La Ruota degli Angeli

By Lightning070

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Napoli, 1934. Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato... More

Premessa
I. Un po' di freddo (certo male non fa) - Parte 1
I. Un po' di freddo (certo male non fa) - Parte 2
II. La nostra buona stella (è la peggiore tra le luci) - Parte 1
II. La nostra buona stella (è la peggiore tra le luci) - Parte 2
III. La più grande libertà (è quella che ci tiene in catene) - Parte 1
III. La più grande libertà (è quella che ci tiene in catene) - Parte 2
IV. C'è tutto il mondo (tra la culla e la fossa) - Parte 1
V. La luce delle lanterne (e quella delle lampare) - Parte 1
V. La luce delle lanterne (e quella delle lampare) - Parte 2
VI. Le lacrime dell'Inferno (servono a qualcosa) - Parte 1
VI. Le lacrime dell'Inferno (servono a qualcosa) - Parte 2
VII. Paese reale (di sudditi e re) - Parte 1
VII. Paese reale (di sudditi e re) - Parte 2
VIII. Chi per strada va (per strada muore) - Parte 1
VIII. Chi per strada va (per strada muore) - Parte 2
IX. Le ultime volte (non bussano alla porta) - Parte 1
IX. Le ultime volte (non bussano alla porta) - Parte 2
X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 1
X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 2
X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 3
XI. Apriti cielo (e manda un po' di sole) - Parte 1
XI. Apriti cielo (e manda un po' di sole) - Parte 2
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 1
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 2
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 3
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 4
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 1
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 2
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 3
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 4
XIV. Io ti terrò la mano (tu tienimi l'anima) - Parte 1
XIV. Io ti terrò la mano (tu tienimi l'anima) - Parte 2
XIV. Io ti terrò la mano (tu tienimi l'anima) - Parte 3
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 1
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 2
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 3
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 4
XVI. Vittoria (ma com'è piccola, ma com'è fragile) - Parte 1
XVI. Vittoria (ma com'è piccola, ma com'è fragile) - Parte 2

IV. C'è tutto il mondo (tra la culla e la fossa) - Parte 2

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By Lightning070


          «Come sarebbe a dire, che non volete interrogare Iannello?»

Maione non avrebbe potuto essere più sorpreso se gli avesse detto di voler dare le dimissioni per partire per la Libia e darsi lì a una nuova vita d'agi.

«Non ho detto di non volerlo interrogare,» lo corregge Ricciardi. Cammina a passo tranquillo sotto la pioggerella insistente, frenando quello invece scalpitante del brigadiere accanto a lui. «Ho detto che non ho alcuna fretta di convocarlo.»

«Ma se sta scappando in America, commissa'!» sbotta lui, tentando di nuovo di accelerare l'andatura e rinunciando quando lui non lo asseconda.

«Non direi che sta scappando, o lo avrebbe già fatto da tempo. Il furto risale a tre settimane fa, aveva tutto il tempo di rivendere i beni, comprare un biglietto e imbarcarsi su uno dei bastimenti in partenza ogni settimana,» replica lui, per poi guardarlo fisso. «O pensi che Iannello abbia svaligiato anche le altre case e ammazzato Gigliolo a quel modo, mingherlino com'è, senza lavoro e con quattro figli a carico?»

Maione, a quella domanda, richiude la bocca e tace, colto in fallo.

«Il fatto che i furti siano collegati è una supposizione. Di quella nullità tonante di De Blasio, per giunta,» aggiunge, come se quello fosse motivo sufficiente per screditarla.

«Pure un orologio rotto segna l'ora giusta due volte al dì,» ribatte lui, certo di mandarlo su di giri; e infatti Maione gonfia le guance, borbottando un "ma che mi tocca sentire" soffocato.

Un improvviso rovescio di pioggia tronca il loro confronto e li costringe a spiccare in una breve corsa, fino alle ombre del porticato più vicino, dove si fermano in attesa che spiova un poco. Cascatelle d'acqua si riversano oltre il cornicione, allagando il pavé in discesa con torrentelli impetuosi.

«Maio', non ho detto che voglio lasciarlo a piede libero,» riprende Ricciardi, tamponandosi i capelli umidi e ormai semi disfatti con una manica del soprabito. «Abbiamo un margine di tre giorni prima del prossimo transatlantico. Appena rientriamo in Questura, telefono al porto e faccio mettere Iannello in stato di fermo, poi lo interrogherò con calma. Ma a me non interessa arrestare una persona che ha rubato due spiccioli, per poi essere licenziato per tutt'altro crimine.»

Maione sospira in silenzio. Non contesta, né si mostra contrariato. Sono entrambi consapevoli che far arrestare Iannello metterebbe per strada l'intera famiglia, già costretta in miseria dal licenziamento. Non sono i primi ex-dipendenti delle famiglie derubate che versano in quelle condizioni, in costante affanno tra lavoretti malpagati e piccole delinquenze, per far quadrare i conti dopo aver perso l'unico introito sicuro.

«Commissario, mi pare evidente che, con questi presupposti, non riteniate sia stato nessuno della servitù o dei domestici,» dice infine il brigadiere, esprimendo il pensiero che corrode Ricciardi dall'inizio del caso.

Incrocia le braccia, lo sguardo fisso sui nastri di pioggia oltre il porticato.

«Non speravo di incriminare nessuno di loro, venendoli a questionare,» confessa poi, a mezza voce. «Al contrario, contavo di scovare dettagli che ci indirizzassero verso qualcun altro, di esterno; anche se all'inizio ero convinto anch'io di dover cercare più vicino alle mura domestiche. Qui, però, c'entra qualcuno che ci ha preso gusto a rapinare la gente, e che non è affatto un poveraccio, né un domestico che semplicemente coglie un'occasione favorevole. No, Maione, questo è un ladro con un metodo e con una logica che però noi non riusciamo ancora a vedere,» ragiona ad alta voce, per poi esitare brevemente. «Non è nemmeno detto che sia una persona sola.»

Maione gira il busto verso di lui, bloccandosi a metà del gesto di scrollar via l'acqua dal berretto.

«Quindi, mo' dobbiamo cercare pure più d'un delinquente?»

Ricciardi scuote la testa, stringendosi la radice del naso tra le dita quando avverte un principio di emicrania; oppure, di semplice sonno, dato che è in piedi da quasi ventiquattr'ore filate con qualche mezz'ora di riposo frammentaria nel mezzo.

«Parlando con Bruno, abbiamo concluso che è possibile ci fosse più di una persona sulla scena del delitto di Gigliolo,» gli conferma lui, suscitando un'alzata d'occhi al cielo dal suo collega e un "ti pareva" rassegnato mentre si riaggiusta la visiera.

«Abbiamo sbagliato direzione,» ammette Ricciardi, storcendo un angolo delle labbra. «Ci conviene terminare il giro di interrogatori dei domestici e poi, domani, tornare alla carica con le tre famiglie derubate.»

«Beh, almeno loro qualcosa possono dircelo, al contrario di Gigliolo,» commenta Maione, annuendo mesto. «Se davvero c'è la stessa mano dietro, commissario. Vi ricordo, idea di De Blasio...»

«Lo so, Maio'» lo tronca Ricciardi, lievemente esasperato. «Magari stiamo davvero prendendo lucciole per lanterne, ma è sempre meglio che non vedere né le une, né le altre.»

Maione bofonchia qualcosa tra sé che non sembra troppo accomodante, e Ricciardi si massaggia con insistenza le tempie, un po' pentito del suo tono brusco. Ha veramente bisogno di dormire, se comincia a prendersela pure con Maione.

La pioggia, dopo una decina di minuti, dà cenno di volersi quietare un poco. Ne approfittano per dirigersi alla svelta verso la successiva abitazione. Superano il Duomo, affollato per la messa pomeridiana, e imboccano un vicoletto dopo l'altro in direzione del Rione Forcella, man mano che le nubi si aprono, facendo spazio a un cielo ancora ceruleo. Sono quasi le cinque del pomeriggio passate e, in basso, per quanto visibile nella scacchiera degli alti palazzi stretti tra loro, inizia a virare su toni più caldi in attesa del tramonto.

«Io quello che non mi spiego,» dice Ricciardi nei pressi dell'Annunziata, più tra sé che rivolto a Maione, «è come fa questo ladro a introdursi dall'esterno senza lasciar traccia, né esser visto o sentito, ogni singola volta. Pure che fossero persone diverse e furti diversi... come diamine hanno fatto a non farsi beccare?»

Non vuole dirlo ad alta voce, ma è quasi come fosse un fantasma. Dopo le ultime stranezze della sua maledizione, non vuole nemmeno pensare a quell'eventualità. Si sente già abbastanza pazzo così.

«Potrei capire una, anche due abitazioni... ma quattro?» butta fuori un respiro secco, frustrato.

Si pianta le dita sulle palpebre, stropicciandole, quasi a punirsi per non riuscire a venirne a capo; è deconcentrato e il pensiero di non riuscire a dormire per colpa della voce lo agita ancor di più. Gli pare di sentirla pure ora, in sottofondo al cicalio delle strade affollate.

«Che vi devo dire, commissa',» sospira Maione, allargando le braccia e rivolgendo gli occhi al cielo con fare teatrale. «Sarà stato o' Munaciello

Ricciardi inchioda nei propri passi, con una schicchera elettrica che gli corre lungo la spina dorsale. Volta il capo verso Maione.

«Che hai detto, scusa?»

Il brigadiere si ferma a sua volta, già un paio di passi avanti a lui. Pare d'un tratto imbarazzato e tira un sorriso un po' colpevole.

«Mah, niente, era solo un modo di dire... Non badateci, intendevo che sarà stato il vento, o-»

«O il "Munaciello"?» insiste Ricciardi, scandendo quel nome, conscio di dover sembrare lento di comprendonio. «E chi sarebbe?»

Maione sgrana gli occhi, come se avesse sentito un'assurdità, per poi ricomporsi alla svelta.

«Perdonatemi, io mi scordo sempre che voi non siete cresciuto qui a Napoli,» sorride, perplesso, ma fortunatamente ignaro del tumulto che quel semplice nome gli ha provocato. «È una leggenda, nulla di più. Una superstizione a noi però molto cara.»

«Eh, appunto perché non sono cresciuto a Napoli, sarei molto curioso di sentirla, questa superstizione,» lo incalza, affatto discreto. «Se t'è venuto in mente, c'entrerà col caso, no?»

In verità, non gliene frega nulla del caso, in questo momento. Vede solo lo spiraglio di luce inconsapevolmente offerto da Maione e vi si lancia contro alla cieca, col ricordo di quella voce che gli si arrampica lungo il collo.

«Va' via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Maione si sta chiaramente insospettendo, a tutta quella sua insistenza, ma lo asseconda, pur circospetto:

«Sì, c'entra, ma sarebbe una spiegazione piuttosto improbabile. È una leggenda, un'entità di fantasia che vive sotto le case di Napoli...»

Poi s'acciglia, d'un tratto meditabondo, come se gli fosse sovvenuto qualcosa. Ricciardi lo guarda fisso negli occhi, che si sono fatti pensosi, di un azzurro più opaco sotto la tesa del berretto. Si sente sull'orlo del precipizio, dove, se Maione dovesse mai chiedergli qualche lecita spiegazione in più, è certo che finirebbe per tradirsi e apparire come pazzo.

«Improbabile, ma non impossibile?» gli chiede infine, osservando la reazione del suo collega, che è incerta.

«Impossibile, non saprei, ma...» scrolla le spalle, poi tende una mano davanti a loro, a fargli cenno di riprendere il cammino. «Andiamo con ordine e ditemi che ne pensate, d'accordo?»

Nel chiudersi la porta d'ingresso alle spalle, Ricciardi non prova un briciolo del sollievo che di solito lo investe nel potersi rifugiare tra le quattro mura di casa sua, dopo l'ennesima giornata passata alla mercé delle bassezze umane e degli spettri che si lasciano dietro.

Dalle scale, gli arriva incessante la voce fantasma. Ora che ne conosce le parole, riesce a sentirle chiaramente fin da lì, riconoscendone l'ondulazione e il timbro, pur distorte.

«Va' via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Si ferma nell'ingresso, mezzo poggiato alla madia, una mano premuta sul volto nella vana speranza che possa attutire in qualche modo quel richiamo; lo zigomo gli pulsa, dolorosamente fastidioso, la testa gli martella dall'interno. Si sente come se l'avessero privato dell'unico rifugio sicuro che ha sempre avuto dalla propria maledizione; anche se chiudere fuori il mondo era solo un'illusoria pace, destinata a essere interrotta al mattino.

Sono solo le otto e mezza di sera e si sente stremato, logorato fino al midollo e fradicio sia negli abiti che nell'animo. Non è andato alla Sanità da Bambinella, né a San Raffaele da Don Pierino, né con Bruno in trattoria. Si è limitato a concludere il giro di interrogatori con Maione, infruttuoso come prevedeva, a delegargli il compito di contattare il porto e d'informarsi agli Invalidi e Mutilati di Guerra, e a dirigersi poi a casa in fretta e furia manco avesse il diavolo alle calcagna.

Per poi ritrovarsi piantato lì, immobile, con un groppo alla gola che lo strangola.

Sa cosa dovrebbe fare ed è l'unica e sola cosa che dovrebbe fare in questo istante, ma avverte un freno fisico, una barriera contro cui si ritrova a premere. È la barriera del buonsenso, che gli dice di non poter agire in alcun modo senza attirare sospetti su di sé. Senza ritrovarsi a percorrere un lungo corridoio bianco, come ha già visto fare a sua madre da bambino. Scaccia l'immagine fin troppo nitida, ancorata nella memoria come erba gramigna.

Adesso che ha parlato con Maione, avrebbe forse una labile scusa per indagare su quella voce sotterranea; ha una connessione, seppur astrusa, col caso in corso, ma essa è un racconto popolare. Non è certo che il vicequestore apprezzerebbe quella linea d'indagine bislacca più della sua abilità di vedere spettri, se mai dovesse scoprirla.

In testa, simili a biglie rumorose, continuano a rimestarsi le parole del brigadiere, quella storia sospesa tra superstizione, leggenda e realtà che gli ha offerto col riso a fior di labbra, bollandola come una favola a cui si crede perché, dopotutto, non costa niente farlo.

Il Munaciello. Il sottosuolo di Napoli. I pozzari. I cunicoli, le cisterne, le catacombe. I furti senza effrazione. Tutto si ricollega in un reticolo perfettamente articolato, una ragnatela di dettagli di cui sa di poter venire a capo; se solo la sua testa riuscisse a concentrarsi sulle rapine, sull'omicidio di Gigliolo, e non sulla voce seppellita proprio sotto di lui.

«Ma che ci fate lì impalato?»

Ricciardi non trattiene un sobbalzo, quando la voce di Nelide lo raggiunge. Alza lo sguardo, ricomponendosi all'istante, e trova la domestica che lo fissa con apprensione.

«Buonasera, Nelide,» la saluta, cercando di suonare naturale; e fallendo.

«Vi duole l'acciacco?» chiede lei, avvicinandosi subito. «Vi siete fatto vedere dal dottor Modo, sì?»

«Sì, sì,» la rassicura, lasciandosi sfilare il soprabito. «È un graffio, guarirà da sé. Sono solo un po' affaticato, è stata una giornata lunga.»

«Lo credo bene, siete zuppo,» ribatte pronta lei, tastando l'indumento con fare contrariato. «Se poi vi ostinate a non mettere il cappello... e dire che ne tenete tanti! 'A lanterna mano ai cecati!»

Proferita quella sentenza, gli fa un cenno verso il salotto.

«Venite, che v'ho preparato qualcosa di caldo.»

La tavola è apparecchiata, con una pentola fumante di quella che, dall'odore celestiale, sembra pasta e patate. Nonostante la fame innegabile, gli si chiude lo stomaco al solo pensiero di mangiare.

«Grazie, Nelide, ma stasera non ceno.» Lei lo fissa come se le avesse detto che per aria, da oggi, per ordine del Duce volano i somari; lui abbozza un sorriso di scuse. «Perdonami, Nelide, non me ne volere. Vado diritto a riposare, ché ne ho proprio bisogno.»

«Io ve la rimetto sulla stufa in caldo, così se poi cambiate idea sta lì,» ribatte infine lei, recuperando il tegame e sparendo poi in cucina, visibilmente esasperata dai suoi digiuni.

Ricciardi tergiversa ancora per qualche istante in salotto, prima di decidersi a entrare in camera propria. La voce lo investe, impossibilmente più forte rispetto a quella mattina.

«Va' via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Si chiede se, a questo punto, non se la stia immaginando. O se il suo cervello non stia amplificando ogni parola cento, mille volte; o se, invece, non sia la voce stessa a diventare sempre più forte di sua volontà. Qualcosa di pesante e spinoso gli si agita nel petto a quella possibilità, togliendogli il respiro. Non può accadere. Non dovrebbe poter accadere.

Ma cosa ne sa lui, in fondo, di come funzioni la sua maledizione? Se non possa evolvere nel tempo, peggiorare, divenire un vischio infestante che gli consuma la psiche fino a privarlo del senno? Che ne sa lui se sua madre, sotto la patina di normalità, non fosse stata invero divorata dalla follia, quando l'hanno ricoverata?

Nello sciogliersi la cravatta, si rende conto che gli tremano le mani, e le serra sul tessuto liscio fino a farsi dolere le nocche.

«Va' via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Esiste davvero, il fantasma che pronuncia quelle parole, o è solo nella sua testa?

Si siede sulla sponda del letto, domando l'istinto di prendere a camminare su e giù per la stanza come un nevrotico, o qualcuno sull'orlo di una psicosi. Forse lo è, dopotutto. I segni ci sono tutti, dalla paranoia, alle voci inesistenti, alla carenza di rapporti umani; e non vuole, non vuole pensare pure a ciò che lo spinge nelle braccia di Bruno piuttosto che di una donna, perché sarebbe come fabbricarsi con le proprie mani un biglietto di sola andata per il manicomio.

Prende a svestirsi con gesti innaturali, forzandosi, consapevole con non ruberà un minuto di sonno alla notte; non con quella voce che, nel silenzio, risuonerà assordante. Con quel corpo che, da qualche parte là sotto, continua a marcire, a marcire; mentre lui se ne sta lì, vivo, con tutti i mezzi per trovarlo, a esitare solo perché ha paura.

«Va' via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Gli si appanna la vista e arresta i suoi gesti convulsi, rimanendo seduto lì, con la camicia e il panciotto slacciati, i pantaloni alle caviglie e un piede scalzo, scomposto come non lo è mai.

Il calore che gli si arrampica sulla schiena in un formicolio spiacevole è vergogna, nuda e bollente.

Non è diventato commissario di polizia per rifuggire una richiesta d'aiuto, nemmeno quella di un morto. Anzi, sono proprio i morti che l'hanno spinto su questa strada quando era poco più di un ragazzo. Perché, la prima volta che ha visto svanire un fantasma davanti ai propri occhi, dopo aver trovato la mano che l'ha tolto alla vita e avergli fatto giustizia, ha sentito che quella maledizione, forse, uno scopo contorto ce l'aveva. Che non era del tutto inutile o fine a se stessa, anche se non è mai riuscito a vederla come un dono.

Tira un respiro profondo, spaccapolmoni, avvertendo il retrogusto di sale in fondo alla gola. Lo butta fuori con un tremito, col sangue che gli romba nelle orecchie, confuso alla voce che continua a cantilenare, vicinissima. Lo chiama, gli chiede aiuto, a lui solo che può sentirla:

«Va' via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Non può lasciarla lì. Non un'ora, non un minuto di più.

Si alza di scatto dal letto sentendosi febbricitante, con la vista sfocata. Si riabbottona la camicia e calza di nuovo la scarpa che si è appena tolto, rivestendosi in fretta e furia e uscendo poi dalla stanza mentre ancora si sta ficcando alla rinfusa la camicia nei pantaloni.

«Nelide!» la chiama a gran voce, senza nemmeno sapere cosa dirà: lascia il timone all'istinto.

Si ode un frastuono di pentolame che cade nel lavello e la giovane accorre allarmata dalla cucina, asciugandosi le mani sul grembiule.

«Madonna mia, che c'è? Che accade?»

Il suo sguardo si fa perplesso nel vederlo così in disarnese, senza cravatta né giacca e col panciotto aggiustato alla bell'è meglio.

«Ho bisogno che tu mi faccia un piacere,» dice lui, continuando a trovare una parola per volta intanto che parla.

«Eh, ditemi... ma non vi stavate coricando?»

«No, perché dobbiamo uscire, ora,» le fa cenno di recuperare il cappotto, mentre lui infila il soprabito e se lo lega in vita senza curarsi di rassettarlo.

Nelide lo fissa con occhi sbarrati.

«Ma vi sentite bene? Debbo chiamare un medico, un...»

«Nelide, stammi a sentire.» Le si fa incontro, alzando le mani a placarla. «Tu devi andare fino a casa del brigadiere Maione. Sai dove abita, vero? Te l'ho mostrato quando sei venuta a Napoli.»

Nelide annuisce, poi si toglie il grembiule e lo poggia su una sedia, esitando ancora in salotto. Accetta d'istinto il cappotto che lui le porge, in un'inversione di ruoli che pare confonderla ancor di più.

«Sì, sì, sta a Montecalvario, vicino al banco lotto,» risponde poi rapida, infilando l'indumento e prendendo la sporta di vimini dalla madia in un gesto mosso dall'abitudine, più che dall'utilità. «E che gli devo mai dire di così urgente?»

«Di venire qui, che è una questione importante e che gli spiego tutto quando arriva. Poi mi scuso io con lui per l'orario. Ce l'abbiamo una torcia o una lanterna?» chiede poi, arrestandosi nel disimpegno.

«Mi pare di sì, c'è una lanterna da qualche parte nel ripostiglio, ma mica so se funziona...»

«Di' a Maione di portarne una per sicurezza,» conclude lui.

Apre la porta d'ingresso e le fa cenno di uscire. Al che, lei si ferma a due passi dalla soglia, proprio davanti a lui, con gli occhi neri e acuti che lo trapassano mentre cerca di raccapezzarsi.

«E voi dov'è che andate?» indaga, caparbia come un mulo che ha avvertito un punto di strada cedevole e si rifiuta di avanzare.

«Dal dottor Modo, ché mi serve pure lui,» dice, sospingendola con gentilezza oltre la soglia con una mano sulla schiena. «Così facciamo prima; più o meno dovremmo metterci lo stesso tempo ad andare e tornare.»

«Madonna santa, ma che è accaduto?» sbotta lei, scendendo affannata le scale, e stavolta vi è una nota di panico nella sua voce di solito così compassata.

Ricciardi si ferma accanto a lei ai piedi delle scale, dove la voce lo raggiunge con più chiarezza, angosciante. Se la sente nel cervello, e forse è proprio così.

«Va' via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Prende un respiro profondo, che non fa che aumentare l'apprensione della sua domestica.

«Te lo spiego dopo, Nelide. Fidati di me, va bene?» la prega, stringendole con delicatezza il braccio a rincuorarla.

«Io mi fido pure, ma accussì faceste pigghiare il patema d'animo pure ai santi.»

A Ricciardi scappa un sorriso minuscolo, che spera possa rassicurarla.

«Lo so, ma tu per fortuna hai più pazienza di loro,» ribatte, per poi farsi più serio. «Non è ancora così tardi, ma rimani sempre sulle strade illuminate.»

«Non v'angustiate, che ci so badare, a me stessa,» replica lei, stringendo il braccio sulla sporta e mettendo su quel cipiglio determinato che gli ricorda sempre Rosa quand'era giovane.

«Se così non fosse, non ti manderei mai da sola,» ribatte lui, sentendosi comunque in colpa a farlo. «Mi raccomando, non t'attardare.»

Lei annuisce con un cenno secco del capo, camminando rapida accanto a lui nei coni di luce dei lampioni col passo di un militare navigato. Si separano al primo incrocio, lei diretta verso Montecalvario, lui verso i Quartieri Spagnoli, più lontani; e accidenti a Bruno che non si decide a muoversi da lì.

Sarà facile evitare di dare troppe spiegazioni a Maione che, sotto lo strato di scetticismo e apparente noncuranza, si fida di lui così ciecamente da causargli quasi apprensione.

Con Bruno, invece, sarà tutta un'altra storia. Gli peggiora il mal di testa solo al pensiero di dovergli spiegare perché deve venire con lui a quell'ora della notte. Sarebbe più facile rivelargli tutto, ma è un qualcosa che ha giurato di non fare mai, con nessuno, per nessun motivo al mondo.

Potrebbe aspettare di far partire l'indagine; allora, lo chiamerebbero per vie ufficiali, perché un morto ammazzato là sotto c'è per forza, e si toglierebbe d'impaccio. Non è nemmeno davvero necessaria la sua presenza nell'immediato. Gli basta Maione, gli basta un qualunque membro della polizia accanto. Potrebbe attendere ed evitarsi una conversazione scomoda.

Imbocca quasi correndo Via Roma, deserta e immobile nell'aria pungente della notte, striata dei fumi dei camini. Non rallenta il passo, pur ormai senza fiato per la leggera salita, schiacciando quei pensieri sul fondo della mente. Sta probabilmente compiendo l'atto più stupido e pericoloso della sua vita, tra il rischio di venir preso per pazzo, quello di essere accusato di un crimine, e quello di farsi vedere a casa di Bruno a quell'ora della notte.

La verità è che non c'è alcuna motivazione razionale per bussare alla sua porta in quel momento; così come non c'è una motivazione razionale se sorride quando lo vede, o se gli manca quando non c'è. Ma la verità, e lo ammette con un singulto al cuore che lo squassa, è che lui, di quel fantasma che alberga nelle viscere del sottosuolo, ha paura come non ne ha mai avuta prima, e non vuole fronteggiarlo da solo.

Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
eccoci arrivati al punto di svolta **
Il prossimo capitolo è uno dei miei preferiti in assoluto, e spero davvero che possa piacervi almeno quanto è piaciuto a me scriverlo <3

Non vi preoccupate: tutti i nodi del caso verranno al pettine, e posso dirvi che non tutte le piste giuste sono giuste e non tutte le piste sbagliate sono sbagliate. Credetemi, per stiamo solo grattando la superficie del caso *eheh*

Noticine storiche: ricordo che all'epoca avere un telefono a casa non era affatto scontato, per questo c'è la necessità di recarsi di persona da Bruno e Maione.
A parte questo, l'omosessualità veniva ancora considerata malattia mentale, quindi la paura di essere internato in manicomio di Ricciardi è tristemente coerente (oltre al fatto che pure vedere i morti non gioca a suo vantaggio, dovesse saltar fuori come fatto).
Per quanto riguarda il Munaciello, vi consiglio di NON cercare su internet. Non volevo fare lo spiegotto tramite Maione, quindi ho rimandato i dettagli al prossimo capitolo, ma vi assicuro che tutto verrà chiarito, e che la confusione che (spero) provate adesso è assolutamente voluta ;)

Se vi state chiedendo perché questo fantasma abbia regole e meccanismi tutti suoi... arriveranno anche quelle spiegazioni. Pazientate :P

Spero vi sia piaciuto il capitolo <3
A lunedì col prossimo e lasciate una stellina, o un commentino per farmi sapere cosa ne pensate!

-Light-


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