La Ruota degli Angeli

By Lightning070

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Napoli, 1934. Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato... More

Premessa
I. Un po' di freddo (certo male non fa) - Parte 1
I. Un po' di freddo (certo male non fa) - Parte 2
II. La nostra buona stella (è la peggiore tra le luci) - Parte 1
II. La nostra buona stella (è la peggiore tra le luci) - Parte 2
III. La più grande libertà (è quella che ci tiene in catene) - Parte 2
IV. C'è tutto il mondo (tra la culla e la fossa) - Parte 1
IV. C'è tutto il mondo (tra la culla e la fossa) - Parte 2
V. La luce delle lanterne (e quella delle lampare) - Parte 1
V. La luce delle lanterne (e quella delle lampare) - Parte 2
VI. Le lacrime dell'Inferno (servono a qualcosa) - Parte 1
VI. Le lacrime dell'Inferno (servono a qualcosa) - Parte 2
VII. Paese reale (di sudditi e re) - Parte 1
VII. Paese reale (di sudditi e re) - Parte 2
VIII. Chi per strada va (per strada muore) - Parte 1
VIII. Chi per strada va (per strada muore) - Parte 2
IX. Le ultime volte (non bussano alla porta) - Parte 1
IX. Le ultime volte (non bussano alla porta) - Parte 2
X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 1
X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 2
X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 3
XI. Apriti cielo (e manda un po' di sole) - Parte 1
XI. Apriti cielo (e manda un po' di sole) - Parte 2
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 1
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 2
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 3
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 4
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 1
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 2
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 3
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 4
XIV. Io ti terrò la mano (tu tienimi l'anima) - Parte 1
XIV. Io ti terrò la mano (tu tienimi l'anima) - Parte 2
XIV. Io ti terrò la mano (tu tienimi l'anima) - Parte 3
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 1
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 2
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 3
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 4
XVI. Vittoria (ma com'è piccola, ma com'è fragile) - Parte 1
XVI. Vittoria (ma com'è piccola, ma com'è fragile) - Parte 2

III. La più grande libertà (è quella che ci tiene in catene) - Parte 1

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By Lightning070

          A Ricciardi è sufficiente uno sguardo, per capire che non può essere stata Caterina Gigliolo ad assassinare di propria mano suo marito.

«Prego, accomodatevi,» la invita non appena schiude la porta. «Sono il commissario Ricciardi, lui è il brigadiere Maione. Condoglianze per la vostra perdita.»

«Grazie, commissario.»

La sua voce è sottile quanto la sua figura, quasi inghiottita dal sobrio abito scuro in viscosa che accentua il pallore del suo volto; una croce d'argento spicca al suo collo.

Porta i fini capelli biondo cenere raccolti in una crocchia, tenuta ferma da una retina di perle, e le mani magre sono fasciate da guanti neri di velluto a mezzo braccio. La veletta nasconde in parte i suoi occhi, che brillano comunque di un nocciola intenso, quasi dorato. È l'unico dettaglio del suo aspetto a non sembrare opaco, riflesso di una forza e bellezza che sta rapidamente sfiorendo.

Ricciardi, d'istinto, non ha dubbi sul fatto che quella manifestazione impeccabile di lutto corrisponda a realtà. Caterina Gigliolo sembra smarrita, a dire il vero. I suoi occhi vagano incerti sul perimetro dell'ufficio, ed esita qualche istante prima di approcciarsi alla sedia di fronte alla scrivania e sedersi con gesti lenti, quasi temesse di rompersi nell'atto.

Maione fa il gesto di aiutarla, ma lei si limita a scuotere piano il capo, con un sorriso impercettibile.

«Grazie, brigadiere, ce la faccio. Sono ormai abituata.»

«Spero che il viaggio non sia stato troppo stancante,» dice Ricciardi, sentendosi suo malgrado in difetto. «Quando vi ho fatta convocare, non ero a conoscenza delle vostre condizioni di salute, né che foste a Roma.»

«È stato assai stancante, ma sarei venuta immediatamente a Napoli, convocazione ufficiale o meno,» replica lei, stringendo le mani sulla piccola borsetta nera che ha posato in grembo.

C'è un che di melodioso e potente, nella sua voce. Anche se debilitata, in lei sembra albergare ancora la verve di chi era abituato a calcare un palco gremito di folla nella capitale, ammaliandolo con la sola voce. Deve avere una decina d'anni in più di Livia, ma non gli riesce difficile immaginarle come colleghe cantanti.

Con gli occhi, dà un segnale a Maione, in piedi accanto alla scrivania, e il brigadiere è pronto a prendere le redini dell'interrogatorio:

«Ci perdonerete se passiamo subito al dunque, signora, così da non affaticarvi troppo,» esordisce, con impeccabile cordialità. «Voi eravate a conoscenza di qualsivoglia inimicizia o antipatia nei confronti di vostro marito?»

La donna stringe le labbra, guardando entrambi in rapida successione.

«Credevo si trattasse di una semplice rapina.»

«Stiamo vagliando tutte le possibilità,» interviene Ricciardi, osservando la sua reazione.

Non vi scorge allarme, solo tenue stupore.

«Comprendo perché sono stata convocata, allora,» commenta però, con improvvisa energia.

«Signora, noi siamo tenuti a interrogare chiunque avesse un legame rilevante con la vittima,» s'intromette Maione, pacato come suo solito, ma con una punta di durezza. «Voi, essendone la moglie, rientrate senz'ombra di dubbio tra questi.»

Lei ammutolisce, gli occhi inquieti che oscillano tra loro due. Ricciardi riflette un momento, prima di decidersi a scoprire le carte; almeno, alcune:

«Non siete sospettata, al momento; sia perché avete un alibi, visto che non eravate a Napoli, sia date le modalità dell'omicidio.» A giudicare dalla sua reazione nervosa, è certo che anche la donna sia consapevole che ciò non la esenti da una partecipazione diretta al crimine. «Tuttavia, come diceva il brigadiere, ho comunque l'obbligo di porvi delle domande per fare chiarezza su questo delitto.»

Caterina rilascia un lieve sospiro, che si conclude in un lieve colpo di tosse, soffocato con prontezza contro il palmo guantato.

«Perdonatemi, commissario. Come potrete immaginare, l'evento mi ha scossa. Chiedete pure ciò che volete,» si ricompone, addolcendo un poco le parole, «anche se temo di potervi aiutare ben poco. Spero che quel poco possa bastarvi.»

Una vibrazione più intensa scuote quell'ultima frase. A Ricciardi non dà l'impressione di qualcuno che fosse del tutto estraniato dal proprio coniuge, come suggeriva Livia. È anche vero che ha avuto a che fare con abbastanza artisti, Livia inclusa, per imparare a diffidare delle apparenze.

«Perché dite questo?» chiede Ricciardi, aprendo il taccuino davanti a sé.

«Le domande di carattere personale possono dare ben pochi frutti, dato che ci vedevamo di rado.»

«Quanto spesso, di preciso?»

«Da qualche mese sono in degenza all'Ospedale del Littorio a Roma, per la mia malattia polmonare. Sono in attesa che inaugurino il sanatorio, se mai sarà per tempo,» aggiunge, con un sorriso pungente. «Fernando mi ha fatto visita una volta al mese da allora. Ho smesso di cantare poco prima di Natale, quindi non vi era occasione di vederci alle mie esibizioni, come di consueto.»

«Fatemi capire,» interviene Maione, inserendosi con tempismo, «prima del vostro ricovero, vi vedevate unicamente ai vostri concerti?»

«Sì,» risponde Caterina, come se stesse ribadendo l'ovvio.

«Dunque, non vivevate assieme?» Ricciardi riesce a mantenere un tono neutro, anche se a stento.

«Non credo sia un crimine,» conclude lei, alzando il mento. «Almeno per ora. O volete imporre forse la tassa sul celibato a un morto?»

Ricciardi pensa fugacemente che questa donna starebbe simpatica a Bruno.

«Cerchiamo solo di capire in che rapporti foste,» la placa subito dopo, avvertendo un punto sensibile fin troppo ovvio. «Non abbiamo alcun interesse nel giudicarli.»

Non sarebbe comunque la persona più adatta per farlo, in effetti.

«Commissario, Fernando e io ci siamo incontrati e sposati in fretta e furia durante la guerra, mentre lui era in permesso,» esordisce allora lei, come rassegnandosi a dare spiegazioni. «È stata un'avventatezza dettata dal timore di non rivederci. Un'avventatezza che si è rivelata tale dopo pochi anni ma che, in fin dei conti, era la cosa migliore che ci potesse capitare.»

«Non provavate alcun astio per questo matrimonio infelice?» indaga Maione, e Ricciardi gli scocca un'occhiata d'avvertimento: quella gli sembra più una curiosità personale che legata al caso.

«Non ho mai detto che fosse infelice,» lo corregge lei, volgendo il capo verso il brigadiere. «Io cantavo l'opera, lui scalava i gradi militari. Lui assisteva ai miei concerti, io alle sue parate e ricevimenti. Io vivevo nella mia amata Roma, lui nella sua amata Napoli. Se avessimo voluto, avremmo potuto interrompere del tutto i rapporti, ma così non è stato. Perché, di fatto, non eravamo infelici e non desideravamo nulla di più l'uno dall'altro.»

Ricciardi non riesce a camuffare del tutto il misto di meraviglia e scetticismo che gli si dipinge in volto di sua sponte, misto a un'emozione estranea che di rado gli capita di provare: invidia. Si trova a invidiare la vita dei coniugi Gigliolo, così inconsueta e quasi eversiva, eppure in qualche modo vera, esistente. Felice.

Perde il ritmo e non si inserisce come dovrebbe nella catena di domande dell'interrogatorio, suscitando uno sguardo perplesso dal collega, che è comunque pronto a riprendere il timone:

«Non ci risultano figli. È corretto?»

«Non che io sappia,» replica lei, con assoluta tranquillità, per poi notare il sussulto affatto discreto di Maione e inclinare di lato il capo, quasi divertita. «Non indagavo sulle frequentazioni di mio marito, brigadiere, ma non è un qualcosa che mi avrebbe nascosto. Né io a lui.»

Ricciardi serra appena la mandibola: questa sequela di domande non sta portando da nessuna parte; almeno, non con questo approccio. Se vogliono informazioni più dettagliate su eventuali dissapori dei coniugi Gigliolo, non è a Caterina che devono chiederle.

«Mi pare di capire che non aveste alcun motivo di provare rancore verso vostro marito.» Non la formula nemmeno come una vera e propria domanda, tanto che non aspetta risposta: «Il delitto, però, suggerisce una potenziale natura personale della faccenda. Siete sicura di non ricordare alcun conflitto o diverbio che vostro marito potrebbe aver avuto negli ultimi tempi?»

«Magari aveva qualche creditore? O perdeva alle carte o ai cavalli?» incalza Maione, completando la sua linea di pensiero.

«Se così fosse, gliel'avrei già detto, commissario,» ribatte lei, di nuovo granitica. «Quanto ai debiti... non versava certo in miseria e non era incline al gioco; anzi, lo disprezzava. Non vedo come avrebbe potuto contrarne.»

«Le risulta avesse qualche rapporto con le famiglie...» Ricciardi abbassa gli occhi sulla lista degli altri furti, che gli ha portato prima Maione, «Vinciguerra, D'Angelo e Pascale?»

«Non mi suonano noti, temo,» risponde lei, dopo un momento di riflessione.

La tensione sulle mani che stringono la borsetta di pelle lucida è sempre più evidente a ogni domanda alla quale non è in grado di fornire risposta. Ricciardi non sa se sperare in un suo cedimento repentino, perché ha l'impressione che poterebbe allo stesso risultato; ovvero, niente. Erano in rapporti cordiali, magari anche dettati da un certo grado d'affetto, sì, ma avrebbe più speranze di successo interrogando Camarda su un passante visto per strada.

Caterina Gigliolo trasalisce appena.

«Posso dirvi, però, che frequentava associazioni caritatevoli in modo piuttosto assiduo,» dice all'improvviso, con sollievo e speranza palpabili. «Soprattutto per orfani e invalidi di guerra.»

Ricciardi scambia un'occhiata con Maione, cedendogli il successivo quesito, e prende un appunto sul proprio taccuino. È un inizio.

«Per quanto voi ne sappiate, vi risulta che vostro marito soffrisse d'insonnia?»

«Di tanto in tanto, sì,» conferma lei, scostandosi dietro l'orecchio una ciocca sfuggita all'acconciatura. «Non vivevamo insieme da tempo, ma ha sempre avuto il sonno leggero. Un lascito della guerra.»

«Spiegherebbe perché si trovasse in salotto a quell'ora tarda della notte,» soggiunge Ricciardi, intuendo la sua domanda inespressa.

«In ultimo, siete a conoscenza di cosa custodisse vostro marito nella cassaforte dello studio?»

Caterina, a quel punto, tira le labbra in un sorriso affranto.

«Commissario, non so nemmeno di quale cassaforte parlate. Se dovessi indovinare, però, vi direi le medaglie al valore per la Battaglia del Solstizio.»

Ricciardi coglie, discreta, l'alzata d'occhi al cielo di Maione dietro di lei, nel sentire il nome aulico che infiocchetta quell'evento. Completa l'appunto con quell'informazione e richiude il taccuino con un piccolo schiocco.

«Per ora è tutto, signora Gigliolo.»

Maione, che pareva sul punto di porre altre domande, ammutolisce e alza un sopracciglio verso di lui; Ricciardi lo ignora, conscio egli stesso di essere troppo frettoloso, ma volendo assecondare l'istinto. Gli suggerisce, senza mezzi termini, che stanno battendo una strada senza uscita.

«Mi dispiace di non essere stata d'aiuto,» dice lei, con stanchezza evidente a tirarle il volto, e pare trattenere un altro piccolo colpo di tosse.

«Affatto, faremo buon uso delle informazioni che ci avete fornito,» la rassicura da prassi Ricciardi. «So che, dopo i funerali, dovrete tornare subito a Roma per le vostre cure, ma rimanete a nostra disposizione e non lasciate la capitale fino alla conclusione delle indagini,» ordina poi, fissandola negli occhi oltre la veletta e incontrando uno sguardo affatto intimorito.

Di chi non ha nulla da nascondere; o, forse, di chi è deciso a nascondere tutto. Ricciardi non si fida abbastanza delle persone, né ne diffida abbastanza per sbilanciarsi nell'una o nell'altra direzione.

«Voi ve la bevete, commissario?» lo interpella Maione, non appena Caterina Gigliolo chiude la porta dietro di sé.

È chiaro dal suo tono che lui non se la beve affatto, sospettoso come sempre. Non può fargliene una colpa; d'altronde, è il loro lavoro.

«Mi lascerebbe più perplesso se stesse mentendo,» replica, alzandosi. «Si uccide per amore o per fame, e a me pare che qui non vi sia nessuno dei due.»

«Se lo dite voi, commissa'...» alza le spalle il brigadiere, senza curarsi di suonare convinto.

Ricciardi puntella un palmo sull'angolo della scrivania, lo sguardo basso, meditabondo. Non gli tornano molte cose, di quel delitto, ma Caterina Gigliolo non è tra queste.

Si chiede se il suo giudizio non sia annebbiato dal moto d'istintiva simpatia che gli ha suscitato la sua situazione: la libertà di poter vantare lo status di coniugato e vivere comunque secondo i propri desideri e inclinazioni. Gli era parsa una prospettiva poco allettante fino a un'ora fa, quando l'aveva intravista attraverso la lente critica di Livia, forse offuscata da un'idea d'amore abnegato troppo irrealistica. Adesso, però, si chiede se non sia piuttosto una soluzione auspicabile.

Scaccia con forza il pensiero di Enrica, un lampo repentino e sgradito, e di come lei si potrebbe inserire in quel meccanismo: non è ancora diventato così disperato o così meschino da usare una persona e i suoi sentimenti a quel modo.

«Maione, io penso che la vedova Gigliolo sia sincera e non abbia alcun movente per uccidere il marito. D'altronde, qualunque vantaggio ne trarrebbe non sarebbe duraturo, date le sue condizioni di salute.» Prende un respiro, concedendosi ancora un istante per schiarirsi i pensieri. «Al contrario, ho l'impressione che tenesse abbastanza a lui da avere interesse a nascondere qualsiasi macchia possa screziarne l'immagine.»

Maione si acciglia, scrutandolo in quel modo particolare che lo fa sembrare un mastino messo di fronte a una situazione inspiegabile, come sempre quando lui avanza ipotesi non lineari.

«Dite che c'era del sordido, nella vita di Gigliolo?»

«Non lo so,» si affretta a minimizzare lui, lanciando lo sguardo fuori dalla finestra, verso il cielo ora nuvoloso. «È un'impressione, tutto qua.»

Ripensa all'ammonimento di Livia che, forse, è anch'esso un indizio. Se il Partito annovera quel caso come "delicato", è plausibile pensare sia per interesse a mantenere un'immagine impeccabile dei propri elementi, sapendo cosa potrebbero scoperchiare le indagini.

«Limitiamoci a seguire la pista della serie di rapine, piuttosto. Meglio non sollevare un polverone inutilmente.»

Il suo collega sembra soddisfatto di quella decisione, come se rientrare su binari ben tracciati lo rassicurasse. Estrae un foglietto dal taschino della divisa, fitto di nomi e indirizzi.

«Ho rintracciato la maggior parte dei domestici delle precedenti abitazioni, anche se sarebbe meglio dire che li ho estorti a quell'avanzo di niente di De Blasio. I restanti li ho trovati con qualche... aiutino dal nostro informatore,» ammicca, con rimprovero lampante, «ma non vi è alcun nome ricorrente. Sono una dozzina in tutto, tra quelli che non vivevano coi padroni.»

Legge di nuovo da capo a piedi la lista per sincerarsene, poi annuisce tra sé.

«Sono già stati sentiti tutti da De Blasio e compari. Volete comunque interrogarne qualcuno?» chiede poi, col tono poco entusiasta di chi non vuole battere Napoli strada per strada.

Ricciardi non risponde subito. Gli scivola lo sguardo sullo scrittoio assediato da incartamenti. Dovrebbe leggere il referto post mortem che gli ha lasciato Bruno, ma le sue pupille trovano invece il registro delle allerte di quegli ultimi giorni, che non ha nemmeno fatto in tempo a sfogliare. A colpo d'occhio, non scorge alcun "Munaciello" tra i nomi elencati, ma non può mettersi a scorrerli per intero adesso.

Rilascia un piccolo sospiro silente e si raddrizza, scacciando il ricordo assillante di quella voce e voltandosi infine verso il collega.

«Da qualche parte dovremo pur cominciare,» stira appena le labbra in un sorriso, facendogli un gesto eloquente verso la porta mentre recupera il soprabito.

«Immaginavo l'avreste detto, e infatti ho mandato Cesarano e Piscitelli a sentire i tre verso Bagnoli e Fuorigrotta,» continua, indicando dei nomi sottolineati sulla lista, «mentre Antonelli e Camarda si occupano di un altro paio tra Chiaia e il Vomero. Per noi, commissario, ho riservato la decina a San Carlo, Forcella e dintorni, che sono più numerosi. Ho pensato che voleste occuparvi voi del grosso dell'indagine.»

«E hai pensato bene, Raffae',» annuisce lui, soddisfatto della sua solerzia. «Io, però, devo prima sentire l'opinione di Bruno sul referto di Gigliolo,» aggiunge, mettendoselo sottobraccio mentre esce dall'ufficio.

«Certo, commissario.» Lo segue dappresso, mentre si avviano all'uscita della Questura. «Allora passo da casa al volo per pranzo, così faccio contenti Lucia e i ragazzi,» sorride, rallegrato da quel semplice pensiero.

«Fai con calma,» dice Ricciardi, suo malgrado contagiato. «Ci rivediamo davanti al Convitto Nazionale tra un paio d'ore.»

Maione annuisce, ormai sotto l'arco d'ingresso della Questura, e si avvia nella direzione opposta alla sua. Ricciardi guarda l'orologio: l'interrogatorio della vedova Gigliolo si è dilungato, ed è già in ritardo rispetto all'appuntamento con Bruno. Gliene dirà di ogni...

«Ah, commissario!» si sente richiamare dopo nemmeno due passi.

Si volta, accigliandosi, e Maione gli si fa di nuovo incontro, trafelato.

«Raffae', che ti prende?»

«Niente, è che mi sono quasi scordato e queste non sono certo cose che posso urlare in mezzo alla strada,» dice in fretta lui, a voce abbastanza bassa da essere quasi un sussurro. «Bambinella ha detto che vuole parlarvi.»

«Di persona?» ripete lui, un po' stolidamente, e si chiede quanto ancora possa diventare stramba quella giornata.

«Io ho cercato in tutti i modi di cavarle fuori di bocca qualcosa, a quella sciagurata,» si altera subito Maione, col gesto di chi vorrebbe strozzare qualcuno. «Ma niente, tiene la capa tosta come un ciucco, quella. Dice che è un'informazione che non può dire a nessun altro, se non a voi, faccia a faccia,» conclude, alzando il palmo dinanzi al viso a calcare le parole.

«Vorrà dire che andrò a farmi pure io un giretto alla Sanità, più tardi,» replica Ricciardi, con leggerezza. «Si vede che è importante, quest'informazione.»

«Eh, lo spero per lei,» brontola Maione, strabuzzando gli occhi in modo più comico che minaccioso. «Se non lo fosse, ditemelo, che le faccio passare la voglia di scherzare pure con voi.»

«Non credo che ce ne sarà bisogno, Raffaele,» sorride lui, facendogli gesto di avviarsi. «Saluta Lucia e i bambini.»

Solo quando Maione è abbastanza lontano, si concede di accigliarsi. Torce l'interno delle tasche del soprabito, tirando i fili già allentati da quel suo vizio.

Si sente in allarme già da ora, pur non avendo idea del perché il loro informatore voglia parlargli faccia a faccia per la prima volta dopo anni di fidata collaborazione. Più pensa alle possibilità, più il senso di catastrofe incombente che lo insegue da quella notte cresce, sommandosi alle voci di spettri che, di tanto in tanto, fanno capolino dalla sua coscienza.

Si stringe le tempie, inspirando piano e a fondo. Non può fasciarsi la testa prima di rompersela, o a sera non ci arriverà vivo.

Si riscuote a forza, concentrandosi sull'unica prospettiva piacevole di quella giornata: prendersi un buon caffè al Gambrinus, dove lo aspetta Bruno.

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