The Not Heard

By azurahelianthus

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⛓️ DARK ROMANCE AUTOCONCLUSIVO ⛓️ Ci sono vendette che non hanno tempo e sbagli per cui non esiste redenzione... More

𝐓𝐇𝐄 𝐍𝐎𝐓 𝐇𝐄𝐀𝐑𝐃
𝐏𝐑𝐎𝐋𝐎𝐆𝐎
I
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VI
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XII
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XXVII
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XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXV
𝐄𝐏𝐈𝐋𝐎𝐆𝐎
𝐋𝐀 𝐋𝐄𝐓𝐓𝐄𝐑𝐀

XXVIII

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By azurahelianthus

Airton

Il solo respirare mi recava dolore. I miei polmoni si allargavano per prendere fiato, ma al posto dell'ossigeno ricavavano soltanto il dolore di una fitta acuta che mi attraversava il petto.

Normalmente questo mi accadeva a causa dei calci, o dei pugni, che avevo subito, ma in quel caso il mio fisico stava benissimo. Dopo le continue trasfusioni e la cura a cui mi aveva sottoposto la dolce infermiera avevo perfino riacquistato le energie.

Il mio corpo aveva finalmente smesso di soffrire. Era il mio cuore a non stare bene adesso.

Tenni le mani unite di fronte a me, ignorando totalmente il vassoio con il cibo che mi aveva portato l'agente Adams poco prima. Adesso se ne stava impalato lì davanti attendendo, da me, una singola reazione che non avrebbe ricavato. 

«Airton puoi mangiarlo dannazione, è cibo normale. Ho evitato appositamente la carne», mi sussurrò frustrato. «Mangia almeno un po' di sandwich e qualche carota!».

Alzai lo sguardo su di lui solo per fulminarlo. «Cos'è, la tua amica vuole pulirsi la coscienza e ha mandato te a farmi da balia?».

Lo sentii sospirare con fastidio. «Sto cercando di aiutarti perché tengo alla tua salute».

«Oh, perdonami se non mi fido più di nessuno! Sai, ho compreso da poco che la gentilezza non esiste: ogni comportamento viene smosso da un doppio ricavato, tutto quello che mi viene dato dovrà tornare al mittente con gli interessi».

Scosse la testa in procinto di ribattere, ma poi ci ripensò. Richiuse la bocca con uno scatto e strinse i denti, stringendo lo schienale della sedia di fronte a me fino a far diventare le nocche bianche. «Okay, ho capito. Il vassoio rimarrà qui per tutta la durata del pranzo, se vorrai decidere di fidarti di me potrai sfamarti in autonomia. Buon pranzo».

Mi voltò velocemente le spalle e se ne andò, tornando a sedersi al fianco di Daneen e a qualche altro agente. Lei gli parlò a voce bassa, vicino all'orecchio, e lui rispose scuotendo lentamente la testa, poco prima di abbassare la nuca e passarsi le mani fra i capelli con ancora più frustrazione. Un po' mi dispiaceva, ma dubitavo che lui potesse capire il mio stato d'animo in quel momento.

Da giorni non dormivo, anche se gli angoli degli occhi mi bruciavano e la pelle in quel punto si era quasi scorticata, sembrava corrosa dalle piccole lacrime che la notte non riuscivo a fermare in alcun modo. E io mi sforzavo a mangiare qualcosa durante i pasti, ma poi insorgeva la nausea e a malapena riuscivo a resistere all'impulsivo di vomitare, come se il mio cervello fosse convinto di riuscire a disintossicare il cuore sputando via tutto quello che avevo dentro.

Ma l'amore non era un qualcosa di esterno, non era qualcosa che ingerivamo e finiva in giro per il nostro corpo, era qualcosa che ci nasceva dentro e dentro rimaneva. Qualcosa di inciso sulla pelle, sui muscoli, su ogni organo, che ad un certo punto infettava tutto.

La cosa peggiore di sentirsi traditi non era il tradimento in sé, non era nemmeno il dolore e la sensazione di sentirsi il cuore stretto in una morsa, ma l'abitudine che si trasformava in rarità. Osservare come ogni giorno iniziava e finiva in modo diverso, guardare il sole che si alzava o calava nel cielo e pensare "a quest'ora l'avrei rivista", sapendo bene che il passare dei giorni avrebbe portato con sé il suo odore, la morbidezza dei suoi capelli, il ricordo della sua voce e tutto quello che ci rimaneva stampato in testa di una persona.

L'odore intenso del cibo, e soprattutto della carne che avevano cucinato insieme allo stufato, mi costrinse ad alzarmi per lasciare la mensa il più in fretta possibile. Vince, che era l'unico ad aver già terminato il suo pranzo, mi si affiancò istantaneamente e con una mano sulla spalla mi scortò fuori, accompagnandomi nuovamente verso la mia cella. Il mio corpo a contatto con la temperatura gelata dell'esterno iniziò a tremare, ma strinsi i denti e non feci una piega.

«Hai mangiato?». Scossi la testa e poi lo sentii sospirare. «Così non andiamo da nessuna parte, ragazzo. Devi mangiare, devi tornare in forze, non hai nulla che ti manca».

Lo fulminai con lo sguardo, facendogli capire che mi trovavo in totale disaccordo con la sua ultima frase. Lui mi capiva, mi capiva sempre, e non avevo bisogno di usare le parole, non mi aveva mai costretto ad usarle neanche quando gli altri si sentivano in diritto di pretendere da me qualcosa che non volevo dare. A chi doveva fregare dei miei pensieri, della mia voce, delle mie parole, quando di loro non importava nemmeno a me?

Era quello che avevo pensato per molto tempo.
Almeno finché non era arrivato qualcuno a cui sembrava importare più degli altri. Almeno finché avevo creduto che gli importasse di me, di Airton, e non del serial killer che la stampa aveva perseguitato.

«Non intendevo quello, lo sai», si rabbuiò, «Mi riferivo alla persona che sei, non ti manca un buon cuore, una mente intelligente e anche una buona salute se solo te ne prendessi cura».

Lo guardai di nuovo, sempre senza dire nulla a parole, con uno sguardo triste e vuoto che potesse fargli intendere la direzione dei miei pensieri.

«Lo so, lo so, ti manca tanto dal piano sentimentale. Non hai una famiglia, non hai qualcuno che ti aspetta fuori e qui ti sei fatto tanti di quei nemici che sei a posto per una vita intera, ma hai me, hai Rem, hai Daneen, hai l'agente Adams...». Ti prego non dire il suo nome. Ti prego, non parlare di lei. «E hai Nicole. Quella ragazza brucerebbe il mondo per tenerti al caldo!».

Digrignai i denti, cercando di gestire la fitta al petto. Se lei avesse dato fuoco al mondo per scaldarsi si sarebbe premurata di bruciare anche me e qualunque cosa ledesse al suo lavoro. Dovevo solo capire quale fosse questo fantomatico lavoro a cui aveva giurato fedeltà in modo così assoluto.

Una volta aperti i cancelli in ferro del carcere Vince mi avvicinò al muro del corridoio principale, permettendomi di appoggiarmi lì con la schiena, e si sfregò le mani fra di loro per scaldare. «Vado a prendere della cioccolata calda per entrambi, torno subito. Mi raccomando, se ti chiedono sono andato al bagno!».

«Vince», lo chiamai preoccupato. Guardai in fondo al corridoio, da cui normalmente usciva lei per andare in pausa pranzo, e poi riportai lo sguardo su di lui.

Non avevo idea se fosse a conoscenza del nostro "allontanamento", non sapevo neanche se avesse dei sospetti su di lei e sul suo lavoro, ma sembrò capire. «Lei non c'è, non preoccuparti».

«Dov'é?».

«Si trova nell'ufficio del direttore, stanno discutendo di qualcosa che mi è sconosciuto, non mi è stato permesso di partecipare alla loro conversazione. Sicuramente nulla di grave».

Ne dubitavo fortemente, ma annuii comunque.

«Perché me lo chiedi?». Da gran bastardo qual era, un sorriso dai toni arroganti gli allargò le labbra screpolate dal freddo. Incrociai le braccia al petto e mi strinsi nelle spalle.

«Curiosità».

«Mh, certo». Mi dedicò un occhiolino complice e si allontanò verso le macchinette.

Anche se mi ero allontanato dal forte odore del cibo della mensa la nausea continuava a scuotermi lo stomaco, sentivo le mani scivolose a causa del sudore e la fronte imperlata. Stavo facendo fatica a non rimettere lì, sul pavimento del corridoio, ma l'idea di essere picchiato per questo non mi entusiasmava. Cercai Vince con lo sguardo e sperai facesse in fretta, ma non c'era traccia dei suoi capelli biondi e io non avevo voglia di sentirmi male. Ero certo che avrebbe capito.

Decisi quindi di dirigermi verso il bagno a passo lento, non volevo sballottarmi troppo per non smuovere lo stomaco più di quanto già non lo fosse. Un attimo prima di svoltare l'angolo per accedere ai bagni che normalmente erano riservati solamente al personale mi gelai sul posto, sentii chiaramente una conversazione animata che si stava svolgendo a pochi metri da me e che sembrava particolarmente interessante. La voce di Kurtis, alta e autoritaria ma non abbastanza da essere sentita fino alla stanza privata delle guardie, era occupata a impartire ordini ad un gruppo ristretto di detenuti che sembravano ascoltarlo come se ne dipendesse della loro vita.

«Aprite bene le orecchie, coglioni».

Mi appiattii al muro per non farmi vedere e mi avvicinai per sentire meglio, gettando un'occhiata di tanto in tanto per assicurarmi di scolpire i loro visi nella mia memoria. Per mia sfortuna colpii la cassetta del pronto soccorso con la spalla, creando un tonfo sordo che si percepii anche in lontananza a causa del silenzio pieno di tensione che aleggiava nell'aria, e fui costretto a mordermi le labbra per non imprecare. Mi tirai indietro due secondi prima che la testa di uno dei detenuti si voltasse di scatto nella mia direzione.

«Avete sentito?», chiese sospettoso.

Il resto dei detenuti lo guardarono di sfuggita e scossero la testa. In quel momento Kurtis alzò la mano e lo colpì alla nuca con violenza, guardandolo male per averlo interrotto senza un apparente motivo.

Il suo tono di voce quando parlava nella sua lingua madre era più aspro e alto del normale. Non avevo idea di quello che avesse detto, tuttavia sembrava proprio una minaccia. «Poslushay ty, mudack!».

«Adesso andremo in mensa e daremo il via ad una rivolta, chiedendo agli agenti che ci vengano dati dei pasti migliori, delle coperte più spesse, l'acqua calda e altri comfort che non abbiano mai avuto. Ci impegneremo per farla sembrare una lotta ai diritti».

Un detenuto parlò con voce dubbiosa. «E quando pranzeremo? Io ho fame, capo. E avrò anche più fame dopo». Dal silenzio che ne conseguì, e conoscendo Kurtis, immaginai che lo avesse fulminato.

«Mandavoshka», si limitò a sussurrare aspramente.

«E invece cosa faremo?», chiese un altro. «La rivolta è una scusa per creare confusione e spostare l'attenzione da cosa?».

Sentii Kurtis fare qualche passo, come se gli stesse girando attorno come uno squalo con le piccole prede. «Ci occuperemo finalmente di Airton Parisi, senza che i suoi amichetti possano avere il tempo di difenderlo. Ci sarà talmente tanto sangue e confusione che a nessuno di loro importerà salvare lui, ma solo loro stessi».

«Perché tutto questo solo per una lezione? Lo abbiamo picchiato altre volte senza bisogno di tutto questo teatrino». Sbuffò un altro.

Sbirciai la scena e trovai Kurtis a fulminarlo. «Entro questa notte Airton Parisi morirà in una pozza di sangue. Così è più chiaro?». Mi ritrovai a deglutire, appiattendomi nuovamente al muro per calmare il respiro che mi si era improvvisamente velocizzato.

«Cosa ricaveremo dalla sua morte?».

«Senza Parisi a difenderlo Ivanov sarà in pericolo, qualsiasi clan qui dentro desidera avere le sue ricchezze e i contatti che suo padre potrebbe passargli. E in quel momento capirà che la sua unica salvezza saremo noi. Non avrà altra scelta se vuole sopravvivere».

Ero spacciato. Eravamo spacciati. Pensa, Airton, pensa.

«Andate a prendere le armi così ci dirigiamo in mensa prima della fine della pausa pranzo. Io nel frattempo vado a pisciare». Kurtis parlò a voce bassa, chiudendosi dietro la porta del bagno nell'esatto momento in cui i passi pesanti degli altri detenuti iniziarono ad essere fin troppo vicini.

Rischiando di imprecare a voce alta mi infilai nella prima stanza che trovai, un magazzino totalmente al buio, e appoggiai l'orecchio alla porta nell'attesa. Una volta lontani sarei schizzato fuori, evitando di incappare in Kurtis, e sarei andato ad avvisare Nicole. Non avevo idea di come fare visto che si trovava nell'ufficio di Theodore, ma in qualche modo le informazioni le sarebbero arrivate. Malgrado tutto non potevo permettere che le accadesse qualcosa di male, né a lei, né ai pochi a cui tenevo.

Quando il corridoio venne inghiottito dal silenzio aprii lentamente la porta, che cigolò a malapena, e girai l'angolo a passo felpato anche se attorno a me non c'era assolutamente nessuno. Trovai la cosa quasi più inquietante del beccare Kurtis o qualunque altro, ero terrorizzato dall'idea di non riuscire ad arrivare in tempo.

In mensa c'erano l'agente Adams, Daneen e Rem, oltre un paio di guardie che non c'entravano nulla con la corruzione di quel luogo infernale e detenuti innocenti che stavano soltanto provando a scontare la loro pena nel modo più pacifico possibile. Erano pochi, sì, molto pochi, ma qualcuno di genuino lì dentro c'era ancora. 

Continuai a camminare con la vista offuscata, immaginando il viso pallido, ferito e incredibilmente giovane di Rem, Adams e la divisa sporca di sangue mentre tentava di difendere quante più persone possibili, Daneen che tremava dalla paura e soffocava i suoi pianti rimanendo nascosta in cucina, consapevole che se fosse stata trovata sola e indifesa le avrebbero fatto qualcosa di terribile. Vedevo già la delusione nel volto ferito di Vince e le mani che tremavano mentre teneva in alto la pistola, quella che in tutti questi anni, a differenza di molti, non aveva mai tirato fuori dalla fondina.

Persone innocenti, legate tutte dalla colpevolezza di aver accettato un lavoro in uno dei luoghi peggiori di questo pianeta. E persone come me, che meritavano la condanna che gli era stata inflitta ma forse non una fine così crudele.

Il cuore mi si strinse pensando a lei, pensando a come avrebbe lottato con le unghie e con i denti. Dio, non ero neanche in grado di immaginare le cose terribilmente viscide e crudeli che le avrebbero fatto, la sola idea di vedere Kurtis metterle le mani addosso mi faceva venire la nausea. L'unica cosa che mi trattenne dal vomitare fu girare l'angolo e incontrare le scale di metallo che mi avrebbero portato all'ufficio di Theodore.

Strinsi il corrimano con la mano destra per pochi secondi prima che una forza sconosciuta mi tirasse indietro con così tanta violenza da farmi sbattere sul muro alle mie spalle. Chiusi gli occhi per il dolore e quando li riaprii incontrai uno sguardo da psicopatico.

«Dove cazzo credi di andare?», ringhiò Cairo. 

«Devo parlare con Theodore». Lo sorpassai nuovamente, ma la sua mano si abbatté sulla mia spalla sinistra e mi spinse indietro.

Assunse un sorriso fintamente cordiale. Il suo tono di voce fu veloce, le parole uscirono impastate fra di loro, sembrava nervoso e questo lo si poteva notare anche dallo sguardo. Sembrava pazzo. «Non puoi. È impegnato al momento».

«Non ti ho chiesto il permesso». Lo sorpassai ancora ma stavolta il suo pugno si scontrò con il mio stomaco, privandomi del respiro per qualche lungo secondo. Mi piegai in due automaticamente, cercando di proteggere quantomeno gli organi vitali, e finii in ginocchio.

«Ho sempre ammirato la tua lingua lunga effettivamente, mi ricordi molto un detenuto che ho incontrato anni fa». Mi mollò un calcio non necessario sullo stesso punto e stavolta finii sul pavimento, disteso in posizione supina per provare a difendermi dalla quantità di botte che sapevo sarebbero arrivate presto. E che mi avrebbero tolto il respiro più di quello che avevo scelto di togliermi da solo. «Lo sai che fine ha fatto? È morto. Si è suicidato».

Chiusi gli occhi perché era l'unica cosa che mi era rimasta da fare, desiderando di poter chiudere anche le orecchie e smettere di sentirlo parlare del dolore acuto di un altro ragazzo che probabilmente aveva dovuto subire le stesse cose che avevo dovuto subire io. E mi fece male, mi fece un male cane, perché mi resi conto di aver pensato al suicidio molte volte. Moltissime, più del dovuto, più del previsto, più del concesso.

E se alla fine non l'avevo fatto era solo perché al mio fianco era arrivata lei. Senza, probabilmente mi sarei stretto un lenzuolo al collo e mi sarei lasciato cadere molto ma molto tempo prima di quel giorno.

La sua voce acida mi colpì e bruciò come del veleno. Mi agguantò per i capelli in una morsa violenta e si accertò che lo stessi fissando dritto in quegli occhi da criminale, anche se aveva una divisa ufficiale a celare quello che era veramente.

«Rimpiangerai questa scelta, Parisi. Sarebbe stato meglio se ti fossi suicidato anche tu».

Dolore. Questa era l'unica cosa che sentivo, dentro, al cuore, e fuori, sulla pelle e sulle ossa, mentre i suoi pugni mi si abbattevano sulle costole, sul viso e sulle gambe. Mi voltai lentamente per provare anche solo a sfuggire a quella sensazione crudele, sembrava che il corpo mi stesse urlando "ti prego basta" anche quando il colpevole non ero io e non avevo alcun potere su ciò che mi stava accadendo.

Ti prego basta, lo dicevo io.

Lo dicevo alla vita. Lo dicevo al dolore. Lo dicevo a me stesso.

Ti prego, basta. Arrenditi. Lasciati picchiare, lasciati spezzare, non lottare per qualcosa per cui non ha più senso lottare. Distenditi, lascia che il dolore fluisca e che bruci, lascia che il sangue cada a rivoli sui tuoi occhi e stenda un velo che possa mascherare la crudeltà del mondo in cui abitiamo oggi giorno. Lascia che il cuore faccia male, lascia che esploda in mille pezzi, lascia che si liberi di tutte le spine che ha trattenuto fino ad oggi. Permetti alla tua mente di portarti via da questo luogo, forse l'ultimo che vedrai, permettile di rendere l'ultimo assaggio di questa la vita il più dolce che possa esserti concesso. Ricorda, ricorda quello che è stato e quello che non sarà mai più. Lascia la presa, smettila di stringere, smettila di pregare, smettila di sperare che qualcuno possa salvarti.

Respira. Solo... respira. Finché puoi, respira. Finché i polmoni funzionano, finché il petto si muove, anche se fa male, respira.

È il sapore delle sue labbra quella dolcezza che senti, sono le sue lacrime che ti scorrono sul viso e il suo sangue quello che ti fuoriesce dalle ferite, perché di te non ne è già rimasto più niente. Glielo devi, è per questo che glielo devi. Non sei tu, non sei più tu, è lei.

Respira. Solo... respira. Finché puoi, finché ce la fai.

Fallo per lei.

«Che cazzo stai blaterando da mezz'ora?», chiese infastidito.

Stavo dicendo qualcosa? Non me ne ero reso conto, forse troppo concentrato sul mio grillo parlante e sul mio dolore.

Si asciugò le nocche sporche di sangue sulla divisa e avvicinò l'orecchio alla mia bocca per sentire. L'avrei morso se ne avessi avuto la forza, ma non ne possedevo neanche un briciolo. Tutto d'un tratto si mise a ridacchiare nella maniera più maligna e viscida che avessi mai sentito in tutta la mia esistenza.

Raramente avevo incontrato gente così priva d'animo e d'empatia. Lui era la feccia della società.

«Dovresti ascoltarti. Sei ridicolo, Parisi». E, per suggellare quello che pensava di me, mi diede un pugno dritto sul volto che mi stese più di tutti quelli che mi aveva dato nei precedenti minuti.

Solo così, disteso totalmente sul pavimento, con gli occhi puntati sulla luce che sfarfallava e il sangue che mi scivolava a rivoli sui lati della tempia da chissà quale ferita, riuscii a sentire la mia voce. E mi doleva ammetterlo, ma aveva ragione. Stavo mormorando.

«N-Nerea», continuavo a sussurrare insistentemente.

Ma chi era Nerea?

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