The Not Heard

By azurahelianthus

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⛓️ DARK ROMANCE AUTOCONCLUSIVO ⛓️ Ci sono vendette che non hanno tempo e sbagli per cui non esiste redenzione... More

𝐓𝐇𝐄 𝐍𝐎𝐓 𝐇𝐄𝐀𝐑𝐃
𝐏𝐑𝐎𝐋𝐎𝐆𝐎
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XXXIII
XXXV
𝐄𝐏𝐈𝐋𝐎𝐆𝐎
𝐋𝐀 𝐋𝐄𝐓𝐓𝐄𝐑𝐀

XXI

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By azurahelianthus


Prendete del ghiaccio, munitevi di acqua
fresca o spogliatevi un po'.
Preparatevi perché le temperature
stanno per alzarsi...
🌶️

Airton

336 erano le ore passate senza di lei e io le percepivo tutte, una ad una, perfino sulle ossa. Ero sempre stato abituato a sentirmi al solo al mondo e proprio per questo non concepivo l'idea di sentirmi più in solitudine adesso, dove la sua presenza mancava, che mai.

Poteva davvero divenire così importante la presenza di una persona da modificare persino la propria concezione di solitudine? Per me era una cosa insana e forse lo era sul serio.

Mi stavo ammalando di una malattia per cui non esisteva alcuna cura e a cui il mondo era così abituato da averle assegnato un nome così dolce da far dubitare che lo fosse. Ma pur sempre una malattia rimaneva, anche se il suo nome era "amore".

Con la nuca colpii più volte il muro logoro della mia cella, rimanendo seduto sul materasso con i gomiti puntellati sulla ginocchia e un silenzio assordante attorno, fatta eccezione per il mio stomaco che continuava a brontolare per la fame. Chiusi gli occhi quando percepii l'insorgere di una colica dovuta proprio alla mia scarsa alimentazione e fui costretto a distendermi, allungando il più possibile le gambe per provare inutilmente a ridurre la sofferenza. 

Aprendo gli occhi la mia vista si sfocò, vittima di un capogiro, per cui preferii richiuderli e concentrarmi sul mio respiro. In quel momento i miei pensieri si concentrarono su di lei, sulle sue dita affusolate, sulle sue carezze delicate, di quelle che non avevo mai avuto da nessuno che non fosse mia madre, e sulle sue labbra morbide, dello stesso sapore di una ciliegia appena raccolta. Rivedendo i suoi capelli biondi in maniera così vivida nei miei ricordi mi ritrovai a sorridere e pensai di dovergli tirare duramente qualche ciocca quando l'avrei rivista, e ciò solo per punirla per avermi lasciato.

In realtà ero felice che fosse andata via per un po' e sperai che il suo Natale fosse stato anche soltanto un briciolo migliore del mio, ma non ne ero molto sicuro. Il periodo delle feste era una lenta agonia per due cerchie di persone: per chi doveva convivere con delle sedie che prima erano sempre occupate e che adesso erano vuote e per chi lo passava rinchiuso obbligatoriamente fra quattro mura.

Mi coprii gli occhi con il braccio, la luce della cella sapeva essere molto fastidiosa e spesso era la causa di un martellante mal di testa che mi costringeva a rimanere fermo, assolutamente immobile, per gran parte della giornata. Il pensiero che la mia vita fosse ridotta a questo, al dolore e alla noia perenne, prima mi provocava un'ansia difficile da digerire, mi portava sull'orlo di un attacco di panico, e dopo, quando quella sensazione scemava, mi lasciava addosso una rabbia cieca.

Probabilmente per questo non avevo mai ispirato simpatia a nessuno qui dentro, perché avevo così tanta rabbia dentro che la mia perenne espressione era distaccata e furiosa. Non mi importava del fatto che la colpa della mia condanna fosse riconducibile solo ad una ristretta cerchia di persone, non me ne fregava nulla di prendermela solo con i diretti interessati.

No, io ce l'avevo con la vita per quello che mi stava riservando e visto che non potevo prendermela con essa, allora me la sarei presa con il mondo intero. Fatta eccezione per lei.

Un altro sorriso mi si aprì sulle labbra al pensiero di come avrebbe reagito se avesse saputo tutto quello che aveva combinato Theodore in queste due settimane: aveva reso una prigione l'inferno sulla terra e forse neanche questa metafora sarebbe bastata. Ci costringeva a lavarci con l'acqua gelida tre volte al giorno, ci aveva privato della misera coperta che normalmente ci era concessa ed era da tempo che desideravo dormire al caldo come una qualsiasi persona normale, e i pasti erano di nuovo stati dimezzati. A me non era cambiato molto, pativo la fame da tempo e il mio stomaco si era adattato, tuttavia era stato straziante udire Rem arrivare al pianto cercando di gestire i sintomi di un evidente inizio di denutrizione.

La prigione era un lamento continuo, con gemiti di dolore, crisi di rabbia e singhiozzi continui, un luogo dove si potevano udire tutti i modi in cui degli esseri umani tentavano di affrontare la sofferenza.

E il peggio era sicuramente essere stati privati anche di questo, della possibilità di sfogarci, perché era stato nuovamente istituito un coprifuoco che segnava l'inizio di un silenzio totale che sarebbe dovuto durare fino all'alba della mattina dopo. Le punizioni corporali se avessimo disubbidito alle regole, soprattutto a quella, sarebbero state ben più gravi adesso che le "guardie buone" erano andate in ferie. In quelle due settimane non c'era nessuno che avrebbe preso le nostre difese, che avrebbe guardato i nostri interessi, ma c'era chi, di quella situazione temporanea, se ne era approfittato.

Lo ricordai quando mi voltai di lato, una volta terminata la colica, e venni colpito da una fitta acuta che partì dal fianco e si propagò fino alla spina dorsale. Cairo si era divertito parecchio quando mi aveva beccato mentre tentavo di consolare a distanza Rem, visto che le nostre due celle erano una di fronte all'altra, dopo aver sentito i suoi gemiti sofferenti soffocati dal cuscino. La punta di ferro del suo piede, fasciato da un paio di stivali di marca, si era scagliata più volte sul mio fianco e poi sulla mia schiena, creando delle ecchimosi dal colore violaceo che ancora, a distanza di un paio di giorni, mi facevano male.

Ricordavo di non essermi opposto alle percosse, di non aver alzato un dito per difendermi. Avevo accettato il mio crudo destino nel più totale silenzio, soffocando i miei gemiti di dolore tenendo la bocca sigillata, e distraendo il mio cervello con delle allucinazioni. Ogni volta che mi trovavo in quelle situazioni vedevo una bambina dalla coda bionda, corta e scombinata, che da lontano mi sorrideva e in qualche modo leniva il mio dolore. L'avevo vista anche quella volta.

Ricordavo bene di aver pensato soltanto "ti prego torna", solo questo. E di averlo scritto a ripetizione, di aver riempito due pagine del mio taccuino giallo con quelle tre parole. Ti prego, torna. 

Il rumore di una manganellata sul ferro della mia cella mi fece aprire gli occhi di scatto, puntandoli verso l'artefice. «Chi dorme non piglia pesci amico mio!».

Vedere i suoi luminosi occhi scuri e il suo sorriso ironico fu la cosa migliore della giornata, ma questo solo perché voleva dire che anche lei era tornata. «Agente Adams, è già tornato? Che peccato».

«E io che pensavo fossi felice di vedermi». Sospirò affranto, ma con la stessa luce ironica di sempre nello sguardo. «Puoi chiamarmi Salah, farmi dare del lei da te mi disgusta».

«C'è chi lo esige e ti riempie di botte se non lo fai. Abitudine».

I suoi occhi persero luminosità. «Non con me, con me non devi mai pensare neanche per un solo secondo che potrei usare quei modi barbari su di te. Né su di te, né su nessun altro. Mai».

«Non mi fido facilmente, anche in questo caso è abitudine, nulla contro di te. Vedremo con il tempo, Salah». Mi alzai lentamente, un capogiro era l'ultima cosa che volevo, e mi avvicinai alle sbarre per circondarle con le dita. «Che sei venuto a fare?».

Agguantò il mazzo di chiavi che aveva agganciato alla cintura, lì dove c'era la fondina della pistola, e aprì la cella. «C'è qualcuno che vuole vederti amico, ma se non vuoi posso sempre dirle-».

«Portami da lei». Non lo lasciai neanche finire, superai le sbarre e mi incamminai verso le scale.

Alle mie spalle sentii una risatina. «Ai suoi ordini».

Lo osservai mentre, con lo stesso mazzo di chiavi, apriva le sbarre che separavano l'esterno dall'ala dei detenuti. Era un bel ragazzo, i suoi occhi scuri esprimevano sicurezza e divertimento e quello che per alcuni era una minaccia velata, una sfida, per me era una manna dal cielo. Eppure molto spesso mi ero ritrovato a dover storcere il naso per via del nodo allo stomaco che mi si presentava quando lo vedevo vicino a Nicole.

Salah si comportava come se avesse un rapporto già molto stretto con lei e la cosa, per qualche motivo, da una parte mi infastidiva. Ma non era la stessa gelosia morbosa che provavo verso Isaiah, che reputavo un degno competitore e un abile maestro di furbizia, no. Era una sensazione molto diversa e che non riuscivo a comprendere a fondo. Come se fossi cosciente del fatto che lui sapesse qualcosa che a me, invece, veniva nascosta.

Solo che ancora non sapevo cosa e non avevo idea di quanto, questa volta, mi sarebbe costato saziare la mia naturale curiosità.

Era strana oggi, quasi mi sembrava una persona totalmente diversa da quella che era quando era partita.

La studiai a fondo mentre si accomodava dall'altra parte della scrivania, dopo aver preso un lungo sorso d'acqua, e molte cose mi avevano portato a pensare che qualcosa le avesse fatto cambiare idea sulla nostra vicinanza. Primo fra tutti, Nicole teneva gli occhi bassi ed evitava di incrociare il mio sguardo, come se farlo potesse buttare giù i muri che aveva innalzato. 

Come seconda cosa era tornata a sedersi dall'altra parte della sua scrivania, rimettendo fra di noi una certa distanza fisica e riportando una sorta di distacco professionale che con il tempo si era distrutto a causa dell'attrazione spontanea che provavamo l'uno per l'altro. E per ultimo, forse visto come era andata l'ultima volta con la sua gonna, aveva indossato un raffinato tailleur nero che non evidenziava in nessun modo le sue curve generose.

Ovviamente non era abbastanza, anche se non si vedevano io sapevo bene che c'erano e la sola consapevolezza mi faceva prudere le mani tanto era alta la voglia di metterle le mani addosso nel modo più delicato, anche se perverso, possibile. Dovevo aver sottovalutato di molto la sua intelligenza se aveva davvero creduto, anche solo per un momento, che tutto questo potesse bastare a farci smettere di attirarci come due calamite.

«Airton, mi stai ascoltando?». La sua voce esasperata attirò la mia attenzione, quindi mi concentrai sulle sue parole piuttosto che sui suoi movimenti all'apparenza calmi ma ben calcolati.

Battei le palpebre più volte per ritornare in me. «No. Stavi dicendo?».

Si toccò i lati del naso con due dita e prese un grosso respiro prima di parlare, meditando se darmi un ceffone o riprendermi solo con le parole.

«Airton che ti prende oggi? Non mi sembra di aver parlato in una lingua a te sconosciuta, né di aver intrapreso una conversazione che richiede un certo quoziente intellettivo».  

«Che prende a te semmai». Inarcai un sopracciglio. «Mi sembri un tantino nervosa oggi, oltre che distaccata».

Mi fulminò con lo sguardo e raddrizzò la schiena. «Quindi solo perché non ti salto addosso al momento dei saluti mi reputi nervosa e distaccata? Non tutti soffrono di satiriasi come te».

Ouch. Colpito in pieno. «Non mi pare ti sia dispiaciuto due settimane fa, quando ero in procinto di infilarti una mano sotto la gonna usando le mie dita per regalarti un orgasmo. D'altronde hai ragione, i peccati si confessano solo dopo averli compiuti».

«Tutta questa confidenza chi te l'ha data? Sta' al tuo posto, Parisi, che non hai niente di speciale rispetto agli altri. Le tue dita sono come quelle di tanti altri». Si alzò in piedi stizzita e si avvicinò alla porta come se volesse cacciarmi via, ma evidentemente non aveva visto il mio cambio di espressione. Vedevo rosso.

Con poche falcate le fui dietro, allungando il braccio per chiudere la porta con un tonfo. Con un movimento repentino girai la chiave nella toppa e la serratura emise un "click" mentre si chiudeva. Lei si girò di scatto verso di me e si ci appoggiò contro, dalle sue labbra sfuggì un suono sorpreso ma i suoi occhi continuavano a sfidarmi, per nulla intimoriti dal fatto di essere rimasta intrappolata lì dentro con me. Anzi, ebbe il coraggio di fulminarmi un'altra volta.

Mi accostai al suo orecchio e ripetei le sue parole. «Le tue dita sono come quelle di tanti altri?».

«Mi pare che tu abbia sentito alla perfezione».

Fu il mio turno di guardarla male. «Rimangiatele».

«Non ci penso neanche». Alzò il mento orgogliosa.

La afferrai per le guance, avvicinandola ancora di più al mio viso e combattendo la voglia di divorarle le labbra. «Chiedimi scusa».

«Puoi... scordartelo».

La strattonai con una mossa decisa, ma evitando di farle troppo male, e avvicinai il suo orecchio alla mia bocca. «Allora sarò costretto a dimostrarti che sì, le mie dite sono come quelle di molti altri, e che no, gli altri non si avvicineranno mai neanche lontanamente a quello che posso farti provare io». Le diedi solo il tempo di assimilare le mie parole prima di usare l'altra mano, la destra, per aprirle i bottoni dei pantaloni e farla scivolare dentro le sue mutandine.

Il suono sorpreso che emise venne sostituito da un gemito soffocato dalle mie labbra quando le mie dita sfiorarono la sua intimità, poco prima di entrare dentro di lei e godere della scivolosità che si era creata, probabilmente era bagnata ancora prima che la afferrassi in quel modo duro. E questo perché, volente o non volente, lei voleva me nello stesso modo intenso e privo di senso con cui io volevo lei.

Le mie dita si mossero abili anche dopo tutto quel tempo, sapendo bene i punti da sfiorare, le zone in cui insistere, quelle in cui essere più delicato e quelle dove avrei dovuto utilizzare più intensità. Non ne ero sicuro, ma era come se la visione del piacere sul suo viso mi incentivasse a tirare fuori il meglio di me per portarla all'oblio, lì dove avrebbe smesso di provare a resistermi. Le agguantai il labbro fra i denti e lo morsicai, attento a non farla sanguinare, poco prima che le divorassi la bocca come se fosse la fonte di quel nutrimento di cui il mio corpo scarseggiava.

Non mi importava del cibo, l'unica fame che sentivo adesso era la fame di lei.

Il suo corpo iniziò a tremare leggermente mentre provava a scostarsi spontaneamente dalla mia presa, il piacere era troppo intenso, e dalle labbra gli sfuggirono dei gemiti troppo rumorosi che fui costretto, ma non dispiaciuto, a zittire con i miei baci. «Stai facendo troppo rumore», le sussurrai sulla bocca.

Tirò la testa indietro, appoggiandola alla porta, e osservai il suo petto alzarsi e abbassarsi velocemente. «Allora fermati».

«Sì, ma non per quello che pensi tu». Sfilai la mano che la stava toccando in modo peccaminoso in mezzo alle gambe, sotto il suo sguardo contrariato sebbene cercasse di nasconderlo, e un ghigno mi allargò gli angoli della bocca. «Così è troppo facile, non voglio che finisca troppo in fretta. Ho ancora bisogno di te».

Le sfilai i pantaloni e li feci cadere a terra, arpionandola dalle cosce per permetterle di circondarmi la vita con le gambe. Con una mossa frenetica, e con l'unica mano libera che avevo visto che con l'altra la sostenevo, mi abbassai i pantaloni che si fermarono attorno alle caviglie, bloccati dalle scarpe rovinate. Volevo assolutamente evitare il rischio di una gravidanza, per cui mantenni i miei boxer al loro posto e spostai di lato soltanto le sue mutandine poco prima di calarla lentamente sul mio grembo per allineare le nostre intimità.

Era talmente tanto bagnata da scivolare perfettamente sul mio rigonfiamento, talmente duro che mi doleva già da qualche minuto e che aveva trovato pace solo adesso. Il piacere mi si raggruppò sullo stomaco, la sensazione di sentirla così vicina, lì dove doveva stare, era un'emozione inspiegabilmente intensa che mi faceva venire voglia di urlare, ma non potevo assolutamente. Le strinsi la carne dei glutei fra le mani con così tanta forza da essere certo di lasciarle dei lividi sulla pelle e un po' mi dispiacque, ma dovevo sfogare il mio piacere in un modo che non facesse troppo rumore e quello era l'unico.

La sentii ansimare e gemere allo stesso momento, mormorando il mio nome come se fosse una preghiera, e quel suono dolce arrivò dritto alla mia parte più intima che si indurì più del sopportabile. I suoi movimenti frenetici, le nostre fronti sudate poggiate l'una contro l'altra e i mormorii sconclusionati che ci uscivano dalle labbra mentre ci donavamo piacere a vicenda senza effettivamente alcuna penetrazione la diceva lunga sulle sensazioni incredibili che avremmo provato se fossi stato dentro di lei.

Mi sentivo un forsennato, ero sull'orlo del precipizio in balia di emozioni che non avevo mai provato prima con altre donne ed ero sicuro che non dipendesse dalla mia astinenza: l'amore con un'altra donna non sarebbe mai e poi mai stato intenso allo stesso modo e la consapevolezza di ciò non mi destabilizzò minimamente. 

Per me andava bene fare l'amore con lei, e solo con lei, per il resto della mia vita. Anche se lei non lo avrebbe mai saputo.

«A-airton», la sentii ansimare e il suo fiato caldo si infranse sulla mia bocca poco prima che la baciassi, non riuscivo proprio a farne a meno. Sperai che non lo notasse.

La appoggiai alla porta per avere una maggiore stabilità e continuai a sostenerla con una mano soltanto, infilando l'altra fra di noi. Quasi mi sorprendevo di riuscire ancora a ragionare malgrado il piacere mi stesse offuscando il cervello, a malapena sentivo di potermi reggere in piedi e sapevo bene di essere pronto ad esplodere come una mina vagante. Ma, prima di tutto, mi interessava pensare a lei

Sentirla piagnucolare a causa dell'intensità di quello che stava provando mi riempì il petto d'orgoglio, soprattutto perché dava conferma a quello che le avevo detto prima di mostrarle quanto potesse essere meraviglioso quello che avremmo potuto avere se solo si fosse lasciata andare un po' di più.

«Solo un po' di più». Le mormorai, accarezzandola fra le gambe con movimenti frenetici che non lasciavano spazio ad un ripensamento.

Tornò nuovamente a tremare da capo a piedi, distanziandosi da me per poggiarsi totalmente sulla porta così da inarcare la schiena e riuscire a consentire alle mie dita più libertà di movimento. Quella posizione era perfetta anche per me, le scariche di piacere che mi colpivano ad ogni colpo di anche che le davo, e che mi avvicinava alla sua intimità così fradicia, era semplicemente arte.

Fui costretto a spazzare via la nebbia del piacere quando la sentii farneticare e supplicare a voce più alta del dovuto, per cui dovetti agire in fretta. Le chiesi di rinsaldare la presa sulla mia vita con le sue cosce e utilizzai l'altra mano, quella che prima la sosteneva, per posarla sulle sue labbra e metterla a tacere. Osservai i suoi occhi lucidi posarsi sui miei e il mio sguardo vagò per il suo viso: aveva i capelli scombinati, le guance rosee e le labbra gonfie e martoriate dai miei baci. Dio, non sarebbe mai potuta essere più bella di così.

Scattai mentalmente una foto di Nicole in quel momento, così bella e totalmente arresa a me fra le mie braccia, e la conservai gelosamente dentro di me. Lì dove sapevo che nessuno me l'avrebbe mai potuta portare via, né loro né lei.

«Zitta. Non vorrai che ci scoprano, vero nica?».

Scosse lentamente la testa, poco prima di chiudere gli occhi per via di un'altra scarica di piacere che la percorse da capo a piedi. Lo sentivo, sentivo che era dannatamente vicina, e non aveva più senso torturare né me né lei. Aumentai il ritmo del mio corpo, altre poche stoccate e avrei perso la testa, e delle mie dita in mezzo alle sue gambe, anche se lei fu così brava da allargarle meglio per facilitarmi l'azione.

E pochi secondi dopo la vidi venire, la vidi lasciarsi andare del tutto per donarmi una parte di lei che non avrei mai più dimenticato, e lo fece fissandomi negli occhi, muovendosi più freneticamente su di me per aiutarmi ad arrivare al culmine e permettendomi di soffocare i suoi gemiti fuori controllo con le mie labbra sulle sue.

«La mia brava ragazza», mormorai fuori controllo.

Mi leccai le stesse dita che avevo usato per farla venire ed ero certo che fosse stato quello a darmi il colpo di grazia, il suo sapore, perché pochi secondi dopo venni anche io.

Intrecciai le mani con le sue e le appoggiai con violenza alla porta, poggiando persino tutto il nostro peso su di essa perché non riuscivo più a sorreggerla tanta era l'intensità con cui ero venuto. Diamine, mi tremavano le gambe e il cuore sembrava voler schizzare fuori dal mio petto per baciarla a sua volta.

Nascosi il viso sull'incavo del suo collo e per qualche minuto mi beai del suo dolce profumo per ritrovare il controllo che avevo perso, ma soprattutto per essere certo di non farci cadere a terra subito dopo.

«Airton».

«Lo so, non dirlo già adesso. È stato un errore, non dovevamo farlo, io sono un detenuto e tu sei la mia psicologa e bla bla bla».

Il suo corpo tremò leggermente a causa di una risatina. «Non stavo dicendo nulla del genere, ma grazie per aver anticipato quello che sicuramente avrei detto dopo».

«Allora cosa volevi dirmi?». Alzai la testa e mi distanziai per riuscire a guardarla in viso.

Un sorriso dolce le allungò gli angoli delle labbra ancora arrossate e i suoi occhi lucidi mi sembrarono molto diversi da quelli con cui mi aveva accolto. Era tornata la mia Nicole. «Grazie».

«Grazie?», ripetei confuso. Forse avevo sentito male, dovevo ancora scacciare la nube di piacere che mi aveva colpito.

«Sì, grazie. Solo grazie».

«Non capisco per cosa».

«Perché quando il mio cervello mi sabota e mi fa credere che non merito tutto quello che potrei avere tu mi ricordi che le cose non si meritano, si vivono e basta». Mi accarezzò il viso con un dito con fare pigro, si vedeva quanto fosse stanca ma appagata. «Tu mi rendi la versione di me che credevo non esistesse più».

Ecco, quella frase mi rimase impigliata da qualche parte fra lo sterno e la gabbia toracica. Il pensiero che lei si prendesse la premura di ringraziare me per qualcosa che lei mi aveva insegnato, perché sì, era lei che mi stava insegnando a capire che molte cose non è necessario meritarle per averle, mi rimase dentro e mi fece capire molto della donna di cui pian piano mi stavo innamorando.

Era lei che mi stava facendo capire che vivere non era una questione di merito e che avevo passato tutta la mia vita con una convinzione totalmente errata. Perciò ero io che dovevo ringraziare lei, eppure non ci riuscivo. Qualcosa mi diceva che sbilanciarmi troppo, con lei, era un pericolo. E che un giorno mi avrebbe spezzato il cuore.

Ma a me andava bene anche quello.

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