriamo in una fase abbastanza spinosa dell'indagine.
Stupiti dal finale? Bene! Non temete, tutto acquisirà un senso, incluse le macchinazioni abbastanza machiavelliche di Falco&co.

Nel prossimo capitolo, cammineremo ancora un po' sul filo del rasoio, poi vi prometto che ci sarà una (brevissima) parentesi di quiete <3

Siamo quasi al finale e, se tutto va come deve andare, potrei tornare a una pubblicazione bisettimanale una volta scavallata la parte più ostica della storia, ovvero questa.

Grazie a tutti voi che continuate a leggere e seguire, e ci vediamo lunedì prossimo <3

-Light-

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