La Ruota degli Angeli

By Lightning070

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Napoli, 1934. Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato... More

Premessa
I. Un po' di freddo (certo male non fa) - Parte 1
I. Un po' di freddo (certo male non fa) - Parte 2
II. La nostra buona stella (è la peggiore tra le luci) - Parte 1
III. La più grande libertà (è quella che ci tiene in catene) - Parte 1
III. La più grande libertà (è quella che ci tiene in catene) - Parte 2
IV. C'è tutto il mondo (tra la culla e la fossa) - Parte 1
IV. C'è tutto il mondo (tra la culla e la fossa) - Parte 2
V. La luce delle lanterne (e quella delle lampare) - Parte 1
V. La luce delle lanterne (e quella delle lampare) - Parte 2
VI. Le lacrime dell'Inferno (servono a qualcosa) - Parte 1
VI. Le lacrime dell'Inferno (servono a qualcosa) - Parte 2
VII. Paese reale (di sudditi e re) - Parte 1
VII. Paese reale (di sudditi e re) - Parte 2
VIII. Chi per strada va (per strada muore) - Parte 1
VIII. Chi per strada va (per strada muore) - Parte 2
IX. Le ultime volte (non bussano alla porta) - Parte 1
IX. Le ultime volte (non bussano alla porta) - Parte 2
X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 1
X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 2
X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 3
XI. Apriti cielo (e manda un po' di sole) - Parte 1
XI. Apriti cielo (e manda un po' di sole) - Parte 2
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 1
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 2
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 3
XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 4
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 1
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 2
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 3
XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 4
XIV. Io ti terrò la mano (tu tienimi l'anima) - Parte 1
XIV. Io ti terrò la mano (tu tienimi l'anima) - Parte 2
XIV. Io ti terrò la mano (tu tienimi l'anima) - Parte 3
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 1
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 2
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 3
XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 4
XVI. Vittoria (ma com'è piccola, ma com'è fragile) - Parte 1
XVI. Vittoria (ma com'è piccola, ma com'è fragile) - Parte 2

II. La nostra buona stella (è la peggiore tra le luci) - Parte 2

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By Lightning070


         Ricciardi varca la soglia della Questura a piè sospinto, in ritardo rispetto al suo solito. S'è addormentato verso le quattro di mattina, e solo per un paio d'ore, perseguitato dalla voce fantasma. Non è emicrania, quella che gli sbatacchia il cervello: è un maglio che gli batte attraverso il cranio dall'interno, il cui contraccolpo riverbera sullo zigomo ora gonfio e dolente.

Saluta affrettato Camarda, che incrocia sulle scale. Coglie il suo moto di sorpresa, che rallenta il movimento della sua mano alla fronte nel guardarlo in volto.

«Commissario...» quasi balbetta, per poi ricomporsi. «Nel vostro ufficio c'è una signora che vi attende.»

«Lo so, Camarda, grazie,» si lancia alle spalle, ormai avvezzo alla poca accuratezza dell'agente.

Finisce di salire i gradini a due a due e rallenta un poco in corridoio per non presentarsi sfatto e affannato alla vedova Gigliolo. Si ravvia i capelli e si rassetta la cravatta; per il viso non può far nulla, se non comportarsi in modo disinvolto. Spinge la porta del suo ufficio e il "buongiorno" che si era preparato gli muore sulle labbra. La donna che trova seduta ad aspettarlo non è decisamente Caterina Gigliolo.

«Livia.»

«Ricciardi,» ricambia lei, un lieve sorriso a incurvarle le labbra; si incrina nel fissarlo in volto, ma non aggiunge altro.

La sua figura elegante, fasciata da un abito fantasia dai toni caldi, stona in quell'ufficio così austero, di marmi freddi e legni massicci. Porta i capelli acconciati come sempre in rigide onde modellate, tenute al loro posto da forcine, e un velo di carminio esalta le sue labbra piene. In lei si evince senza difficoltà quel manierismo lievemente affettato e innascondibile di chi è cresciuto tra i salotti d'alto borgo romani: dal modo composto ma non rigido in cui siede, alla spilla floreale che spicca vezzosa sul bavero del cappotto.

Ricciardi esita sulla soglia, col palmo ancora incollato alla maniglia. Nota che Maione non è alla sua scrivania, e serra appena la presa sul metallo. Sa che il brigadiere pensa di avergli fatto un favore, a garantirgli riservatezza con Livia, e dovrebbe essergliene grato; invece, si sente immotivatamente tradito.

Chiude infine la porta e tentenna ancora, indeciso tra l'atto di un baciamano o di un saluto più freddo. Opta infine per temporeggiare e si toglie prima il soprabito, appendendolo all'attaccapanni e voltando per pochi istanti le spalle a Livia. Stringe la stoffa tra le dita, domando il pulsare alla testa e il moto d'indescrivibile disagio che gli si arrampica su per la schiena.

Non la vede dalla notte dell'arresto di Bruno da parte dei fascisti, mesi fa, quando si è presentato da lei in cerca d'aiuto, sebbene non lo meritasse dopo averla rifiutata. Non la vede da quando l'ha implorata di intercedere con l'enigmatico uomo dell'OVRA che la sorveglia per salvare l'amico dal confino. Non la vede da quando le ha rivelato, in un moto di pura dissennatezza, che il suo disinteresse sentimentale per lei è strettamente collegato alla disperazione in cui l'aveva gettato l'arresto del medico.

Non sa cosa aspettarsi da lei, per il semplice fatto che, in verità, non si era aspettato nemmeno di rivederla dopo quei fatti. Livia avrebbe ogni ragione di voler fingere che lui non esista; di fingere che sia morto assieme al suo segreto che, forse, è pure più esecrabile del vedere i morti.

Sa, però, che non l'ha tradito, o avrebbe ricevuto da tempo la visita della polizia segreta per essere portato in prigione o in un istituto psichiatrico. E questo, per lui, è già una prova di fiducia sufficiente.

Si avvicina a lei, che lo trae d'impaccio offrendogli il polso reclinato; Ricciardi ottempera in un moto automatico, prendendole la mano, chinandosi e frenando le labbra a una distanza nettamente superiore a quanto imporrebbe il galateo. Quella comunicazione silenziosa gli sembra esaustiva da parte di entrambi: lei non è qui per serbare rancore e lui non ha intenzione di dimostrarsi oltremodo distaccato, né in eccessiva intimità.

«Non mi aspettavo di rivederti qui,» riesce a dire infine, sperando di non suonare sgarbato.

Prende posto dietro alla scrivania e non gli riesce di non guardarla negli occhi: è bella e non riesce a negarlo nemmeno adesso, per quanto sia un pensiero scevro d'attrazione. Non sa dire se ne abbia mai provata, perché quella è una zona della propria mente ignota a lui stesso. Forse è per questo, che preferisce asserragliarsi là dietro e indossare le inequivocabili vesti di commissario, escludendo qualunque tipo di rapporto personale tra loro.

«Perdonami, non volevo prenderti alla sprovvista,» dice lei, inclinando appena il capo in un gesto elegante. «Il tuo superiore, Garzo, mi ha... intercettata per parlare della futura visita di Edda qui a Napoli. È stato particolarmente insistente.»

«Non stento a crederlo,» tira le labbra lui, accavallando le gambe e celando le mani nervose in grembo.

Il vicequestore Garzo non perde mai occasione di lustrarsi agli occhi dei "piani alti" e i buoni rapporti di Livia con la famiglia del Duce sono un'occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.

«Alla fine mi ha detto, in modo non troppo sottile, che stavi per arrivare e che avrei potuto trovarti qui.» Fa una pausa studiata, poi sembra colta da un'esitazione genuina. «Ho ritenuto opportuno... non dare adito a domande o far credere che fossimo in cattivi rapporti.»

Ricciardi si acciglia, interdetto, poi si ritrova ad abbassare gli occhi. Intuisce senza difficoltà i sottintesi di quell'affermazione, così come del suo gesto: con una donna come Livia apparentemente vicina a lui, gli sarebbe certo più facile dissipare qualsivoglia sospetto di frequentazioni sconvenienti, se necessario. Non si meriterebbe quelle premure, quella protezione. Non da lei. Non sono in cattivi rapporti, forse, ma non può dire che siano più in confidenza.

«Grazie. Non eri tenuta a farlo.»

«A dispetto di tutto, ho ancora un discreto interesse a preservarti,» sorride lei, col velo di malinconia di chi si trova davanti un qualcosa di irraggiungibile. «Non me ne verrebbe nulla, dal metterti in una posizione scomoda.»

I suoi occhi scuri si appuntano sul suo volto, sul livido evidente che gli segna uno zigomo. Sono interrogativi e, forse, accesi da un barlume di preoccupazione a cui, però, non dà voce. Ricciardi si limita a un lieve cenno del capo, non trovando parole giuste per ringraziarla ulteriormente, né ritenendole invero necessarie. Livia sa benissimo, a dispetto della discrepanza sentimentale tra loro, che lui la stima e rispetta molto più di tutti gli uomini che le ronzano attorno solo perché in cerca di un matrimonio da sfoggiare al dito.

«Posso chiederti perché sei qui in Questura?» chiede invece. «Ti ha fatta convocare Garzo?»

«Può solo sognare di avere quel tipo di influenza,» ride leggera lei, un suono pieno che si spegne presto. «In verità, ero qui per il caso di Fernando Gigliolo.»

«Lo conoscevi?»

Ricciardi si scosta dallo schienale, poggiando i gomiti sullo scrittoio in intento ascolto.

«Conoscevo sua moglie, Caterina. Era una mezzosoprano piuttosto nota, prima di ammalarsi. Cantammo insieme qualche operetta a Roma, quando eravamo entrambe agli esordi... Fernando l'ho incontrato di conseguenza.»

Ricciardi annuisce, grave, prendendo nota mentale di quelle informazioni.

«Mi dispiace. Le mie condoglianze.»

«Non servono a me,» si schermisce, con un cenno della mano. «Non eravamo affatto in confidenza. Speravo però di incontrare qui Caterina prima dei funerali, dato che dovrà tornare subito a Roma dopo questa trasferta obbligata.»

A Ricciardi non torna qualcosa, di quell'affermazione; gli pare quasi una scusa. È però certo della nota d'accusa nemmeno troppo sottile in quelle parole; e vi trova anche conferma involontaria del fatto che la donna fosse davvero a Roma. Non ritiene che Livia lo stia ingannando, almeno non su quel fatto.

«Come mai tutta questa fretta di tornare?»

«Di solito, sei più informato,» lo rimbecca lei, in punta di fioretto.

Ricciardi porta due dita a sostenersi la tempia, che gli duole con ferocia, non sapendo invero come giustificarsi. La maggior parte delle informazioni incamerate ieri, dagli interrogatori preliminari, sembrano essere sfumate nella notte, inghiottite dal pensiero ossessivo di quella voce. Il resto è perso tra il chiodo fisso che si ritrova in testa e l'insonnia che gli preme sulle palpebre.

«Contavo di interrogarla giusto stamattina. Potrò sempre chiederglielo direttamente.»

«Sospettate di lei?»

Il suo tono è stupito, tanto da causargli un lieve alzare di sopracciglia e un abbozzo di sorriso.

«È il mio lavoro sospettare di chiunque.».

«Lo so bene. Ho sperimentato i tuoi sospetti in prima persona.»

Ricciardi non ritiene opportuno giustificarsi: intravede l'intento giocoso di quell'affermazione, e si limita a un piccolo sospiro. È chiaro che Livia non serba rancore per quanto accaduto durante le indagini sulla morte di suo marito, il tenore Vezzi, ma è altrettanto chiaro che si diletti a punzecchiarlo per i metodi poco ortodossi che ha dimostrato in quell'occasione. In cuor suo, è contento di averla potuta scagionare e scovare il vero colpevole, al di là del lato professionale della faccenda.

«In questo caso, comunque, posso assicurarti che non troverai il minimo movente per Caterina,» riprende lei, lanciandogli uno sguardo intenso da sotto le ciglia.

«Ne sembri sicura.»

«Non si vedevano poi molto, nonostante fossero sposati, e credo di non averli mai visti scambiarsi effusioni di sorta, quando lui veniva ad assistere alle sue esibizioni. A stento potevano dirsi moglie e marito.»

«Non stai descrivendo un quadro che escluda a priori l'omicidio,» osserva Ricciardi, inclinando il capo con interesse. «Anzi.»

«Odio e indifferenza non sono la stessa cosa, commissario,» ribatte lei, col tono che diventa una lama. «Credo che soprattutto tu dovresti saperlo bene.»

Ricciardi incassa la stoccata in silenzio, per poi rianimarsi, incerto su come formulare la successiva domanda. Non è certo di aver colto il sottinteso, o se lo stia solo immaginando.

«Con questo, non stai dicendo che lei o lui avessero...» si umetta le labbra, un'ondata bollente che gli risale il collo, «...rapporti extraconiugali atipici?»

«Nulla di così indecente,» chiarisce secca Livia, gli sembra, con un poco d'imbarazzo tardivo per la scelta di parole. «È stato un matrimonio di convenienza. Almeno, così la vedo io.»

Ricciardi si chiede, fugacemente, se il tipo di rapporto che avevano i coniugi Gigliolo sia quello che aspetta lui nella vita, prima o poi. Una semplice facciata, un matrimonio senza astio, ma anche privo di qualsivoglia amore, mentre ciascuno vive la propria vita come meglio ritiene. Gli sembra una prospettiva grigia, soprattutto se considera come dovrebbe incastrarsi Bruno, il suo "rapporto atipico", in quel quadretto di rappresentanza.

«A breve, lo vedrò anch'io di persona,» conclude, più brusco di quanto intendesse. «Caterina Gigliolo dovrebbe arrivare a momenti; quindi, se non c'è altro...»

«Certo. Allora, vedrò di parlarle dopo che avrai finito con lei. Non voglio certo rubare altro del tuo tempo,» si affretta a dire Livia, già levandosi in piedi; si arresta lì davanti, però, senza dar cenno di avviarsi alla porta.

Ricciardi la fissa interrogativo, avvertendo di nuovo qualcosa di sospeso tra loro; qualcosa che Livia sembra cercare di tramutare in parole, le mani strette sul cappello in feltro e sui guanti.

«Non c'è un modo discreto per dirtelo,» sospira infine, insoddisfatta, «ma mi sento in dovere di farti presente che questo che hai tra le mani è un caso delicato,» sciorina poi, in fretta e a mezza voce, come se temesse di essere udita.

Ricciardi non trattiene l'espressione perplessa che gli corruga il volto. Garzo gli avrebbe di certo fatta presente la delicatezza, vera o da lui presunta, del caso Gigliolo, timorato com'è dal giudizio dei "piani alti". È pur vero che Livia ha accesso a fonti più dirette. Non sa in che rapporti sia con l'uomo dell'OVRA che vigila su di lei, ma forse non sono così freddi, se gli ha strappato quell'informazione. Non sa che pensarne, di tutto ciò, gli causa solo un formicolio spiacevole allo stomaco.

«Posso intuire come tu faccia a saperlo,» commenta solo, con un picco di nervosismo che lo induce a stringersi le mani tra loro, intrecciandole sullo scrittoio.

«Non sbagli,» conferma lei, senza inflessione. «Ma essere sotto sorveglianza ha anche dei vantaggi, di tanto in tanto.»

Ricciardi non fa in tempo a chiederle di più, che un rapido bussare alla porta lo interrompe. Bruno entra nell'ufficio senza neanche aspettare il permesso, come al solito.

«Ohi, Riccia'...» esordisce, già con un sogghigno sardonico stampato in volto, per poi fermarsi nei suoi passi, interdetto, quando si ritrova Livia davanti.

È rapido a riprendersi dalla sorpresa e scivola con disinvoltura in un'espressione amabile, rivolgendo un mezzo inchino alla donna e togliendosi subito il cappello.

«Signora Lucani, è un piacere rivedervi in una situazione decisamente più gradita dell'ultima volta, ovvero sulle mie gambe e non moribondo,» dice, con una naturalezza che Ricciardi gli invidia; e che non dovrebbe usare nel parlare del proprio arresto e pestaggio da parte delle camicie nere qualche mese fa.

«Dottor Modo,» sorride di rimando lei, senza battere ciglio, «anche per me è un piacere. Vedo che vi siete rimesso del tutto.»

Bruno fa per replicare, poi sposta lo sguardo e Ricciardi vede la luce nel suo sguardo mutare in modo repentino quando lo appunta sul suo volto.

«Sì, sono fresco come una rosa... al contrario del nostro commissario, qui,» commenta, riuscendo a mantenere un tono neutrale e accennando col sigaro tra le dita al marchio che gli segna lo zigomo. «Ma che t'è capitato? Di solito sono io, quello ridotto così. I bravi fasci se la son presa pure con te?»

«Ti prego, non scherzare,» scrolla il capo lui, trattenendo l'impulso di coprirsi il livido. «E abbassa la voce.»

Coglie, di sottecchi, Livia che sembra osservarli con attenzione e ha la sgradevole sensazione di essere sul palco di uno spettacolo di rivista.

«Io non scherzo e manco quella tumefazione...»

Ricciardi anticipa il gesto di Bruno, che accenna a volergli esaminare il volto più da vicino, con l'occhio clinico consumato di chi visita decine di pazienti ogni giorno. Si ritrae di scatto, fulminandolo con un'espressione che spera sia eloquente: non qui, non ora.

«Hai il referto di Gigliolo?»

Bruno rinuncia all'esame e gli mostra la cartellina che ha in mano.

«Certo, eccolo qua... ho pure fatto le ore piccole per te,» dice, porgendoglielo, per poi serrare la presa quando lui fa per prenderlo. «È un baratto, Ricciardi, so che sei un uomo d'onore. Che t'è successo, se si può dire di fronte a una signora?»

Ricciardi si ritiene un uomo paziente, ma Bruno è in grado di portarlo oltre ogni soglia di sopportazione, quando ci si impegna; ed è abbastanza convinto che adesso il motivo sia la presenza di Livia. Bruno è ignaro di cosa sappia la donna, ma di certo sa che lui è in una posizione imbarazzante, e non mancherebbe mai di infilare il dito nella piaga, a dispetto di qualunque Giuramento d'Ippocrate.

«Modo, quando hai finito di seccarmi, puoi farmi la grazia di dirmi qualcosa di utile al caso?» dice tra i denti, ottenendo infine il referto quando il medico molla la presa di colpo.

Il medico, sotto lo strato di goliardia, gli rifila uno sguardo più pungente, scrutinatore. Si rigira il sigaro tra le dita. Ricciardi è sicuro che si stia anche rigirando in testa qualunque scenario possibile riguardo a quell'acciacco e alla sua reticenza a parlarne. Tuttavia, rinuncia a insistere, guardando invece di sfuggita Livia che, ancora in procinto di congedarsi, sembra ora decisa a rimanere il tempo necessario per ascoltare qualcosa di più sul caso Gigliolo.

Ricciardi potrebbe invitarla ad andarsene, ma non vuole privarsi di una possibile fonte d'informazioni sul caso. D'altro canto, se pure lo facesse, Livia potrebbe sempre chiedere al fantomatico uomo che la tiene d'occhio di indagare per suo conto. Per quanto possibile, vorrebbe tenersi ben lontano dall'occhio della polizia segreta.

«Parla liberamente,» risponde alla domanda implicita di Bruno, «anche se per i miei gusti lo stai facendo pure troppo.»

«Conoscevate la vittima?» si ricompone lui, rivolgendosi a Livia.

«Non eravamo in confidenza, quindi non sentitevi in dovere di lesinare sui dettagli,» minimizza lei, poggiando le mani sullo schienale della sedia, sopra la tesa del cappello e i guanti lunghi ripiegati.

«Ah, non c'è molto di truculento da dire,» dice Bruno, accennando poi col mento al referto. «Ma non mi torna mezza riga della necroscopia che ho stilato.»

Ricciardi si riscuote, poggiando la nuca sulla sedia e guardandolo fisso dabbasso.

«Cioè? In che senso?»

«Te lo dirò dopo che avrai letto il referto,» taglia corto Bruno. «Però, ti dico sin da ora che è del tutto impossibile che sia stata la vedova Gigliolo a ucciderlo, pure se fosse stata inverosimilmente a Napoli.»

Ricciardi rivolge uno sguardo involontario a Livia, nei cui occhi grandi e scuri brilla una scintilla di compiacimento.

«Ne sei certo?»

«Per offrirti un metro di riferimento...» Bruno toglie il sigaro dalla bocca, gesticolando per dare enfasi al discorso. «Nonostante tu mi dia sempre validissimi motivi per farlo, neanch'io riuscirei ad accopparti a quel modo, se mi venisse la fantasia. Oltre al fatto che tu pesi come uno scugnizzo bagnato e Gigliolo faceva invece onore alla tavola.»

Ricciardi incassa senza batter ciglio, abituato a quel modo di fare dello spirito che, in altre circostanze, divertirebbe anche lui. Al momento, preferirebbe non essere bersaglio del suo umorismo sotto lo sguardo di Livia.

«Quindi è stato presumibilmente un uomo, ben piazzato, corpulento?»

«Un Golia, oserei dire. Magari uno anche abituato a lavori pesanti. Di certo non una donna affetta da enfisema polmonare... L'ho incrociata di sotto e stavo per visitarla sul posto e portarmela appresso in ospedale, credimi.»

Fa una pausa, notando il suo sguardo ancora dubbioso, anche se in verità lui sta pensando al fantasma di Gigliolo, non certo alle affermazioni di Bruno.

«Tu... che ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»

Quella sarebbe stata una frase perfetta da rivolgere a una coniuge ormai assente dalla propria vita, soprattutto se Fernando Gigliolo credeva si trovasse ricoverata a Roma. Soltanto che, in luce di quelle ultima novità, la sua teoria si sfalda come un castello di carte nemmeno costruito per metà.

«Senti, Ricciardi,» lo riscuote il medico, «se vuoi fare san Tommaso e ti presti come manichino di sperimentazione, ti mostro in modo empirico come ciò sarebbe del tutto impo–»

«Mi fido, mi fido,» lo frena subito, stringendosi la radice del naso, «lascia qua il referto, che ci do un'occhiata. Ne discutiamo dopo che avrò sentito la vedova.»

«Vuoi interrogarla ugualmente?» interviene Livia, con fare un poco accusatorio.

«Il fatto che non sia lei l'artefice diretta del delitto non esclude che ne sia la mandante.»

«La fiducia nell'umanità è sempre stato il tuo miglior pregio,» bofonchia Bruno, rimediandosi un'occhiataccia da lui e un sorriso furtivo da Livia. «Senti, fa' quello che devi, ma non affaticarla. Che lo so, come sei fatto.»

«Io?» si riscuote, massaggiandosi non troppo discretamente la tempia; il gesto non sfugge a Bruno, che gli rifila uno sguardo di rimprovero, come se fosse colpa sua, se soffre d'emicrania.

«Sì, tu, che col poco tratto che ti ritrovi me la spedisci ampresso ampresso ai Pellegrini per un collasso. Ora, con permesso...»

Bruno si calca in testa il cappello, rivolgendo un cenno di congedo a entrambi. Ricciardi, con la punta delle dita poggiata sul piano della scrivania, parla prima di poter pensare:

«A proposito di tatto,» lo ferma, prima che imbocchi la porta. «Stavo giusto venendo a conoscenza del fatto che il caso Gigliolo è delicato

Guarda Livia a segnalare la fonte dell'avvertimento, e lei fissa Bruno con intensità, confermandolo tacitamente.

«Sì, lo immaginavo dal colore della camicia di Gigliolo,» Bruno rivolge un cenno del capo a Livia a mo' di ringraziamento. «Il promemoria è però del tutto superfluo, Ricciardi, dato che non era nei miei piani dissacrarne la salma, nonostante la tentazione ci sia stata.»

«Bruno!»

«E dai, non ti scaldare sempre,» sbotta lui, rifilandogli un colpetto sulla spalla e ignorando il suo sguardo esasperato. «Ci vediamo dopo al Gambrinus, e leggiti bene quel referto,» conclude, inforcando gli occhiali da sole. «Signora Lucani, spero alla prossima... magari, con l'occasione di sentirvi di nuovo cantare presto.»

«Vedo che si è sparsa la notizia,» replica lei, ed è sorpresa, sì, ma anche visibilmente lusingata.

Bruno sorride affabile.

«Con una voce del genere, sarebbe strano il contrario,» proferisce, con un ultimo cenno galante del cappello verso di lei.

Ricciardi incassa il mento sul petto, frenando un sorrisetto a un'altra delle sue pantomime che, lo ammette, gli riescono molto bene; forse, in fondo, non lo sono nemmeno.

«Stammi bene, Riccia',» si congeda, con un'ultima occhiata al suo volto, un muto "dopo non mi scappi".

Lui si limita ad alzare appena la mano a mo' di saluto, accompagnato dalla porta che si chiude. È consapevole di non essere in grado di celare del tutto l'espressione più luminosa che gli si è dipinta addosso, tanto quanto il sorriso che preme per inclinargli le labbra; e, infatti, si ritrova le iridi castane di Livia puntate addosso in modo insistente. Non sembra infastidita, quanto pensosa, e la sua bocca è stretta in una linea carminio che suggerisce apprensione.

«Non è solo il caso a essere "delicato",» dice soltanto, rivolgendo lo sguardo alla direzione in cui è appena sparito Bruno. «Anche tu dovresti usare più cautela.»

«Non facciamo nulla di diverso dal solito,» ribatte lui, d'istinto, serrando poi le labbra di scatto, con un lampo d'allarme tardivo.

Il plurale gli è sfuggito e ora è tardi per rimangiarselo. Si maledice tra sé: ha avventatamente rivelato che Bruno non è affatto estraneo ai suoi sentimenti, ma vi è invece ben partecipe. Livia non è così disaccorta da non notarlo. Infatti, batte piano le ciglia e abbassa lo sguardo sulle mani che ancora stringono il cappello. Non pare affatto stupita di quel fatto. Le sue dita stuzzicano i petali del fiore di tessuto a decoro della banda, come cercando le parole giuste tra essi.

«Allora, stai ben attento a ciò che fai. Per il bene di entrambi, Luigi,» conclude, col suo nome usato come una stoccata. «Non solo io ho occhi per vedere.»

Livia gli lancia un ultimo sguardo prolungato, teso tra loro come una corda di violino, prima di avviarsi verso la porta. Ricciardi si alza pronto ad accompagnarla, aprendola per lei.

«Grazie, Livia,» aggiunge, con più dolcezza di quanta ne abbia usata finora; sa che non v'è bisogno di aggiungere altro.

Lei non risponde: si limita a un sorriso fievole, ricolmo d'affetto nostalgico e ben presto chiuso oltre la soglia. Ricciardi si siede alla scrivania, sentendosi fin troppo spossato da quella breve conversazione che gli si rimesta in testa come magma inquieto.

Quasi a comando, Maione entra nell'ufficio pochi istanti dopo. Ricciardi lo saluta con un semplice sguardo, ignorando le occhiate incuriosite e indagatrici che gli lancia, perché la discussione con Livia è stata tutt'altro che amena. Non vuole pensarci, a tutti i sottintesi di ciò che gli ha detto, o alla sensazione che, fuori da lì, vi sia un mondo che diventa ostile non appena si arrischia a osservarlo troppo da vicino.

Vede Maione farsi serio, cogliendo prima quella sua aria tetra e poi, presume, il suo volto malridotto, e interpretandoli come segnali per evitare qualsivoglia commento.

«Commissario, la vedova Gigliolo è arrivata,» gli annuncia invece, dopo qualche momento di silenzio.

Ricciardi si stringe le tempie, assalito da un lieve principio di nausea. Si impone di concentrarsi.

«Falla entrare,» ordina, lasciando ricadere di scatto la mano e ravviandosi i capelli.

Butta fuori un respiro silenzioso, chiudendo brevemente gli occhi a un nuovo assalto del dolore che gli pulsa nella testa. L'avvertimento di Livia continua a risuonargli in testa, assieme alle troppi voci che la affollano, e sembra quasi soffocarle.

Non credeva ci sarebbe mai stato qualcosa di altrettanto angosciante, nella sua vita, che vedere i morti.

Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
aguzzate la vista, ché, come in ogni giallo che si rispetti, i dettagli sono importanti :D

Livia, come avrete immaginato, non è un mio OC, ma il suo ruolo sarà abbastanza limitato e spero che il suo rapporto con Ricciardi sia risultato chiaro. Di base, è infatuata di lui ed è l'unica a sapere che lui non è interessato alle donne (o meglio, non a tutte).  Per più retroscena, la mia storia "La finestra senza sole" amplia l'argomento, ma è assolutamente superfluo leggerla per seguire questa, in quanto i riferimenti sia a essa che alla serie sono veramente sporadici e comunque sempre spiegati, come avviene qui.

A parte questo, spero vogliate lasciare una stellina o un commento per farmi sapere che ne pensate!
Al prossimo capitolo,

-Light-

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