The Not Heard

By azurahelianthus

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⛓️ DARK ROMANCE AUTOCONCLUSIVO ⛓️ Ci sono vendette che non hanno tempo e sbagli per cui non esiste redenzione... More

𝐓𝐇𝐄 𝐍𝐎𝐓 𝐇𝐄𝐀𝐑𝐃
𝐏𝐑𝐎𝐋𝐎𝐆𝐎
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXV
𝐄𝐏𝐈𝐋𝐎𝐆𝐎
𝐋𝐀 𝐋𝐄𝐓𝐓𝐄𝐑𝐀

XXX

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By azurahelianthus

Lysander aveva già il viso sporco di fuliggine e respirava a fatica, l'aria attorno a noi si faceva sempre più pesante ma non ci era possibile abbandonare l'interno della prigione prima di esserci assicurati che quasi tutti i detenuti fossero fuori. Avevamo passato al setaccio ogni cella, ogni stanza e ogni angolo, liberato chiunque fosse rimasto chiuso, bloccato o impaurito, e li avevamo scortati all'esterno nella speranza che potessero nascondersi fino all'arrivo dei soccorsi.

Un agente si era parato di fronte l'entrata principale e aveva segnato il nome di chiunque uscisse da lì, così da tenere il conto e tentare di non perdere nessuno. Molti erano dispersi per l'isola, ma perlomeno fuori dalla prigione che presto sarebbe diventata una gabbia di fuoco.

Adesso, a parte noi due, il fumo, la cenere e un caldo anomalo, sembrava non esserci più nessuno. Presi il walkie-talkie dalla divisa di Lysander e me lo avvicinai alla bocca, sperando di ricevere una risposta dall'altro capo.

Schiacciai il pulsante PTT. «Victor, Victor da November». Attesi.

Proprio quando stavo perdendo le speranze, qualche minuto dopo, e Lysander era pronto a scavalcare la finestra per andare a cercarli, un rumore elettronico mi fece sospirare di sollievo. Erano vivi.

«Qui Victor in ascolto», rispose la voce di Vince dal dispositivo.

«Codice SINPO?».

Rispose pochi secondi dopo. «3».

Lysander annuì, era abbastanza per avere una conversazione quantomeno comprensibile. Non diceva nulla per non disturbare la frequenza, ma soprattutto per non confondere Vince all'altro capo.

«Vieni avanti, November».

Annuii, più a me stessa visto che non poteva vedermi. Mi accertai di aver premuto il PTT e attesi un secondo prima di parlare. «Tutti i detenuti sono fuori, interrogativo».

«Correzione», rispose lui e il mio cuore sussultò. Il mio sguardo si unì spontaneamente a quello di Lysander, che aveva la fronte corrucciata come me. «All'appello ne mancano due».

Il silenzio che ne conseguì non fu programmato, ma il frutto della preoccupazione che ci colpì. Avevamo controllato in ogni punto della prigione, non avevamo idea di dove potessero essere e che fine avrebbero potuto fare se non li avessimo trovati in tempo.

Il walkie-talkie ci riportò alla realtà. «Copi?».

«Forte e chiaro». Deglutii un sapore amaro, un presentimento che non mi piaceva affatto. «Chi sono i due assenti?».

La sua risposta tardò ad arrivare, come se stesse cercando il modo migliore per formularla. Il respiro veloce di Lysander si infrangeva sul mio viso tanto era vicino e alzando lo sguardo su di lui trovai lo stesso presentimento nei suoi occhi. Poi Vince rispose, usando lo spelling dell'alfabeto ICAO per comunicarci i loro nomi.

«Romeo. Echo. Mike». Ci fu una pausa. «Alpha. India. Romeo. Tango. Oscar. November». In quel momento il mio cuore sprofondò nella paura e il walkie-talkie mi venne strappato di mano, Lysander prese il mio posto perché ero troppo sconvolta per rispondere.

Le iniziali formavano "Rem" e "Airton". Loro due mancavano all'appello e Dio solo sapeva dove si fossero cacciati.

Lysander chiuse la conversazione rapidamente, utilizzando una parola in codice che facesse capire all'interlocutore che doveva interrompere il dialogo per occuparsi di qualcosa di più urgente.

«Rompere!». Non attese una risposta, tornò ad agganciare il dispositivo alla divisa e si piegò sulle ginocchia per starmi davanti.

Mi costrinse a guardarlo, poggiando due dita sotto al mio mento per alzarlo nella direzione del suo viso. «Non sono arrivato all'istante all'ufficio di Theodore quando mi hai chiamato perché ho seguito Kurtis e il suo gruppo di scagnozzi. Ma poi li ho persi una volta entrato in prigione e lì ho trovato Airton, era con Vince e stava per essere scortato in cella. Ho visto Cairo permettere a Kurtis di usare il bagno del personale ed è lì che ho ascoltato la conversazione fra lui e i suoi scagnozzi, dove annunciava il piano che aveva organizzato per ammazzare Airton».

«La rivolta è soltanto un modo per tenerci occupati», sussurrai con un improvviso moto di coscienza. Mi tremarono le mani tanto erano intense le emozioni negative che percepivo dentro.

Confermò il mio sospetto annuendo lentamente. «Ci sono altre due cose che devo confessarti, una positiva e una negativa».

«Qual è quella positiva?».

«Che Airton, in qualche modo, è riuscito a sfuggire a Vince ed è per questo che poi è venuto da te. Probabilmente credeva che fosse tornato in cella da solo, non aveva una bella cera. L'ho visto origliare la conversazione, ovunque si trovi sa che deve prestare attenzione a qualsiasi passo».

Inspirai. «E quella negativa?».

«Ho visto Airton recarsi in direzione dell'ufficio di Theodore. Volevo seguirlo e parlargli, ma le urla che provenivano dalla mensa mi hanno allarmato, credevo che Daneen fosse ancora lì. Sono tornato indietro sui miei passi e mentre io uscivo dalla prigione per andare lì, Cairo invece entrava».

Rischiai di svenire. Rischiai seriamente di svenire, ma non potevo permettermelo per nulla al mondo. «Credi che... c-credi che gli abbia fatto del male?».

«Cairo è sempre stato un pezzo di merda, lo sai», ringhiò lui. I suoi occhi scuri si riempirono di fiamme, bruciarono di rabbia e al tempo stesso di impotenza. «Ha sempre agevolato Kurtis, che sia per soldi o semplicemente perché odia Airton tanto quanto ha odiato-».

Si fermò, ricordandosi con chi stesse parlando. Ma non c'era bisogno che si controllasse, ero consapevole di ciò che stava per dire. In cuor mio, ero consapevole che loro due avessero una vita molto simile.

«Tanto quanto ha odiato mio fratello», terminai per lui.

I suoi occhi si addolcirono. «Vorrei poterti esonerare da questa missione Nerea, ma non è nei miei compiti. E ormai è troppo tardi per tirarsi indietro, per quanto male possa farti».

«È stata una mia scelta», mormorai.

Indossò nuovamente la maschera da agente infiltrato, pensando al bene dei detenuti innocenti piuttosto che al mio dolore. Ed era giusto così, era il nostro lavoro. «Cosa vuoi fare? Come vuoi agire?».

«Sai che dobbiamo fare, Lysander. Non possiamo spostarci insieme, io rallento te e tu rallenti me».

La sua gola si mosse mentre deglutiva. Una goccia di sudore gli scivolò sulla tempia, il caldo si stava intensificando, gli occhi bruciavano e la cenere ci sporcava il viso. «Dobbiamo dividerci».

«Io cerco Airton, tu cerchi Rem». Lo fissai, sapendo che separarsi volesse dire non avere più la certezza di vedere uscire l'altro, proprio come avevamo pensato nel momento in cui ci eravamo separati da Vince e Daneen.

Mi guardò attraverso gli occhi colmi di tensione, respirando quasi a fatica. «Ti ho dato un soprannome, Casper. E te l'ho dato perché voglio ripeterlo per tutta la vita, hai capito?».

«Ti prometto che lo ripeterai ancora per tanto tempo, Lys». I miei occhi rischiarono di riempirsi di lacrime, ma non era proprio il momento adatto per un crollo emotivo. Un passo falso, una perdita di tempo inutile, e qualcuno di noi poteva morire.

Mentre lui imboccava il corridoio di fronte a me e svoltava a destra, diretto nuovamente alle docce, io, invece, svoltavo a sinistra. Verso le celle di isolamento, le uniche parti della prigione che non avevamo controllato dando per scontato che non ci fosse nessuno.

Come lui sperai che Dio, qualora esistesse veramente, mi desse la possibilità di pronunciare ancora il suo nome. E quello di tanti altri.

Le celle di isolamento sembravano essere l'unica parte della prigione dove le fiamme e il fumo non erano ancora riuscite ad arrivare. Il che mi infondeva speranza, voleva dire che avevo qualche minuto in più per poter ragionare a mente lucida. Difatti non sfoderai la pistola per tenerla di fronte a me, pronta a sparare qualora mi fosse servito, ma piuttosto la incastrai sul retro dei jeans.

Scesi lentamente la breve rampa di scale che portava alle celle, i muri erano rovinati e non erano mai stati ristrutturati, per cui donavano al luogo un aspetto molto simile ad un posto da post-guerra. Che, alla fine, non era poi molto diverso da ciò che stavamo vivendo in quel preciso istante.

Quando mi avvicinai abbastanza, mi trovavo praticamente alle spalle della porta posta all'entrata del corto corridoio dell'isolamento, dei rantoli e dei gemiti di dolore iniziarono ad arrivarmi alle orecchie. Il mio respiro si intensificò, riconoscendo all'istante che quella era la voce sofferente di Airton.

Una voce che nel silenzio pesante, intensificato dallo spessore delle pareti che isolavano il luogo dal resto, stava mormorando il mio nome, il mio vero nome, in continuazione, come una sorta di dolorosa cantilena che fungeva da distrazione. Mi sporsi quel tanto che serviva per osservare la scena che mi si parò di fronte agli occhi: le mani di Cairo stringevano le sue caviglie mentre lo trascinava verso una cella.

Il corpo di Airton era molle, un lato del suo viso era cosparso di sangue scuro e ancora liquido, e riusciva a malapena a tenere gli occhi aperti, continuava a chiuderli e ad aprirli come se fosse una delle cose più faticose che avesse mai fatto. A modo suo stava lottando, tentava di non abbandonare la presa sul mondo rimanendo sveglio, lottando contro il sonno traditore che avrebbe potuto portarlo via.

Stava lottando, stava finalmente lottando per la sua vita. E io non potevo stare a guardare un solo secondo di più.

Superai la porta e lo affrontai. «Cosa stai facendo?».

Gli lasciò cadere le gambe senza preoccuparsene molto e si voltò nella mia direzione. Sperai con tutto il cuore di vedere Airton ritrarsi, indietreggiare fino ad una cella per nascondersi, ma non lo fece.

«Che ci fai tu qui?». Si asciugò il sudore dalla fronte con il braccio, la sua divisa era imbrattata di sangue e fuliggine. «Dio, sei proprio una stupida. Ti facevo più intelligente. Darmi la possibilità di uccidere due delle persone che mi stanno più sul cazzo in un colpo solo è un favore che non pensavo di ricevere».

Inarcai un sopracciglio. «Magari quello a morire sarai tu».

«E come dovresti fare ad uccidermi?», lo sentii ridacchiare nel suo solito modo, irritante e maligno.

«Conosco mille modi diversi per torturare una persona e fargli desiderare di essere ammazzato. Non provocarmi, Cairo, non potresti mai vincere contro di me».

Scosse lentamente la testa e indossò un ghigno. «Hai sempre avuto questo ego smisurato, sin dalla prima volta in cui hai messo piede qui. Ti sei sempre sentita un passo sopra tutti, ma sei soltanto una psicologa da quattro soldi che non è mai riuscita a farsi i cazzi suoi. Morire da eroi è pur sempre morire, dolcezza».

«Io sono un passo sopra tutti». Mantenere la calma era veramente difficile con quelli come lui, in grado di far saltare tutti i nervi di una persona soltanto parlando.

Lui si avvicinò nuovamente ad Airton, ancora disteso a terra, e io feci spontaneamente un passo in avanti. Stavo per minacciarlo con tutta la serietà possibile, dicendogli che gli avrei tagliato le dita una ad una se gli avesse fatto ancora del male, ma l'unica cosa che fece fu prenderlo, in malo modo, per tirarlo su e lo appoggiò con la schiena al muro. In questo modo gli era possibile guardarci senza fare chissà quale sforzo, in compenso, però, il sangue scivolava molto più veloce rispetto a poco prima sul lato del suo viso.

«Così puoi vedere chiaramente mentre ammazzo la tua dolce ragazza e non puoi fare niente per fermarmi. E dopo, quando sarà morta, mi prenderò del tempo per decidere se ammazzare anche a te o fare in modo che sembri la tua quarta vittima», rimase in ginocchio di fronte a lui per farsi guardare. «D'altronde sei o non sei l'assassino delle fidanzate?».

Se avessi avuto anche soltanto il tempo di processare la sua frase, una lacrima mi sarebbe scivolata sulla guancia e si sarebbe dispersa sulla mia pelle, sentirlo chiamare in quel modo ingiusto faceva male.

Ma Cairo non me ne diede il tempo, perché quando si voltò mi saltò addosso come un cane rabbioso. Mi strinse le mani al collo e con una forza inaudita mi spinse sul muro alle nostre spalle, che si crepò un po' tanta era la violenza che aveva usato contro di me.

«Sai perché ti ho odiato dal primo istante?», si piegò sul mio orecchio destro, ma senza mai allentare la presa sul mio collo. Le mie mani si erano mosse spontaneamente per stringere i suoi polsi e provare ad allentare la sua morsa. «Perché nei tuoi occhi ho intravisto lo stesso fuoco che ardeva in tuo fratello. Desideravo spegnerlo, bramavo piegarti fino a farti accartocciare su te stessa e farti pregare Dio di prenderti piuttosto che rimanere in questo mondo, ma con te non ha funzionato come ha funzionato su di lui».

Il dolore che percepivo ai polmoni sparì nel momento in cui sentii il cuore spaccarsi come un vetro, riversando tutto fuori. La sua voce si fece più vicina. Una lacrima mi scivolò sulla guancia. «Forse perché a quanto pare non sei debole come lui. Non abbastanza da legarti un lenzuolo al collo e suicidarti dopo aver scritto una patetica lettera di scuse», me l'asciugò con il pollice e sorrise con cattiveria. «Anche lui ha pianto quella volta, sai?».

La pressione al collo sparì di colpo, così com'era arrivata, quando la rabbia mi esplose dentro. Con una mano lo colpì duramente sulla parte sinistra del viso, spostandolo leggermente verso destra, e poi abbassai di scatto le braccia, per far sì che i gomiti sbattessero con violenza sulle sue, tese e irrigidite dalla sua morsa, e fosse costretto a lasciare andare la presa. Poi gli piazzai le mani sul petto e lo spinsi di un mentre più indietro, riappropriandomi del mio spazio.   

«Sei un uomo morto!», tuonai furiosa.

«Ho indagato su di te pochi giorni dopo il tuo arrivo, quando ho capito che la tua insolenza era frutto di qualcos'altro. Il tuo bel faccino non appartiene a nessuna Nicole Castillo». Iniziò a girare come un animale attorno alla propria preda e, visto che io non lo ero affatto, eseguii il suo esempio.

Entrambi eravamo pronti a scattare l'uno contro l'altro.

«Nerea Anderson. Anderson come Norman, un nome che non ho mai dimenticato. Bella trovata, sul serio. Chissà se tuo fratello sarebbe fiero del tempo che hai buttato dietro alla ricercare di una vendetta».

Tutto quello che diceva faceva male, sembrava sapere bene cosa dire per colpirmi anche senza usare la violenza fisica. E quella presa di coscienza fu anche più dolorosa, perché potevo solo immaginare le terribili cose che aveva dovuto dire a Norman per fargli preferire la morte ad una vita così. E chissà cos'altro aveva detto ad Airton in tutti quegli anni.

Mi rifiutavo di parlare, non c'era davvero nulla che potessi dire per contrastare le cattiverie che gli scivolavano dalla bocca. E, dal suo ghigno maligno, lui sembrava saperlo. «Lui lo sa?», indicò Airton con un cenno della testa, «Gli hai detto chi è davvero la ragazza di cui si è innamorato? Glielo hai detto, dolcezza, che il tuo amore non è altro che il frutto dell'assenza di tuo fratello e che ti sei convinta di amarlo perché hai capito che soltanto così puoi salvarlo?».

Airton continuava a tenersi una mano pressata sul lato sinistro del corpo, sui fianchi, con un'espressione sfinita e addolorata. Forse aveva una costola incrinata, magari più di una, e il dolore doveva essere quasi insopportabile. Ma la cosa peggiore era il modo in cui, adesso, stava guardando me: anche attraverso il sangue che gli colava sul viso e il petto che si muoveva veloce, quasi come se faticasse a respirare, i suoi occhi, nei rari attimi in cui erano aperti, erano colmi di delusione.

Una delusione che avevo provocato io.

«Sei proprio un figlio di puttana», ringhiai frustrata. Non avrebbe dovuto scoprirlo così, non doveva andare così.

I miei occhi erano incollati su quelli di Airton, per cui mi sorprese vederlo piegarsi in avanti, verso di me, con la mano sporca sia di sangue che di fuliggine. «N-n-nerea!». Stava indicando la mia destra.

Spostai lo sguardo e feci uno scatto indietro in tempo per sfuggire al calco della pistola diretto alla mia nuca. Mi allontanai quanto serviva per avere il tempo di tirare fuori la mia e sparai un colpo diretto al suo ginocchio poco prima che mi saltasse nuovamente addosso. Il suo gemito di puro dolore si espanse nel corridoio mentre perdeva l'equilibrio e si sedeva in modo innaturale sul pavimento. Non perse tempo a circondare la ferita con le mani, tentando di attutire il flusso copioso del sangue che gli imbrattava la ferita.

«Sei una troia!», urlò frustrato, a metà fra la sofferenza e la rabbia di essere stato preso in contropiede. Alzò lo sguardo su di me e giurai di non aver mai visto in vita mia una malignità così inumana negli occhi di qualcuno. «Sono felice che tuo fratello si sia suicidato. Se non l'avesse fatto lo avrei ucciso con le mie mani!».

Rimisi la pistola al suo posto, ben salda dentro il retro dei miei jeans, e ponderai sulla mia successiva decisione. Più lo guardavo, più ero costretta ad osservare i suoi occhi maligni e quelle mani che avevano recato così tanto dolore, più cresceva in me il desiderio di fargli del male. Il sangue che gli fuoriusciva dalla ferita e si allargava ad ogni minuto che passava, imbrattando il tessuto blu scuro, non era abbastanza. Ne volevo di più, molto più. 

Doveva annegare in quel liquido rossastro. Doveva perdere il respiro, doveva desidera di morire, doveva sentire l'odore rugginoso del suo sangue e bramare l'odore del mare, provando la paura di non sentire più nessun altro odore o sapore. Doveva pensare ai suoi cari e al rischio di non vederli mai più, alle cose che aveva fatto e di cui si era pentito e alle cose che, forse, non avrebbe più potuto fare.

Volevo che provasse la paura che aveva provato mio fratello e il dolore che aveva distrutto Airton. Volevo che soffrisse tanto quanto soffrivo io.

Alzai la gamba quel tanto che bastava per colpirlo sul mento con la punta delle scarpe. La sua nuca si piegò all'indietro con uno scatto violento e il sangue iniziò a scendergli copiosamente dalle narici, ma quella vista più che disgustarmi mi appagò. Il mio cuore mi aveva permesso per anni di non lasciare al dolore il potere di cambiarmi, di rendermi una persona cattiva, e fu per questo che il mio cervello lo mise da parte in quell'istante. La rabbia prese il comando e il mondo smise di funzionare come aveva sempre fatto, mi sentivo uno spettatore della mia stessa vita che non faceva nulla per cambiare la scena che gli si presentava davanti agli occhi.

Lo spinsi duramente sul pavimento e mi avventai su di lui con ogni parte del mio corpo, con così tanta forza da farmi male i muscoli, ma con così tanto bisogno da non badare nemmeno più al dolore e al sangue che mi usciva dalle nocche spaccate e si univa al suo, che mi schizzava addosso ogni volta che lo colpivo.

Ogni colpo era un pezzo della mia anima che tornava al suo posto, un fulmineo ricordo del sorriso luminoso di mio fratello, la sensazione di morbidezza di una carezza di mio padre. Un ritorno, per certi versi.

«N-nerea». La voce di Airton sembrò arrivare da un punto lontano, anche se era alle mie spalle. «F-fermati, Nerea».

Il sangue continuava a schizzarmi addosso e la pelle frastagliata sulle mie nocche continuava a bruciare. Anche se continuavo a colpirlo dall'alto, guardandolo con una rabbia cieca dipinta sul viso, Cairo si limitava a sfoderare un luminoso sorriso tinto di rosso scarlatto. E più lui manteneva quella smorfia soddisfatta, più a me veniva voglia di cancellargli ogni tratto dal viso fino a renderlo irriconoscibile.

Ormai non si difendeva neanche più, ero stata costretta ad usare l'altra mano per tenerlo in piedi, stringendo la sua divisa in una morsa ferrea. Era un corpo mollo fra le mie braccia. Ogni volta che gli sferravo un pugno dritto sul viso, la sua nuca veniva gettata all'indietro con violenza e le sue palpebre si abbassavano quasi fino a chiudersi totalmente, ma lui resisteva e tornava sempre ad aprirli, a sfidarmi con quello sguardo da demone.

E in quel momento non sapevo se fossi più maligna io, ad aver perso la ragione, o lui. Non ne avevo idea. Però sapevo per certo che mio fratello ne sarebbe stato deluso.

Un lembo della mia camicia bianca, nascosta sotto il giubbotto, venne strattonato per attirare la mia attenzione. «Nerea!», la voce disperata di Airton aumentò di volume. Mi voltai per guardarlo di sfuggita e lo trovai ancora seduto sul pavimento, doveva essersi trascinato a fatica per arrivare da me.

Il sangue non gli colava più dal lato del viso, ma la fuliggine era aumentata e la sua pelle si era fatta più pallida. Respirava con più fatica, complice il fumo che iniziava ad arrivare anche da noi e che rendeva l'aria difficile da respirare. Il suo sguardo era disperato.

«T-ti prego», mi supplicò. Un colpo di tosse gli impedì di parlare per qualche secondo, ma poi riprese. «Norman non vorrebbe questo».

Sentirlo parlare in questo modo di lui, sentire che anche Airton adesso ne parlava al passato, mi fece male. Mi ricordò che l'incubo che mi ero illusa di star vivendo era, piuttosto, la mera realtà. E che picchiare Cairo fino a farlo morire nel suo stesso sangue non mi avrebbe ridato né il mo fratellone né il mio dolce papà.

Lasciai la presa sulla divisa di Cairo, che cadde sul pavimento con un tonfo e non si rialzò. Era vivo, i suoi occhi continuavano ad aprirsi e a richiudersi a fatica, ma non aveva la forza per reagire e scappare. In quell'istante stava provando ciò che aveva provato Airton e di questo ero soddisfatta. Del resto me ne vergognavo profondamente.

Me ne vergognavo talmente tanto che scoppiai in una crisi di pianto che mi piegò in ginocchio. Ricurva su me stessa, con le mani sporche poggiate sul pavimento e la nuca bassa, mi sentii circondare da un paio di braccia che iniziarono a cullarmi dolcemente per provare a lenire quel dolore profondo che mi tagliava il cuore.

«Non è così che andrà via il dolore», mormorò a fatica mentre il mio corpo tremava da capo a piedi per i singhiozzi. «Non serve a niente la vendetta, non serve a niente sporcarsi le mani. Neanche la giustizia riporterà indietro Norman. Nemmeno la giustizia».

Un urlo addolorato mi sfuggì dalle labbra e riempì il silenzio che circondava i muri spessi delle celle di isolamento. Piangevo per il tempo che avevo perso, per le scelte che avevo fatto e delle cose di cui mi ero privata, per il liquido rosso sulle mie mani e per il sorriso sanguinoso che avrebbe infestato i miei incubi per molto tempo ancora.

E per il fatto che, malgrado tutti gli sforzi che avevo fatto, lasciando la mia giovinezza indietro, adesso mi ritrovavo comunque a stringere il pugno con un bel mucchio di niente dentro.

Niente, se non il dolore. Niente, se non la perdita.

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