𝗕𝗮𝗺𝗼𝗿𝗮𝗹 𝗖𝗮𝘀𝘁𝗹𝗲

By Theworldsdreamer

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Clayton Burns non ha paura. Clayton Burns non prova nulla. Perché dovrebbe? La sua vita è costruita di facci... More

𝕯𝖊𝖉𝖎𝖈𝖆
𝕴𝖓𝖙𝖗𝖔𝖉𝖚𝖟𝖎𝖔𝖓𝖊
𝖀𝖓𝖔
𝕯𝖚𝖊
𝕿𝖗𝖊
𝕼𝖚𝖆𝖙𝖙𝖗𝖔
𝕮𝖎𝖓𝖖𝖚𝖊
𝕾𝖊𝖎
𝕾𝖊𝖙𝖙𝖊
𝕺𝖙𝖙𝖔
𝕹𝖔𝖛𝖊
𝕯𝖎𝖊𝖈𝖎
𝖀𝖓𝖉𝖏𝖈𝖏
𝕯𝖔𝖉𝖎𝖈𝖎
𝕿𝖗𝖊𝖉𝖎𝖈𝖎
𝕼𝖚𝖆𝖙𝖙𝖔𝖗𝖉𝖎𝖈𝖎
𝕼𝖚𝖎𝖓𝖉𝖎𝖈𝖎
𝕯𝖎𝖈𝖎𝖆𝖘𝖘𝖊𝖙𝖙𝖊
𝕯𝖎𝖈𝖎𝖔𝖙𝖙𝖔
𝕯𝖎𝖈𝖎𝖆𝖓𝖓𝖔𝖛𝖊
𝖁𝖊𝖓𝖙𝖎
𝖁𝖊𝖓𝖙𝖚𝖓𝖔
𝕰𝖕𝖎𝖑𝖔𝖌𝖔

𝕾𝖊𝖉𝖎𝖈𝖎

65 20 39
By Theworldsdreamer

𝐼𝑛 𝑐𝑢𝑖 𝑛𝑜𝑛 𝑐𝑖 𝑎𝑟𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑎𝑚𝑜...

Hazel scosse la testa, ma quando si fermò la stanza era nuovamente sparita e lei era seduta su una scomoda sedia di legno. Non era da Donny, Donny era chiuso per qualche giorno, "affari miei" aveva specificato nel cartello. Alzò la testa e incontrò il viso di Marley che teneva un braccio sulle spalle di Lonnie e gli spettinava i ricci scuri, davanti a loro Nora stava ridendo e Ingrid scuoteva la testa con un sorriso sulle labbra.

Avevano trovato un temporaneo rimpiazzo a Donny. Non le piaceva il posto, era troppo in città per farla sentire a suo agio e troppi sguardi disgustati si soffermavano su lei e Lonnie. Non passò, infatti, troppo tempo prima che ad alcuni commenti infastiditi, seguirono insulti da parte dei clienti bianchi verso di loro. Hazel strinse i denti e Lonnie li guardava, spaesato, ma quando lei fece per alzarsi e andarsene, la sedia di Newt che strisciò contro il pavimento la fermò.

«Tutto quello che hai da dire a lei, lo dici anche a noi.», lo minacciò avvicinandosi all'uomo che più di tutti aveva rincarato la dose.

«Con molto piacere.», replicò lui, ma quando schiuse nuovamente le labbra per parlare il pugno di Newt lo colpì dritto sul naso.

«Prima devi riuscire ad aprire bocca, stronzo.», ringhiò il ragazzo puntando gli occhi blu sull'uomo che premeva le dita sul volto, guardandolo sconvolto.

Come immaginabile, presto la situazione degenerò e gli amici di quest'ultimo si unirono a lui colpendo Newt, costringendo gli altri ragazzi a intervenire in una vera e propria rissa. Fu quando furono buttati fuori che Hazel ebbe effettivamente il coraggio di alzare lo sguardo su tutti loro.

«Cristo, il naso! Oh, merda, che male!», stava urlando Marley seduto sul marciapiede con il sangue che gli colava tra le dita.

Ingrid era piegata verso di lui, con la mano rossa e gonfia per aver restituito il colpo all'uomo che aveva rotto il naso del suo amico. Clay era rimasto in disparte e, adesso, fumava nervoso. Nora, terrorizzata, saltava dall'uno all'altro per assicurarsi che fossero ancora vivi. Lonnie, invece, continuava a fissare il vuoto apparentemente poco turbato dalla situazione. L'avevano difesa, realizzò la ragazza, e non avevano chiesto nulla in cambio.

Newt si avvicinò a lei, che stringeva le braccia al petto, mordendosi il labbro.

«Tutto bene?», le chiese poggiandole una mano sulla spalla. Era il gesto più espansivo che gli avesse mai visto fare.

«Sì.», annuì Hazel nonostante la sua intera espressione suggerisse il contrario.

Le lacrime le pungevano gli occhi, come a voler convincerla a lasciarle andare. Era nervosa, arrabbiata, avvilita. Perché non potevano essere nati come gli altri e andare in giro ovunque volessero? Perché non potevano semplicemente essere normali? Hazel scosse la testa, rimproverando quei pensieri che la portavano a ripugnare ciò che era.

«Loro non capiscono. - aggiunse Newt, riferendosi alle altre persone - Siete diversi, è vero, ma perché deve essere un male? Perché hanno paura, te lo dico io. Quei coglioni...è facile insultare senza conoscere.», borbottò poi, facendola sorridere.

«Grazie.», mormorò Hazel voltandosi verso di lui, appena prima che le passasse un braccio sulle spalle e le facesse appoggiare la testa su di lui.

Newt non parlò più, per il resto della giornata, ma quelle parole Hazel le risentiva ogni volta che incrociava lo sguardo torvo di lui. Aveva mille difetti, era scontroso, irascibile, odiava le parole d'amore, eppure a occhi chiusi non ci avrebbe pensato prima di difenderli ancora e ancora fin quando i suoi pugni avessero smesso di rispondere ai suoi ordini.

Un battito di ciglia, un respiro, ed Hazel era di nuovo sparita. I suoi occhi non stavano più guardando la strada, erano adesso rivolti alla miriade di stelle che li sovrastava, la schiena poggiata sul terreno e i fili d'erba pizzicarle il viso. Spostò il capo, si sentì confusa, incontrò gli occhi azzurri di Wynn - Marley se n'era finalmente andato e un po' di serenità gli aveva raggiunto lo sguardo, ma non era abbastanza - era sdraiata al suo fianco e indossava una gonna che aveva rubato a sua sorella. Al fianco di Wynn era stesa Nora e ancora più in là stava Ingrid, dall'altra parte di Hazel invece c'era Lonnie, seguito da Newt e Clay.

Era uno dei loro posti speciali, la campagna, dove andavano per fuggire dalle luci accecanti della città, da quei fastidiosi riflettori che sembravano sempre illuminare tutti i loro difetti. Si rifugiavano in quel buio dove potevano annullarsi ed essere chiunque altro per una, due, mille altre notti.

«Guardate, siamo noi.», Wynn alzò un braccio e indicò sette minuscole stelle che se ne stavano tutte raggruppate in disparte. Le guance erano arrossate e gli occhi lucidi, dovevano aver bevuto qualcosa prima di ritrovarsi lì.

«E chi altri dovremmo essere?», borbottò Lonnie ruotando il capo verso di lei, ma Hazel era in mezzo così rinunciò a guardarla.

«Le stelle, idiota. - replicò Wynn - Siamo noi sette. Quando moriremo staremo insieme lassù a prendere per il culo tutti quei poveri stolti che passeranno sotto il nostro sguardo.», sorrise e Hazel pensò che avesse un sorriso davvero meraviglioso, contagioso. Non gli aveva mai detto quanto le volesse bene e se ne stupì.

«Mi piace questo pensiero.», mormorò Nora alzando una mano verso il cielo, le dita si mossero pigre come a voler afferrare quel posto riservato a lei e lei soltanto.

«Sì. - continuò Wynn - Quella è la mia e quella a fianco è dove starà Newt...», spiegò con dedizione prima di essere interrotto.

«Perché devo essere quella vicino a te? - chiese Newton - Io non voglio starti vicino anche nella morte, sei una palla al piede.», borbottò puntando il gomito per alzarsi a guardarlo.

«Beh, non puoi andare contro il volere delle stelle, Newtonuccio.», replicò Wynn ammiccando verso di lui e sorridendo di quell'espressione nervosa della quale il buio della notte nascose il rossore.

«Chiederò alle stelle di affittare un altro posto per la mia anima.», disse allora Newt ritornando a sdraiarsi accanto a Clay.

«Mi avete rotto il cazzo. - parlò Ingrid per la prima volta - Newt vivrai il tuo sonno eterno accanto a Wynn senza discussioni.», lo rimproverò puntandogli il dito contro.

«Sono solo delle palle di fuoco.», mormorò Clayton all'improvviso, confuso da tutto il casino e con gli occhi arrossati, irritati da qualsiasi cosa lui e Wynn avessero fumato.

«Rovini sempre l'atmosfera.», borbottò Lonnie e Hazel ricordò di aver riso del tono di suo fratello, dell'espressione di Clay, del viso imbronciato di Newt dopo essere stato zittito da Ingrid e dell'aria soddisfatta di Wynn che continuava a profetizzare come anche nella morte quel gruppo di...C'era una parola per definirli? Sì, c'era sempre una parola: disastri. Wynn era convinto che quel gruppo di disastri sarebbe rimasto unito anche nella morte, perché non avevano nessun altro posto, nessuna altra persona da cui andare, ma questo lo tenne per sé.

«In ogni caso. - aggiunse prendendo la mano di Hazel e sorridendole con gli occhi - Ci sono i nostri nomi lassù.», sussurrò poi afferrando anche quella di Nora.

Hazel non pensava di avere un ricordo più felice di quello, ma le fu strappato, all'improvviso come si strappa un cuore. La sensazione delle dita di Wynn strette alle sue, quelle di Lonnie vibrare dalla felicità, la serenità nel silenzio della notte, la brezza calda che spostava i fili d'erba intorno a loro, tutto svanì ed Hazel era rannicchiata in quella stanza senza porta, con i cadaveri di Clay e Nora.

Qualcosa le sfiorò la coscia e, quando allontanò le dita tremanti dal viso, Wynn e Newt si stringevano la mano riversi sul pavimento a pochissimi centimetri da lei. Urlò ma la voce non le uscì, prese la spalla di Wynn e la scosse, ma la sua testa ciondolò quasi non fosse attaccata al corpo, i singhiozzi riempirono la stanza e Hazel si mise le mani insanguinate tra i capelli. Basta, basta, basta, stava urlando a quella megera che si divertiva a darle un assaggio di libertà per poi sfilargliela con violenza via dalla sua portata.

Hazel si muoveva, adesso, all'interno di una casa. Non era la sua, era di gran lunga più grande e sofisticata per essere casa sua, la sua famiglia non avrebbe mai potuto permettersela. Aveva paura a camminare su quei lucidi pavimenti a guardare le foto di famiglia appese alle pareti e i vasi costosi esposti come ad aspettare che qualcuno li faccia cadere di proposito.

«Sei sicura, Ingrid?», sussurrò come se qualcuno potesse sentirle.

«I miei genitori non ci sono, non preoccuparti.», mormorò la ragazza salendo le scale con sicurezza. I lunghi capelli scuri le ondeggiarono sulla schiena catturano i riflessi del sole che entravano dalla finestra.

Hazel la seguì, in silenzio, continuando a osservare quelle foto dove il volto di Ingrid assumeva sempre la stessa sfumatura triste, al limite della disperazione. Non era mai stata invitata a casa di qualcuno e non si spiegava come Ingrid, tra tutti i loro amici, avesse scelto proprio lei che se fosse stata vista lì avrebbe probabilmente alzato un polverone di pettegolezzi sulla sua famiglia.

«Perché mi hai invitato?», espose ad alta voce i suoi dubbi.

Ingrid non rispose subito, sembrò pensarci prima. Faceva sempre così, Hazel l'aveva notato, non parlava quasi mai e quando lo faceva misurava le parole con estrema attenzione, quasi fossero risorse preziose da non sprecare mai.

«Perché non ho voglia di uscire, ma non voglio restare ancora sola.», le disse mettendo la mano sulla maniglia di una porta che avrebbe condotto alla sua camera. La guardò con gli occhi neri come se potesse leggerci dentro tutte le parole che Ingrid non disse e Hazel avrebbe così tanto voluto farlo, così tanto, ma per quanto ci provasse, per quanto si sforzasse non ne fu in grado.

«Ingrid...», provò a dirle ma la ragazza entrò in camera, invitandola a seguirla.

Fece qualche passo e poi si voltò verso di lei, sorrise ma non era un vero sorriso e Hazel si accorse che non gliene aveva mai visto uno in volto. Ingrid era quella ragazza di cui ci si dimenticava l'esistenza se non si prestava abbastanza attenzione, quella ragazza che, seria e silenziosa, spariva nell'ombra di chiunque altro e Hazel si sentì in colpa per non conoscerla come conosceva tutti gli altri. Hazel si sentiva sempre troppo in alto, per poter prestare attenzione.

«Come...Come ti sei unita al gruppo?», le chiese allora, sedendosi sul tappeto con lei. Non avevano avuto molta occasione di parlare da sole e Hazel avrebbe voluto approfittarne per rimediare ai suoi errori.

«Clay.», mormorò e ad Hazel venne quasi da sorridere. Clay, quel ragazzo menefreghista e distaccato, era il loro denominatore comune, era lui che aveva dato vita a quel gruppo di disastri senza neanche rendersene conto e, forse, anche senza averne l'intenzione. Eppure adesso erano lì ad avere sempre qualcuno a cui sorridere per merito suo.

«Anche io. - sorrise divertita, poi si voltò verso l'amica - Ingrid perché non vuoi stare da sola?», sussurrò poi.

Ingrid parve scossa, abbassò lo sguardo e i lunghi capelli neri le caddero davanti al viso, invitando Hazel a distogliere lo sguardo.

«Perché altrimenti lo farei ancora.», rispose dopo qualche secondo. Respirava piano come se anche i respiri fossero preziosi.

«Che...Che cosa faresti?», il tono di Ingrid non era fermo, ma vacillante come se stesse urlando e chiedendo aiuto prima di cadere.

Ingrid si tirò su le maniche e voltò il capo verso di lei. Allungò le braccia e mostrò a Hazel, per la prima volta, i suoi polsi. Uno era coperto da una fascia bianca, l'altro colmo di cicatrici e tagli freschi che si era autoinflitta. Hazel rimase in silenzio a fissarli, quasi fosse colpa sua tutta quella sofferenza, odiava non essersene accorta.

Allungò le mani e strinse quelle di Ingrid, osservando il contrasto con quella sua pelle pallida. Non le disse nulla, non le chiese niente, non era il momento e lo sapeva. Dagli occhi di Ingrid scese una lacrima e un piccolo sorriso di gratitudine si fece timidamente strada tra le sue labbra. Hazel pianse con lei quel giorno, la strinse a sé come se l'avesse già lasciata andare troppo a lungo, la strinse a sé come se l'avesse riscoperta dopo anni. Si era fidata di lei, e di lei soltanto, abbastanza per mostrarle ciò che le stava accadendo, per mostrarle il motivo dietro tutte quelle maglie eccessivamente lunghe e quegli sguardi assenti.

Hazel lasciò che Ingrid le poggiasse la testa sulle spalle, promettendole che le sarebbe stata affianco qualsiasi cosa sarebbe successa e chiuse gli occhi stringendole ancora le mani. Poi svanì, ancora un'ultima volta.

Hazel era piccola, ancora di più, aveva circa otto anni quando si ritrovò sul letto a piangere. Era triste perché a scuola l'avevano presa in giro, perché era brutta, perché aveva i capelli crespi e ribelli, perché si comportava come se fosse più intelligente di loro, perché non aveva amici. Le lacrime di una bambina valevano poco, era quello che le aveva detto la maestra prima di farla uscire dal bagno e rispedirla in classe.

La porta si aprì e cigolò, ma Hazel non alzò la testa dal cuscino. Alcuni veloci passi si avvicinarono a lei, il respiro pesante di un bambino malato che la stava osservando.

«Zel?», la chiamò.

«Vai via, Lonnie. Non voglio giocare con te adesso!», esclamò lei dopo un singhiozzò.

Ci fu silenzio dopo la sua risposta, poi l'orsacchiotto di peluche, rattoppato mille volte, con tante cuciture a fargli da cicatrici di guerra, salto sul letto dopo il lancio del bambino. Lonnie si arrampicò dietro di lui, stringendo con le piccole dita le coperte per tirarsi su. Hazel aprì un occhio, guardando quel testardo fratellino dai ricci spettinati, aveva perso sangue dal naso, quindi era ancora un po' sporco, ma c'era un piccolo sorriso tra le sue labbra.

«Ti hanno preso in giro di nuovo perché non hai amici?», le chiese stringendo l'orsacchiotto tra le braccia troppo magre anche per un bambino. Quell'innocenza tipica che sembrò non abbandonargli mai lo sguardo.

«Ti ho detto di andare via.», borbottò Hazel.

«Io sono tuo amico.», continuò Lonnie abbassandosi per guardarla negli occhi. Hazel osservò quel color nocciola delle sue iridi e poi aggrottò le sopracciglia.

«Sei mio fratello. - gli disse spingendolo via - Sei costretto a essere mio amico.», spiegò poi asciugandosi le lacrime sulle guance.

«No! Non è vero. - si arrabbiò Lonnie - Io sono tuo amico perché ti voglio bene e sono tutti stupidi quelli che non te ne vogliono.», le disse, con quel buffo modo di pronunciare le "s" per via del dente che gli era caduto proprio quella mattina. Hazel lo guardò con quell'espressione che facevano sempre i bambini mentre elaboravano le parole che sentivano, il cuore della Hazel spettatrice, però, si scaldò di fronte a quel ricordo che sembrava aver perso.

«Davvero?», gli chiese sedendosi di fronte a lui, Lonnie annuì con energia.

«Anche Mr. Tea lo dice.», alzò l'orsacchiotto come se fosse la prova più valida di tutte e Hazel sembrò tranquillizzarsi prima di afferrare la sua bambola e giocare con il fratello, come se tutto fosse stato soltanto un momento.

Hazel però realizzò che non fu soltanto un momento, che Lonnie fu il suo appoggio sempre. Quando lei credeva di stargli accanto nei momenti difficili, era lui a sorriderle per tranquillizzarla, era lui a stringerle la mano, era lui a sussurrarle parole di conforto, ma lei fu sempre troppo cieca, troppo concentrata su se stessa per poterlo notare. Il cuore iniziò a batterle velocemente, devo trovarlo e chiedergli scusa. Nella sua mente si susseguirono immagini di loro due che litigavano per le più futili questioni, che si rubavano gli oggetti, che correvano dalla madre per sapere chi aveva ragione, vide loro due crescere durante gli anni, vide Lonnie superarla in altezza, vide Lonnie avvicinarsi ad altre persone, vide Lonnie sorridere con qualcun altro e lei ne era così fiera, così grata per quella felicità che mai gli aveva detto grazie per quello che era stato.

Hazel ritornò, per l'ultima volta, in quella stanza. Non aprì gli occhi perché non voleva vedere, sapeva che cosa avrebbe trovato e strinse le palpebre ancora più forte.

«Hazel?», la voce di Lonnie, debole, spezzata, fu quella a distruggerla. Aprì gli occhi e Lonnie giaceva al centro della stanza in una pozza di sangue, la mano allungata verso di lei e un coltello piantato sulla schiena che stava per essere estratto sotto gli occhi scioccati di Hazel.

Ingrid teneva le dita intorno al manico e guardava con le mani, i vestiti e il viso colmi di sangue non suo, quei corpi che lei aveva ucciso, che lei aveva visto morire. Sembrava soddisfatta, sulle guance gocce ancora fresche scendevano sulla pelle come lacrime fino a colorarle le labbra di rosso. Hazel urlò e singhiozzò ancora più forte di prima. È stata lei Hazel, li ha uccisi tutti, la voce di quella ragazza le rimbombò nella testa, vendicati.

Non è vero, non è vero, si aggrappò alla calma di Clay, alla lealtà di Nora, alla protezione di Newt, al cuore di Wynn, alla fiducia di Ingrid e all'ottimismo di Lonnie, al suo sorriso, al suo appoggio. Non è vero! Aveva ancora molte parole non dette per quel gruppo di ragazzi, aveva ancora molti grazie nascosti che mai aveva tirato fuori e lei non poteva permettersi di lasciarli andare in questo modo.

Si alzò, tremante, e urlò verso Ingrid prima di spingerla e farle perdere l'equilibrio. La ragazza si aggrappò alle sue braccia stringendo tanto da piantarle le unghie nella carne.

«Ingrid!», urlò Hazel tra le lacrime, mentre il coltello scivolava lontano e lei cercava di bloccarla al pavimento. Il sangue le inzuppò i capelli, facendola apparire ancora più pericolosa di quanto in realtà fosse.

«Lasciami andare, lasciami andare!», gridò Ingrid di rimando, sbattendo la testa e stringendo la presa sulla sua pelle fino a farle aprire la bocca per il dolore, le ginocchia di Hazel si puntarono ai suoi fianchi.

«Non lascerò che vinca lei! - pianse Hazel prendendole il viso tra le mani - Sono Hazel, Ingrid, e non ti permetto di arrenderti in questo modo. Mi hai sentito? Combatti, Ingrid!», le disse guardandola negli occhi assenti, scuotendola fino a quando una piccolissima scintilla non riuscì a riaccendersi.

«Tu sei molto più di una marionetta, tu sei forte, sei mia amica Ingrid. - le ricordò Hazel tra le lacrime - Usciremo di qui insieme, io, te e tutti gli altri. Quelle stelle non ci avranno, non ancora.», le disse poi mentre Ingrid lentamente sembrò svegliarsi da un sogno, stringendo quella corda che era la voce di Hazel e tirando tanto da sfilarsi alla presa di Constance.

«Haz...», trovò la forza di sussurrare prima che una smorfia di dolore le facesse contorcere i lineamenti.

Constance urlò, furiosa, mentre Hazel aiutava Ingrid ad alzarsi, con le gambe e le braccia che le tremavano. I corpi intorno a loro erano svaniti, il sangue però era ancora lì, colava dalla ferita che Ingrid si era inflitta da sola alla gamba e le imbrattava le mani e i vestiti.

«Andiamocene via di qui.», Hazel vide una porta comparire all'improvviso e tenendo Ingrid mentre piangeva dal dolore si allontanò in fretta con la mente ancora abbastanza leggera da rischiare che Constance ci mettesse nuovamente le mani sopra.

Cercò di rimanere concentrata e si aggrappò a quelle sensazioni che in quel momento la rendevano viva. La paura, il dolore, l'odore di polvere e sangue, i lamenti di Ingrid nelle orecchie. Erano ancora lì, entrambe. Seguirono corridoi e a corridoi seguirono stanze e alle stanze seguirono scale, ma quando all'improvviso si ritrovarono di fronte all'ultima enorme camera, Hazel si lasciò andare in un tremante sospiro di sollievo con le ginocchia che tremavano sotto il peso di Ingrid che non era più in grado di reggere.

C'era qualcuno che dava loro le spalle, qualcuno che fece scendere lacrime di gioia lungo le guance di Hazel, qualcuno che finalmente avrebbe potuto stringere a sé e al quale avrebbe potuto mostrare quelle parole non dette.

«Newt!»

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