The Not Heard

By azurahelianthus

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⛓️ DARK ROMANCE AUTOCONCLUSIVO ⛓️ Ci sono vendette che non hanno tempo e sbagli per cui non esiste redenzione... More

𝐓𝐇𝐄 𝐍𝐎𝐓 𝐇𝐄𝐀𝐑𝐃
𝐏𝐑𝐎𝐋𝐎𝐆𝐎
I
II
III
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XII
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XV
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XXVIII
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XXXI
XXXII
XXXIII
XXXV
𝐋𝐀 𝐋𝐄𝐓𝐓𝐄𝐑𝐀

𝐄𝐏𝐈𝐋𝐎𝐆𝐎

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By azurahelianthus

11 ANNI E QUALCHE MESE DOPO

«Nerea, dove cazzo sei finita?», la voce infastidita di Lysander rischiò di farmi esplodere un timpano. Mi sistemai meglio l'auricolare, ben incastrato sull'orecchio per evitare che si sfilasse mentre camminavo, e alzai gli occhi al cielo.

Mi fermai al primo bar che individuai all'interno dell'aeroporto e scelsi il tavolo più esterno possibile, prendendo posto in una delle due sedie e poggiando i miei effetti personali nell'altra. «Gesù, ti ho detto che sto camminando verso il jet privato».

«Buongiorno, cosa posso portarle?», la cameriera mi si avvicinò con fare gentile e mi sorrise.

Misi una mano a coppa sull'auricolare per disturbare la frequenza ed impedire a Lysander di sentire. «Un cappuccino nella tazza più grande che hai, un cucchiaio e un bicchiere d'acqua, grazie mille».

Il suo sguardo si fece incerto, ma annotò l'ordinazione e sparì verso il bancone. Per fortuna il barista di turno era sempre lo stesso, un uomo con cui avevo fatto amicizia e che in questi anni aveva accolto la mia particolare ordinazione abituale senza farsi troppi problemi.

Un giorno di qualche anno prima avevo finalmente deciso di dirgli, a grandi linee, il motivo per cui mi ostinavo a fare colazione con latte e cereali da più di dieci anni. E da quel momento, ogni volta in cui mi vedeva arrivare da lontano, un sorriso splendente gli illuminava il volto segnato dall'età.

«Furbo da parte tua mettere la mano sull'auricolare, Casper, ma ho sentito comunque». Il suo tono divertito mi fece sorridere. «Stai sul serio perdendo tempo a fare colazione quando avresti dovuto essere a Bali già da due ore?!».

Tirai fuori la miniatura di un pacco di cereali, i reese's puffs, e ne versai una copiosa quantità nel cappuccino quando il barista, il mio dolce vecchio amico, me lo servì con un sorriso.

«Buongiorno Nerea. Qual è la destinazione di oggi?», si asciugò le mani rugose su un panno che aveva legato sui fianchi.

Gli sorrisi a mia volta. «Bali! Buongiorno anche a te, Conrad».

«Il dovere mi chiama», lo sentii sbuffare quando qualcuno lo chiamò a gran voce dal bancone. «Buon lavoro, dolcezza!».

«Buon lavoro anche a te!».

Spazzolai in fretta la mia solita colazione, gustandomela come se non la mangiassi ogni singolo giorno da anni, e poi mi limitai a finire il latte in un unico sorso. Tirai fuori lo specchietto dalla borsa e ripassai un sottile strato di rossetto nude sulle labbra, sistemandomi anche i capelli di riflesso. Avevo deciso di abbandonare quel biondo freddo che non mi apparteneva ed ero tornata del mio colore naturale, un biondo fragola ben accentuato, da un bel po' di anni.

Li avevo anche tagliati, e continuavo a tagliarli per mantenerne la lunghezza non oltre le spalle, perché si diceva che i capelli lunghi trattenessero i ricordi e io, dopo quella missione, avevo deciso di non voler trattenere più niente. Sapevo di dover imparare l'arte del lasciare andare, del mollare la presa e lasciare che l'acqua scorresse lì dove desiderava finire.

«Ti sei persa nei tuoi pensieri, Casper?», la voce divertita di Lys mi trascinò fuori dal posto buio che era diventato la mia mente.

Ripresi le mie cose, la valigia e la borsa, e camminai stringendo fra le dita i documenti necessari a partire. La banconota da cento dollari che lasciavo solitamente come mancia giaceva ancora lì, sul tavolo, quando con la coda dell'occhio notai il sorriso luminoso che esplose sul viso della cameriera. Mi salutò con la mano e io ricambiai, felice di poter migliorare la giornata di altre persone con gesti che per me erano veramente insignificanti da più di dieci anni.

Mi ero resa conto che non serviva a nulla abitare in una villa enorme, con tutti i comfort possibili, se non avevi nessuno con cui abitarla. E che un jet privato volava nello stesso modo di un aereo di linea, così come i piatti più costosi saziavano nello stesso modo dei piatti più poveri. Il lavoro non era tutto come avevo sempre creduto. Avrei dato qualsiasi cosa per tornare ad essere una semplice agente di grado minore se questo mi avesse riportata da lui.

«Sì, scusami», storsi il naso, «Ero soprappensiero».

La sua voce si addolcì istantaneamente. «È okay, è assolutamente okay. Te l'ho detto mille volte».

«Sto andando al jet, ci vediamo alla pista d'atterraggio a Bali». Tagliai corto, non avevo voglia di riaprire l'argomento che tentava di affrontare da anni e da cui io scappavo a gambe levate. Faceva male parlarne, faceva troppo male.

Il suo tono tornò ironico come se niente fosse accaduto e mi salutò in indonesiano, ridendo come uno scemo. «Selamat datang, Casper!».

Mi sfilai l'auricolare dall'orecchio, gettandolo con impeto in qualche angolo remoto della borsa che tenevo sulla spalla. Passando accanto alle persone mi venne spontaneo chiedermi quale fosse la ferita ancora aperta che nascondevano, metaforicamente parlando, sotto ai loro vestiti primaverili. Perché alla fine la vita era questo, un continuo andare alla ricerca di qualcosa che lenisse il dolore che provavamo, che zittisse le voci che ci riempivano la testa. Per alcuni era l'amore, per altri il lavoro, la famiglia, i viaggi.

Ognuno di noi cercava la propria soluzione e alcuni di noi non la trovavano mai.

Mostrai il mio distintivo da agente speciale alle guardie che tenevano al sicuro il passaggio alla pista d'atterraggio e loro si spostarono di lato, permettendomi di passare con un cenno della testa. Individuai all'istante il jet che mi attendeva, probabilmente perché spiccava sul resto e non era usuale vederne uno in aeroporti così comuni. Alzai gli occhi al cielo nel sentire la suoneria del mio telefono provenire dal fondo della mia borsa, ma aggrottai la fronte quando lessi il nome del mio capo sullo schermo al posto di quello di Lysander. Risposi all'istante e la sua voce severa non si fece attendere.

«Devo darti una brutta e una bella notizia».

Mi immobilizzai così come succedeva tutte le rare volte in cui, in questi dieci anni, qualcuno mi diceva di dovermi dare una brutta notizia. Ero terrorizzata all'idea di sentirmi dire che era accaduto qualcosa a lui. «Dammi prima quella brutta».

«Dovrai condividere il tuo jet oggi, entrambi partirete diretti a Bali».

Inarcai un sopracciglio. «Non odio il genere umano fino a questo punto, capo. Non la considero una brutta notizia».

«No, Nerea. La brutta notizia è che lo condividerai con il tuo nuovo partner».

«Che cosa?!». Il mio tono si alzò spontaneamente di qualche decibel, me ne accorsi soltanto dal suo silenzio carico di rimprovero. «Anni fa mi hai promesso che non avrei più avuto un partner e avrei lavorato in solitaria. È stata la mia unica condizione prima di andare alle isole Heard, me l'avevi promesso!». Il panico nella mia voce si fece intenso.

Non avevo mai fare questo molto il genere maschile dalla morte di mio fratello, perché ogni volta che ridevo con uno di loro ricordavo come fosse ridere con lui. Era un paragone che arrivava in modo automatico. E prima di partire per quella missione avevo accettato di partecipare con la condizione che, una volta ottenuta la promozione, mi sarebbe stato concesso di lavorare da sola. Senza nessun partner, senza nessuno a cui affezionarmi con il rischio di perderlo.

Dopo la promozione i motivi per evitare il contatto con qualsiasi altro uomo erano raddoppiati: ridere con loro voleva dire pensare a mio fratello, farmi sfiorare da loro voleva dire ricordare com'era essere toccata dalle sue dita.

Gli unici con cui continuavo ad avere un contatto erano Lysander, che non avrei mai potuto allontanare, Vince, con cui organizzavamo delle cene durante l'anno per aggiornarci sull'andamento della nostra vita, e Basil, che condivideva con me gli sviluppi della vita di Isaiah e Rem da molti anni. Di lui, però, non avevo mai voluto sapere niente.

«Nerea, mi stai ascoltando?», il capo mi riportò al presente.

Sospirai, portandomi le dita alla tempia. «Scusami. Che stavi dicendo?».

«So quello che ti ho promesso, ma è stato molto tempo fa. Le cose sono cambiate e-». Quando lo sentii sospirare immaginai che stesse per dire qualcosa che avrebbe fatto male, perciò mi preparai al colpo e chiusi gli occhi.

«Insomma le cose non restano mai le stesse Nerea, la vita cambia e cambia innumerevoli volte nel corso degli anni che ci vengono concessi. E noi dovremmo cambiare con lei, non adattarci e basta, perché siamo essere umani e non dei camaleonti».

Annuii a quello che diceva anche se non poteva vedermi. Resistetti all'impulso di strofinarmi la faccia solo perché ero truccata. «Okay, va bene. Passa avanti, qual è la notizia bella?».

«La condanna di Isaiah Sokolov è stata modificata: grazie alla sua buona condotta, alla tua interferenza e alla decisione di collaborare con la giustizia verrà rilasciato fra cinque anni. Hai fatto un buon lavoro, devo rinnovare i miei complimenti».

Mi morsi le labbra per trattenere l'emozione, ma lasciai spazio ad un sorriso luminoso. «È andato tutto come doveva andare».

«Sei stata formidabile».

Alzai gli occhi, poggiandomi due dita sulle labbra per poi rivolgerle all'azzurro del cielo che mi osservava. Gli mandai un bacio, anche se sapevo che non mi sarebbe tornato indietro. «Grazie. Adesso devo andare, il pilota mi aspetta. Buona giornata».

«Buon lavoro, agente speciale Anderson».

Agente speciale Anderson. E chi l'avrebbe mai detto?

Mi avvicinai al jet, lasciando al bodyguard che mi era stato assegnato le mie valigie per caricarle con meno sforzi di quelli che avrei fatto io se ci avessi provato. Gli diedi il buongiorno e iniziai a salire le scalette per andare a sedermi sulla morbida poltrona, ma all'ultimo scalino mi fermai e lo richiamai.

«Il mio partner è già arrivato?».

Lui mi fissò da sotto gli occhiali da sole. «Non ho ancora visto nessuno, signorina Anderson».

«Il primo giorno e dobbiamo anche aspettarlo. Assurdo!», borbottai infastidita. Ignorai la sua risatina divertita e mi tolsi la giacca, anche se era primavera il caldo cominciava ad essere insistente qui in Sicilia, dove ero venuta per controllare i lavori di ristrutturazione della villa di mio nonno.

Poggiai la borsa sul tavolino, pronta a sedermi e ad attendere quel maleducato, ma mi gelai sul posto prima ancora di fare qualsiasi altra cosa. C'erano due pedine nere appartenenti ad una scacchiera poggiati sul centro del sedile, lì dove ero solita sedermi. Il re e il cavallo.

Mi ritrovai catapultata ad anni prima, ad una delle mie primissime missioni andate a buon fine, dove avevo incontrato l'amore della mia vita e poi ero stata costretta a lasciarlo andare.

Era uno scherzo? Perché se lo era, era davvero di cattivo gusto.

«Chi c'è?». Mi osservai attorno, ma il jet era praticamente vuoto a parte me. E quando chiamai il nome della mia guardia del corpo mi ritrovai ad ascoltare il silenzio più totale, anche se, per prassi, doveva rimanere appostato a fianco al portello fino alla partenza.

Feci un salto nella cabina di pilotaggio per chiedere al pilota se avesse visto qualcuno entrare prima di me, ma nella cabina di pilotaggio non trovai neanche lui. Ero completamente da sola. E non sapevo se fosse una cosa di cui dovevo preoccuparmi o meno. Non ebbi tempo di ragionare molto sulla questione, perché uno spostamento d'aria alle mie spalle mi fece rizzare i capelli sulla nuca.

Con la mano sinistra tirai fuori la pistola e, eseguendo un mezzo giro su me stessa, la puntai dritta sul volto di fronte a me. E quando vidi il luccichio divertito dentro quel paio di occhi marroni che conoscevo molto bene, scuro e profondo, la mano mi tremò come mai prima d'ora.

«Ti ricordavo proprio così», sorrise. E il mio mondo, la bolla di vetro dentro cui mi ero rinchiusa per non impazzire, si scheggiò. E poi si ruppe in mille pezzi.

Mormorai a voce così bassa che a malapena mi sentii io. «Airton».

«Ciao Nerea». Era la prima volta che mi chiamava così. Perlomeno con quella nota dolce che non aveva mai usato, perché le ultime volte aveva sempre rimarcato sopra al mio vero nome con cattiveria.

Abbassai lentamente la pistola, incastrandola nuovamente fra il jeans e la mia schiena. Ruotai su sé stesso il pezzo della scacchiera che avevo trovato sul sedile e fissai lui, perché di fissare l'uomo di fronte a me non ne avevo il coraggio. Era cambiato molto, sembrava quasi un'altra persona. Il fisico esile e denutrito aveva lasciato il posto a dei muscoli definiti e ad una massa non indifferente, mentre i suoi capelli scuri, tirati all'indietro, avevano preso un aspetto più pieno e lucido. La sua pelle non era più pallida e il suo sguardo non era più spento, quasi rassegnato, ma vivace e vivo. Incredibilmente vivo.

«Perché proprio il re?».

Il sorriso divertito si allargò. «É l'unica incognita del mio caso che ho lasciato irrisolta, ricordi?».

«Ricordo tutto». Ed era vero, purtroppo.

«Negli scacchi non importa se perdi la tua regina. La partita non si ferma finché il re non cade», recitò a memoria come se avesse scolpito quella frase d'effetto nella sua testa per non dimenticarla.

All'inizio aggrottai la fronte e continuai a fissare l'oggetto fra le mie dita. Capii improvvisamente a cosa si riferisse, come se lo sapessi da anni ma non mi ci fossi mai soffermata. La regina raffigurava sua madre e il re suo padre. Ci aveva detto tutto dal primo istante: suo padre non si sarebbe fermato di fronte a nulla, neanche alla morte della madre per mano sua e di certo non a quella del figlio, se non alla sua stessa caduta. Era sempre stato lui il re. E senza spodestare il re non ci sarebbe mai stata nessuna vincita.

«Era un indizio che speravo che qualcuno, magari qualcuno come te, cogliesse. Non era vero quello ho continuato a ripetere per mesi e che ti ha fatto infuriare così tante volte: in cuor mio volevo essere salvato. Ma desideravo che la mia salvezza arrivasse da qualcuno che avrebbe notato i miei silenzi e i miei indizi perché gli importava di me, non per la paga che avrebbe ricevuto per tirarmi fuori».

«Come ho fatto a non pensarci», sussurrai più a me stessa che a lui.

Lo vidi inclinare la testa verso sinistra, facendo scivolare lo sguardo curioso sul mio viso. Chissà se anche lui notava il modo in cui ero cambiata, chissà se anche a lui recava dolore la consapevolezza di non avermi potuto vedere diventare donna come a me faceva male sapere di non aver visto lui diventare uomo.

Allungò improvvisamente la mano e si attorcigliò una ciocca dei miei capelli sul dito, anche se non coprivano assolutamente tutta la sua lunghezza. «Ti ho odiato tanto. Tantissimo».

«Mi dispiace», mi vennero gli occhi lucidi.

«Non preoccuparti. Il tempo che ci ha separato mi ha permesso di analizzare tutto quello che è successo sotto tanti aspetti». Continuava a fissarmi i capelli, come se dovesse abituarsi a quel colore.

Lui non smetteva di fissare i miei capelli, io non smettevo di fissare lui. Era come un miraggio per me. Era sempre bellissimo, anche dieci anni fa, ma adesso era assolutamente illegale. «E...hai capito?».

«Ho capito».

Deglutii un boccone amaro e lui sembrò notare la mia difficoltà, la mia paura, perché gli si addolcirono gli occhi. «Che hai capito?».

«Che quello che hai fatto lo hai fatto per permettermi di avere la vita che, altrimenti, non avrei mai potuto avere. L'ho capito quando ho messo piede dentro la prigione nuova e ho iniziato a lavorare su me stesso. Ti ho lasciato andare perché meritavi un uomo migliore e lo sapevo, ma ho comunque lavorato duramente per essere quell'uomo una volta uscito di lì. Mi ha smosso la speranza che, magari, non riuscivi a dimenticarmi come io non riuscivo a dimenticare te».

Presi un respiro profondo. «E come fai a sapere che non mi sono rifatta una vita? Che non amo un altro uomo, che non ho una figlia, che non ho la mia vita, una in cui tu non c'entri più nulla?».

«Non lo so infatti». Sfilò la mano dai miei capelli e quel contatto mi mancò più dell'aria. «Per venire qui da te mi serviva solamente sapere che ti amo. È per non andarmene seduta stante che mi serve sapere se mi hai dimenticato».

Scossi lentamente la testa, osservandolo da capo a piedi. «Se avessi potuto avrei scelto di dimenticarti e di andare avanti. Ma se l'amore non è una scelta, allora non lo è neanche essere in grado di dimenticare coloro che amiamo».

«Hai tenuto quello spazietto nel tuo cuore per me, così come ti avevo chiesto?», mormorò incredulo.

Un sorriso rassegnato mi curvò le labbra. «Ho tenuto il cuore intero vuoto in attesa di te, Airton Parisi. Per più di dieci anni».

Mi agguantò improvvisamente dalle guance. Mi avvicinò a sé così tanto che dimenticai dove iniziassi io e finisse lui, sembravamo una cosa sola, e scontrò le sue labbra contro le mie. Mentre mi baciava come se fosse rimasto a corto di ossigeno e potesse prenderlo da me, solamente da me, infilò le punte delle dita fra i miei capelli.

«Ti amo», sussurrò disperato. Approfittò del momento per riempirmi di baci tutto il viso, dagli zigomi alla mascella, dalla fronte al naso, in ogni spazio libero dove potesse arrivare. «Dio, non sai che inferno sono stai questi undici anni senza di te. Ho contato ogni secondo e ogni minuto che mi separavano da te».

Visto che non era abbastanza, e che la sua assenza era stata così prolungata che mi mancava anche se era di fronte a me, lo presi per le spalle e lo baciai di nuovo con intensità. «Invece lo so, perché per me è stato lo stesso». Le mie mani presero vita propria, sfuggendo al mio controllo, e scivolarono sulla sua schiena fino alla rotondità del suo sedere. A quel punto aggrottai la fronte e tirai fuori un oggetto dalla forma familiare.

Era un distintivo. E non era il mio. «Ma che-».

«Devi sempre bruciare le tappe, eh nica?». Scoppiò in una risata spontanea, osservandomi con vivacità mentre giravo e rigiravo il distintivo con un'espressione confusa.

Airton Parisi, agente speciale FBI. Quel distintivo, rilasciato dal FBI, apparteneva proprio a lui.

«È uno scherzo?». Alzai lo sguardo sconvolto su di lui.

Mi accarezzò la guancia con il dorso della mano, continuando a sorridere con un divertimento che non condividevo. «Affatto, ci ho messo mesi a scrivere un discorso lineare e sensato e giorni per impararlo a memoria, ma alla fine vedo che non è servito a nulla. Mi sa che dovrò improvvisare».

«Smettila di tergiversare, Airton!».

«Mi è stata data la possibilità di studiare durante questi dieci anni e io l'ho accolta. Ho studiato, ho fatto palestra, ho letto una miriade di libri, mi sono preso cura di me e tutto questo ha dato i suoi frutti: mi sono laureato in legge. Ho parlato con il vice direttore del FBI, gli ho spiegato i motivi per cui gli potrei essere molto utile e sono riuscito ad ottenere l'amnistia totale dei miei reati per entrare a fare parte del corpo speciale».

Corrucciai la fronte. Avevo detto a Basil di non dirmi nulla, ma così era un po' troppo. «Tutto questo quando?».

«La laurea mentre ero dentro, l'accordo con l'FBI nel corso degli ultimi cinque mesi. Sono stato rilasciato a novembre scorso».

«E perché mi hai cercato soltanto adesso?».

Si addolcì. «Dovevo sistemare la mia vita prima di permettermi di entrare nuovamente nella tua».

«E quali sono questi motivi, Airton? Cosa vuoi fare?». Incrociai le braccia al petto e lo fissai severamente, preoccupata che potesse rimettersi nei guai.

«Ho avuto accesso a molti documenti privati di mio padre, ci sono numeri di telefono, indirizzi e nomi di persone corrotte che lo hanno aiutato a rovinarmi la vita. E chissà quante altre persone ne stanno ancora pagando il prezzo. Ho concesso di aiutarli se fossi stato assunto».

Lo aveva appena detto come se fosse la cosa più normale del mondo. Battei le palpebre come una scema. «Tu sei il mio partner».

«Ti dispiace?». Il sorriso divertito prese una strana nota gelosa quando si avvicinò a me di un passo e si chinò. «Volevi forse qualche altro uomo al tuo fianco, nica? Io non vado bene?».

Prendendomi la mia fetta di soddisfazione, lo guardai dal basso all'alto con uno sguardo scettico e alzai le spalle. «Puoi andare».

«Buon per te, ma in ogni caso te lo saresti fatta andare bene». Mi prese per le guance e mi stampò un bacio violento sulle labbra prima di distanziarsi di nuovo.

Come nei cartoni animati più divertenti, mi si accese una lampadina sopra la testa quando ragionai un po' sulla cosa. «Credo di aver capito cosa vuole fare il mio capo». Lo vidi inarcare il sopracciglio destro con fare confuso, perciò mi affrettai a spiegare.

«Io, tu e Isaiah siamo legati da un sottile filo conduttore che ci lega l'uno all'altro a causa del nostro passato e degli affari loschi dei nostri genitori. Non è un caso che ti sia stata concessa l'amnistia totale dei tuoi crimini e neanche che ad Isaiah sia stato proposto di diventare un collaboratore di giustizia in cambio di uno sconto di pena. La sua idea è avvicinarci tutti e tre per usarci contro la parte della criminalità organizzata che ha fatto parte della nostra vita da quando ne abbiamo memoria».

Annuì lentamente, ragionando sulle mie parole e convincendosi sempre di più. «Ma certo. Nessuno meglio di noi potrebbe dare un risvolto positivo alla fitta rete di criminali che ci lega l'uno all'altro. I nostri padri erano alcuni dei pilastri di quelle organizzazioni».

«E se togli i pilastri...». Mi fermai per alzare lo sguardo su di lui, che mi fissò di rimando con sguardo complice.

«L'edificio cade a pezzi», continuò lui con un sorriso provocatorio.

Lo sorpassai per tornare nel corridoio del jet, avvicinandomi alle bottiglie di alcolici super costosi per prenderne una in particolare, la mia preferita. Riempii due bicchieri di cristallo con il liquido ambrato e gliene passai uno dei due, alzando in alto il mio per festeggiare.

«Alla nuota vita che ti aspetta!». Gli sorrisi.

Fece scontrare il suo bicchiere con il mio, le sue labbra erano curvate di divertimento e gli occhi scintillanti di eccitazione. «Alla nuova vita che mi aspetta... con te».

«Mi sono persa il momento in cui ho accettato qualsiasi tua proposta su un futuro insieme».

Sorseggiai il liquido ambrato per un momento e poi lo finii in un unico lungo sorso. Riposizionai il bicchiere al suo posto, sul tavolino, e mi misi a braccia conserte.

Lui poggiò il suo accanto al mio prima di travolgermi come un'onda, schiacciandomi sul muro opposto a noi. Mi avvolse le braccia, adesso spaventosamente forti e muscolose, attorno alla vita e il suo fiato caldo si infranse sul mio viso, facendomi socchiudere leggermente gli occhi.

«Non ho bisogno di fartene una da farti accettare, tu mi appartieni e io appartengo a te da quando abbiamo iniziato a creare i primi ricordi della nostra infanzia. Il destino ci ha rimesso sulla stessa strada due volte, e io avrei fatto la qualunque per ritornare sulla stessa strada una terza». Infilò le dita fra i miei capelli, accarezzandone le punte perfettamente tagliate, e inclinò la testa di lato. «Ti amo».

Chiusi gli occhi, il cuore rischiava di esplodermi per le emozioni che avevo represso per così tanto tempo, quasi come se anche lui sapesse che Airton, un giorno, sarebbe tornato da me. Appoggiai la fronte alla sua e sorrisi. «Ti amo».

Mi strinse fra le braccia, permettendomi di rilassarmi nell'incavo del suo collo e di sentirmi in un abbraccio fatto di talco, miele e odori che non sapevo nemmeno spiegare, ma che mi calmavano come poche cose al mondo. L'odore di casa, l'unica cosa che mi era rimasta e che la vita non mi avrebbe più strappato via.

Visto che volevo dirgli qualcosa mi trovai costretta a riaprire gli occhi, ma le parole mi rimasero sulla punta della lingua quando lo sguardo mi cadde sulle parole fatte d'inchiostro nero che erano state tatuate leggermente sotto l'orecchio. Tre parole, tre nomi messi uno sotto l'altro e scritti con una deliziosa calligrafia elegante e sottile.

Nerea.
Nicole.
Nica.

«Cos'è?», mormorai sorpresa prima di sfiorarlo con le dita.

Lui si lasciò accarezzare con un sorriso timido sul viso. «Un piccolo promemoria che mi sono fatto fare appena uscito dalla prigione».

«Che promemoria?».

Il suo sguardo si addolcì. «Che alla fine un nome è solo un nome. La cosa essenziale è che tu, con me, da Nicole o da Nerea che sia, tu sia sempre stata prima "nica"».

Mi si inumidirono gli occhi, ma cercai di non farglielo vedere e spostai lo sguardo altrove, al di fuori dell'oblò del jet. All'esterno il sole scaldava ancora l'asfalto e il cielo era di un azzurro spettacolare, per cui mi diede a pensare. Mi avvicinai al portello ancora aperto e la pelle mi si scaldò a contatto con i raggi solari, mentre un venticello fresco mi agitava i capelli.

Il mio pensiero volò sempre a lui. E, quando Airton seguì il mio sguardo rivolto al cielo, forse non soltanto il mio.

«Secondo te Norman sarebbe felice di noi due?». Mi strinse a sé con delicatezza e mi lasciò un dolce bacio fra i capelli.

Un sorriso orgoglioso mi curvò le labbra così tanto da recarmi quasi dolore. «Ovunque mio fratello sia, sono certa che sappia che non esiste altra persona al mondo oltre te che sia in grado di continuare a fare, per me, quello che lui non può fare più». La voce mi incrinò, come sempre, dall'emozione.

«Forse il destino di cui parlava sempre, delle cose da cui non puoi scappare, è proprio questo. La vita sapeva che mi avrebbe strappato mio fratello prima del dovuto e ha deciso di farmi un regalo». Gli circondai la vita stretta con un braccio e appoggiai la testa sulla sua spalla, continuando però a fissare il cielo.

Il mio fu un sussurro a malapena udibile. «Mi ha donato te».


THE END

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