The Not Heard

By azurahelianthus

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⛓️ DARK ROMANCE AUTOCONCLUSIVO ⛓️ Ci sono vendette che non hanno tempo e sbagli per cui non esiste redenzione... More

𝐓𝐇𝐄 𝐍𝐎𝐓 𝐇𝐄𝐀𝐑𝐃
𝐏𝐑𝐎𝐋𝐎𝐆𝐎
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𝐄𝐏𝐈𝐋𝐎𝐆𝐎
𝐋𝐀 𝐋𝐄𝐓𝐓𝐄𝐑𝐀

XXIII

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By azurahelianthus

Lysander

La maggior parte della gente mi annoiava da morire. Ecco perché mi trovavo nella piccola stanza adibita a "sala relax" per le guardie con le mani nascoste dentro le tasche, osservando con pigrizia i colleghi che mi passavano a fianco. 

Che barba, che noia. Che barba, che noia.

Avevo anche cercato di disturbare Nerea, mandandole degli sms provocatori sulla sua relazione nascosta, perché questo era, ma non era andata come desideravo. Mi stava ignorando, troppo occupata a rimettere insieme i pezzi e le prove per chiedere uno sconto di pena per lui per riuscire a badare anche a me e alla mia perenne noia.

«Salah, è il tuo turno. Va' pure a pranzare». Vince mi diede una pacca affettuosa sulla spalla, cosa che mi infastidì particolarmente. Dovevo essere mentalmente preparato a ricevere del contatto fisico per riuscire ad apprezzarlo.

Tuttavia sorrisi e annuii. «Okay».

Con una mano controllai che la pistola fosse ancora al suo posto, nella fondina, e nascosi le mani nella tasca della divisa mentre lo sorpassavo diretto all'esterno della prigione. Appena misi piede fuori, con la scarpa che affondava nello strato alto di neve, qualche fiocco iniziò a cadermi in testa e ad incastrarsi fra i miei riccioli scuri e corti.

Il dolore al petto fu inevitabile nel ricordare quanto a lei piacesse fotografare i fiocchi di neve con la macro. Storsi il naso e continuai a camminare, anche se mi pesava farlo, perché era quello che si doveva fare: andare avanti, sempre.

«Stai cercando di prenderti una polmonite per ottenere altre vacanze?». Voltai la testa e la prima cosa che notai fu come il beige del velo si abbinasse perfettamente al suo viso. «Dovresti indossare un cappotto, l'ipotermia non è un fattore da sottovalutare».

Battei le palpebre più volte, piacevolmente sorpreso dal fatto che si preoccupasse di non farmi finire in ipotermia. La sua bellezza mi rapì per qualche secondo, i suoi luminosi occhi marroni e le labbra rosee di burro cacao attirarono il mio sguardo come un magnete più volte di quelle che desiderassi.

«Sopporto il freddo abbastanza bene».

«Ti ammiro», un sorriso gli allungò gli angoli delle labbra mentre mi mostrava le mani avvolte da un paio di guanti neri, «di sicuro io non lo sopporto affatto».

Inclinai la testa di lato e la invitai a seguirmi in caffetteria, che era finalmente stata riaperta. «Devi ancora pranzare?».

«Sì, ho posticipato il pranzo perché sapevo di dover pranzare da sola e non avevo molto appetito. Nicole sta lavorando duro per provare ad ottenere uno sconto di pena per Airton».

Annuii lentamente e mi affiancai a lei, seguendola in direzione della caffetteria. Non riuscii a non pensare che la riapertura di essa, in qualche modo, fosse riconducibile al lieve diminuire dei detenuti nei giorni precedenti, proprio durante la nostra assenza.

Ero sempre più convinto del fatto che la carne umana servita nello stufato che riproponevano ogni giorno ai carcerati fosse quella ricavata dalle morti che erano avvenute nell'ala est. Forse erano stati congelati, ovviamente dopo essere stati tagliati a pezzi, e questo era plausibile considerando le bare vuote che erano state spedite ai cari dei defunti. Da quello che diceva Nerea, nel periodo in cui era stata assunta qui non veniva servito alcuno stufato di carne, ma piuttosto cibi semplici o addirittura solo brodo condito da qualche verdura.

Non avevo bisogno della verità, ma solo di una conferma.

«Ci tiene molto ai detenuti. Chissà cosa le è successo».

Aggrottai la fronte. «Da cosa lo deduci?».

«Difficilmente la gente comune si preoccupa così tanto di questa fetta della società, non dei criminali ma dei carcerati, che non sempre sono la stessa cosa. Accade solo a chi ha una spiccata sensibilità, che è una cosa che alla fine si paga a caro prezzo».

Abbassai lo sguardo sulle scarpe, anche se venivano quasi ricoperte del tutto dalla neve ad ogni passo, e il brivido che mi scese lungo la schiena non mi fece tremare il corpo come avrebbe dovuto, ormai abituato a temperature anche peggiori. Avrei sopportato perfino di stare in una vasca colma di cubetti di ghiaccio e non avrei battuto ciglio, perché a questo mi aveva formato la vita: alla sopportazione, di ogni tipo di tortura o dolore.

Era per questo che mi ero fatto assumere dal mio capo, mi era stato consigliato dal mio psicologo tempo addietro di provare a rendere quello che mi rendeva diverso un punto di forza nel mio lavoro. E così era stato.

«Tu l'hai pagata a caro prezzo?».

Aggrottò leggermente la fronte e volse lo sguardo verso di me più volte, non potendo fissarmi a lungo perché doveva stare attenta a non affondare sulla neve. «Da cosa evinci il fatto che ne abbia anche io una?».

«Ti sei preoccupata di farmi notare che potrei prendere una polmonite e hai evidenziato il motivo per cui Nicole ti ha lasciata da sola a pranzo per non farla sembrare una cattiva amica ai miei occhi, questo denota una grande sensibilità. E anche un pizzico di empatia».

Mi guardò male, come se le desse quasi fastidio l'idea di essersi "denudata" in questo modo con me.

«Notevole notare tutti questi dettagli al primo colpo. Perché sei qui a fare la guardia penitenziaria e non in giro per il mondo come agente sotto copertura?».

Un ghigno mi curvò le labbra. «Per fare quello ci vuole una certa intelligenza».

«Che tu non hai».

«Che io non ho», concordai ridacchiando.

L'adoravo.

La superai velocemente per aprirle la porta della caffetteria e vedere le sue guance colorarsi di un delizioso rosa malgrado la temperatura gelata attorno a noi mi soddisfò. «Non è appuntamento, non c'è alcun bisogno di essere galante».

«E chi ti ha detto che non lo è?». La seguii dentro, scegliendo uno dei tantissimi tavoli vuoti. Erano le tre passate, normalmente nessuno di noi pranzava a quest'ora.

Mi fissò stralunata mentre si toglieva il cappotto, i guanti e tutto ciò che la proteggeva dal freddo all'esterno prima di sedersi. «E chi ha detto a te che lo è?».

«Touché». Le sorrisi. «Tuttavia un pranzo o una cena in questa caffetteria è tutto ciò che posso offrirti visto che abitiamo in un'isola lontana dalla civiltà. Un giorno rimedierò con una vera cena in un vero ristorante, va bene?».

Scosse la testa, ma con un sorriso appena accennato. «Quando e se verrò licenziata scapperò il più lontano possibile da tutto questo, anche da te».

«Puoi provarci tesoro, ma normalmente io trovo tutto quello che voglio trovare».

Si lasciò sfuggire uno sbuffo adorabile. «Addirittura! Sei un criminale sotto mentite spoglie?».

«Solo una persona molto determinata». Mi sarebbe venuta presto una paralisi facciale se avessi continuato a sorridere in quel modo. Dio, prendevo in giro Parisi tutto il tempo ed io ero persino peggio.

A turno ognuno prese il proprio pranzo e quando ci sedemmo uno di fronte all'altro il forte profumo del cibo mi aprì una voragine sullo stomaco, ricordandomi che a volte badavo poco a tutto ciò di cui il mio corpo aveva bisogno. Lei aveva preso un mix di verdure saltate in padella, del pane e una generosa porzione di purè.

Credevo che fosse Nerea la persona più fissata con le patate ma a quanto pare Daneen le dava del filo da torcere. Anche io ne ero ghiotto, ma di altri tipi.

Dannazione com'ero simpatico, dov'era il mio nobel per la comicità?

«Vuoi assaggiare?», le chiesi indicando il mio vassoio. Io avevo preso una porzione di riso e pollo al curry - pollo vero, me ne ero accertato chiedendo di assaggiarlo prima di prenderlo - dall'aspetto cremoso e invitante, delle carote bollite da accompagnare con del pane a fette e una bottiglia d'acqua a temperatura ambiente che avevo chiesto di mantenere al caldo vicino al forno.

Quello era l'unico trauma che mi era rimasto,  non riuscivo a bere l'acqua fredda neanche durante le estati più torride.

La osservai mentre storceva il naso, indicando il piatto con una faccia poco convinta. «Non mangio carne di maiale, sono mus-».

«Non è carne di maiale, è pollo». La rassicurai, prendendone un po' e sporgendo la forchetta nella sua direzione. Dopo un primo momento di incertezza si avvicinò ad essa, aprendo la bocca per accogliere il boccone senza sporcarsi, e nel frattempo i pantaloni della mia divisa si fecero più stretti del normale.

Le posai la mano sotto il mento per paura che la salsa al curry le potesse cadere sui vestiti e attesi. «Fidati, é buono». Masticò con gusto e poi si leccò le labbra.

«Allora?». Con la stessa forchetta, ovvero la mia, presi un'altra porzione e me la ficcai in bocca senza troppi fronzoli. Avevo fame, ormai mi si era aperta una voragine sullo stomaco.

«Allora... è molto buono, avevi ragione. Non l'avevo mai mangiato prima, non sembrava mai così invitante».

Sorrisi soddisfatto. «Quello che faccio io è ancora più buono». Sì, ti sto indirettamente invitando a casa mia a data da destinarsi.

«Tu cucini?». Prese un po' di purè e spezzò il pane al contempo.

Prima di parlare mi passai un fazzoletto sulla bocca per accertarmi di avere la bocca pulita. «In qualche modo devo sfamarmi quando non ho un'intera mensa gratuita a disposizione».

«Io ordino o vado a mangiare fuori, se metto mano in una cucina sono capace soltanto di mandarla a fuoco. Ci ho rinunciato».

Ignorai la sensazione di fastidio allo stomaco ingoiando un cucchiaio di riso, sperando che riempisse anche quel vuoto che percepivo al cuore. Ma non funzionava mai, il cibo non riempieva mai il vuoto. 

«Io non vado mai a mangiare fuori, non... mi piace».

Aggrottò la fronte ingenuamente. «Non puoi permettertelo?». Come se avesse compreso la sua stessa sfacciataggine soltanto dopo averlo detto, strizzò gli occhi e si mostrò dispiaciuta. «Scusami, non sono affari miei. A volte faccio troppe domande».

«No, posso permettermelo eccome. Solo che non ho nessuno con cui andare».

«E allora? Puoi benissimo andare da solo, i ristoranti non sono mica solo per le coppie o per gli amici. Io vado spesso a pranzare o a cenare fuori in completa solitudine». Si strinse nelle spalle come se lei non ci vedesse veramente nulla di male e in effetti era così. Per lei e per tanti altri, ma non per me.

La sola idea di scendere di casa senza preoccuparmi di come fossi esteticamente perché tanto non avrei dovuto "farmi bello" per nessuno, di camminare in città posando gli occhi sulle coppiette che si tengono per mano o sui gruppi di amici che conversano come se non ci fosse nulla di importante, entrare al ristorante e chiedere al cameriere "un tavolo per uno" e sentire lo sguardo delle persone scivolarmi addosso mentre mangio senza avere nessuno né a fianco né di fronte mi infastidiva già a pensarci.

Sapere di essere solo era un discorso, dare modo agli altri di saperlo era un altro. E anche ben più doloroso.

«Salah?», la sua voce mi trascinò al presente.
Rimisi la maschera a posto, indossando un sorriso che nascondesse al meglio la profondità dei miei pensieri. «Sì, scusami. Di che stavamo parlando?».

«Niente, non stavamo parlando di niente».

Minimizzò la cosa con un gesto della mano e lì capii che la sensibilità che aveva pagato a caro prezzo, così aveva detto, era stato un buon acquisto.

«Vuoi assaggiare queste verdure? Sono spaziali!». Capii che stesse cercando di cambiare discorso portando un po' di leggerezza e lo apprezzai.

Assunsi un ghigno e mi sporsi verso la forchetta che aveva avvicinato al mio viso. «Stai flirtando con me, rouhi?». Circondai la plastica della forchetta con le labbra e accettai la porzione che mi stava offrendo, guardandola dritto negli occhi mentre lo facevo e immaginando cose che non avrei mai dovuto immaginare durante la nostra prima vera conversazione di sempre.

«Mi hai appena chiamato "rouhi"?». Dischiuse le labbra con sorpresa e in realtà io fui più sorpreso di lei, perché non era da me essere così impulsivo. Io ero freddo e calcolatore, mai caloroso e impulsivo.

Raramente usavo l'arabo, pur essendo nato e cresciuto lì per i primi dieci anni della mia vita. Quella lingua era collegata a momenti che non volevo ricordare, a sensazioni scomode che stavo cercando in ogni modo di dimenticare, e il fatto che l'avessi usata senza neanche farci caso mi stupì negativamente.

Normalmente affermavo che la mia lingua d'origine fosse il persiano, che avevo imparato quando mi ero trasferito in Iran per entrare a far parte delle forze armate iraniane. Lì nessuno ti insegnava niente, se volevi sopravvivere allora avresti dovuto imparare la lingua il più in fretta possibile perché nessuno ti dava acqua, cibo o vestiti se osavi chiederlo in inglese o in qualsiasi altra lingua che non fosse quella ufficiale. Ma a me andava bene.

Andava bene dimenticare l'arabo e far finta di non conoscere il significato di quelle frasi che si erano insidiate nel mio cervello, andava bene fingere di essere un orfano senza famiglia spedito a combattere per un esercito che non era il suo. Mi andava bene anche dimenticare di essere un fratello che aveva perso la propria sorella, ma che la vedeva ancora fra la puzza di pelle bruciata e il fumo nero e grigio dei bombardamenti.

"Guerra è libertà", diceva nostro padre mentre ci torturava e ci insegnava a resistere in condizioni pietose attendendo uno scoppio che alla fine era arrivato quando mia sorella non c'era già più e io ero lontano, a combattere dalla parte dei cattivi facendo la spia sotto ordine dei pasdaran, ma continuando a sentire nella mia testa la risposta determinata che davo a mio padre. "Non c'è libertà dove sei costretto a scegliere se far morire, morire o veder morire".

Una mano sull'avambraccio. Una mano calda che voleva rassicurare nella realtà, una fredda che percepivo scivolarmi addosso fino alla gola nella mia immaginazione, che stringeva e stringeva fino a farmi desistere dall'idea di supplicare pietà. Kamā qult, qātala aw maqtūlun yā fatā.

«Salah, va tutto bene?».

Kamā qult, qātala aw maqtūlun yā fatā.

«Sì scusami, devo andare. Ci sentiamo». Mi alzai in fetta e furia come se avessi il diavolo della Tasmania dietro, gettando tutto nel cestito e posando il vassoio mentre mi dirigevo all'esterno.

Una volta fuori, dove il vento gelido mi sferzò il viso e i piedi mi si affossarono nella neve, presi un respiro profondo, a pieni polmoni, e iniziai a contare per scacciare quella voce dalla mia testa.

Kamā qult, qātala aw maqtūlun yā fatā.

Yek, do, se. Chiusi gli occhi.

Kamā qult, qātala aw maqtūlun yā fatā.

Châhâr, panj, chich. La sua voce dura e graffiante nelle orecchie.

Kamā qult, qātala aw maqtūlun yā fatā.

Haft, hacht, noh. Il freddo gelido e le sue mani addosso.

Kamā qult, qātala aw maqtūlun yā fatā.

Dah. L'acqua che mi inonda i polmoni e io che credo di morire.

Deglutii, cercando di far capire al mio cervello che quella sensazione di annegamento era frutto dei miei ricordi, dei traumi profondi che non ero mai riuscito a superare neanche con l'aiuto di professionisti nel settore. Ad un certo punto uno di loro mi disse che non riusciva ad aiutarmi perché non volevo essere aiutato.

E io lo picchiai, lo colpii ripetutamente fino a spaccarmi le nocche, con il sangue che mi schizzava sul viso e le mani che mi dolevano implorandomi di smettere, proprio come faceva lui con le sue urla che avevano attirato l'attenzione della sua segretaria. Lo picchiai perché avevo bisogno di vedere cosa si provasse a sopraffare una persona, lo picchiai perché aveva detto una cazzata: io volevo essere aiutato, ma non sapevo come farmi aiutare.

Con il cuore che sembrava volesse uscirmi fuori dal petto, e la pelle che sudava freddo, mi trascinai nel corridoio della prigione senza sapere cosa stessi cercando. La luce in fondo al tunnel, una di quelle cazzate inventate da Dio solo sapeva chi. E in effetti la trovai, perché dei liscissimi capelli biondi mi sferzarono il viso.

«Lysander? Che ti prende?», la voce preoccupata di Nerea mi arrivò attutita alle orecchie, la testa mi girava.

Isaiah, che arrivò alle sue spalle pochi secondi dopo, si protese per afferrarmi quando un capogiro mi costrinse a schiacciarmi sulla parete per non scivolare sul pavimento, ma lei lo fermò all'istante.

«No, non lo toccare! Sta avendo una delle sue crisi, se lo tocchi potrebbe ucciderti di botte. Perderebbe la ragione».

Grazie, Nerea. Grazie perché mi conosci.

«Okay», sentii sbuffare Isaiah, che si allontanò di qualche centimetro e mi liberò il passaggio senza toccarmi. «Portiamolo nel tuo studio».

Nerea mi si parò dietro, il che mi fu utile perché il suo calore, pur senza mai toccarmi direttamente, mi scaldò la pelle gelida e mi fece capire che qualcuno, alle mie spalle, c'era. C'era eccome.

«Prendi una bottiglietta d'acqua». Una volta dentro Isaiah mi scortò verso la poltrona, sempre senza toccarmi ma solo accertandosi che non stramazzassi per terra. Io chiusi gli occhi e mi appoggiai allo schienale morbido, invocando Dio nella speranza che un giorno mi togliesse tutto quel dolore che ancora mi portavo dietro.

Il cambiamento d'aria attorno a me mi segnalò la vicinanza di Nerea, perciò li riaprii e accettai con gratitudine la bottiglietta d'acqua che mi stava porgendo. Ne presi massimo uno o due sorsi, non di più.

«Non era meglio una di quelle che hai nel mini frigo?».

Lei scosse la testa. «Beve soltanto acqua a temperatura ambiente».

Nello sguardo chiaro e curioso di Isaiah intravidi una scintilla di comprensione, che svanì quando Nerea si sedette sul bracciolo della poltrona in cui era seduto per starmi di fronte. Mi fissò preoccupata e iniziò a toccarsi le mani per resistere all'impulso di darmi un conforto fisico di cui non avevo assolutamente bisogno.

«Lys, hai pranzato almeno?». Annuii.

«Sta tremando», notò Isaiah. «Non so se è per il nervosismo o per il freddo gelido che c'è là fuori, ma potresti andare a prendergli una coperta con cui scaldarsi. Ha la divisa piena di fiocchi di neve che si stanno sciogliendo a causa dei riscaldamenti».

Nerea saltò in piedi come una molla, camminando velocemente fuori dal suo studio per recapitare tutto il necessario. Conoscendola non si sarebbe fermata ad una coperta, ma avrebbe preso qualche snack ai distributori e si sarebbe fatta portare una bevanda calda da qualcuno degli altri agenti.

Lei era così, come me. Si prendeva cura degli altri nel modo in cui avrebbe dovuto prendersi cura in primo luogo di sé, ma non osava perché non si reputava poi così importante.

«Passerà, un giorno».

Spostai lo sguardo su Isaiah e inarcai un sopracciglio, mostrando la mia confusione senza usare le parole.

«Il dolore passerà un giorno, anche il tuo corpo smetterà di avere questa reazione impulsiva quando qualcosa ti ricorderà di lui e delle sue violenze. Ci vuole tempo».

«Più di dieci anni non sono abbastanza?», mi ritrovai a ironizzare con amarezza. Non mi capacitavo di come non fosse abbastanza.

«Il tempo è una briciola che vola via facilmente, messo a confronto con il dolore il tempo non è nulla». Si guardò le dita, con il braccio comodamente appoggiato al bracciolo e il coro stravaccato come il mio sulla poltrona.

«Parli per esperienza, Sokolov?».

Annuì. «Anche io ho delle voci e delle frasi ben incise sulla mente, ma non solo. Forse anche sul corpo, solo che gli altri non sono in grado di vederle. Ma il dolore... il dolore è solo un ricordo lontano, che non mi sfiora più».

«E le frasi? Le voci? Se ne sono andate?». Mi mossi sulla poltrona con un leggero disagio addosso, non apprezzando molto il fatto di dovermi mostrare più debole di lui in un contesto in cui io avrei dovuto essere un suo superiore.

Un sorriso amaro gli allungò gli angoli delle labbra e un velo di rabbia, ma forse anche di dolore, calò sui suoi particolarissimi occhi azzurri. «Oh no, ma credo che quelle non se ne andranno mai. Certe voci, certe frasi, ce le porteremo ovunque. Per sempre».

Quando risentii nuovamente quelle voci, in particolare la mia dal tono alto e implorante, mi ritrovai costretto a spostare lo sguardo altrove, verso la finestra da cui si osservava la spiaggia ricoperta di neve.

Lotfan, na! Lotfan, na!

Lotfan, moteassef-am! Komak!

Lotfan, be man dast nazan!

Solo Dio poteva sapere quante volte avessi gridato quella parola fino ad aver male alla gola.

Lotfan. Per favore.

Di quello che aveva detto Sokolov era il per sempre che, in qualche modo, mi terrorizzava. La paura totalizzante di sentire per l'eternità quel "lotfan".

Dopo essermi ritrovata sull'orlo del bornout, e averci messo una vita a scrivere questo capitolo che alla fine è uscito ben più triste di quello che avevo messo in conto (come sempre), sono qui per farvi sapere della mia piccola pausa!
Mi prendo delle "ferie" che dureranno per tutte le feste, indi per cui ci rivedremo la seconda settimana di gennaio per il prossimo aggiornamento.
Ovviamente non sparirò, su Instagram sarò sempre presente e potrete sempre trovarmi lì a fare la cretina sostanzialmente.
Tuttavia, se non mi seguite su IG...

Vi auguro delle buone feste, un sereno Natale e un felice anno nuovo!

Con amore,
Azura.
🤍

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