SEMICOLON

De zaystories_

52.7K 2.7K 4.1K

! TW: violenza, abuso sessuale, morte/omicidio, dipendenze, disturbi psichici, aborto, autolesionismo. «Non m... Mais

.
Informazioni e TW
Playlist
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
EXTRA - La lettera di Nate Cross
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30 (pt. I)
Capitolo 30 (pt. II)
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
EXTRA - Ava
Capitolo 37
Capitolo 38
EXTRA - Nora (pt. I)
EXTRA - Nora (pt. II)
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
EXTRA - Lewis
Capitolo 44
EXTRA - Dom
Capitolo 45
Capitolo 46
EXTRA - Lydia
Epilogo
Ringraziamenti
Tematiche trattate
Notizia importante!
BTME esce oggi!
FRI24

Capitolo 47

443 34 55
De zaystories_

Rylee

Fuori alle finestre dell'ospedale, la luce aveva lasciato il posto al buio precoce di fine estate. Brillavano solo i lampioni che costeggiavano le strade, nella coltre notturna; l'oscurità era l'unico bersaglio della mia attenzione, quella sera, mentre sedevo nella sala d'attesa silenziosa.

Avevo trascorso lì infinite ore. Dopo la notizia frettolosa ricevuta da Lydia, nel pieno di un panico che lei tentò di gestire, non avevo saputo far altro che rifugiarmi in una stanza vuota. Ava non c'era, ignoravo dove si trovasse e mi risultava difficile pensarci. Nella mia testa, non vi era altro se non un pensiero fisso, una riflessione ossessiva e crudele.

Stavo perdendo un'altra persona.

Non riuscivo a capacitarmene. Più quella situazione mi martellava il cervello, più si aprivano delle ferite impossibili da rimarginare. I battiti del cuore venivano a mancare e le lacrime spingevano per essere liberate, ma avevo esaurito la forza di permetterglielo. L'ultimo risvolto della situazione di Blake mi aveva prosciugata, dilaniando ogni energia rimasta.

Fissando il vuoto, mentre i ticchettii dell'orologio da parete scandivano i minuti, mi ero chiesta perché. Perché a me? Perché finivo per sottrarre al mondo tutto ciò che sfioravo?

Il mio amore si era portato via la vita di Dom a ventotto anni. Un sentimento simile, ora, stava rubando quella di Blake a soli ventisei. E io ero diventata un'immobile e impotente spettatrice di uno spettacolo di devastazione e meschinità.

Era inevitabile interrogarmi su quante cose sarebbero andate diversamente se solo non mi fossi avvicinata, se solo non fossi stata così tanto testarda da rimanere accanto a Blake malgrado ogni minaccia. La voce di Nora, del pericolo che lei stessa rappresentava, aveva echeggiato per settimane e io l'avevo solo ignorata. Accecata dall'infatuazione per lui, mi ero sentita invincibile, impossibile da scalfire. Ma quella battaglia mai voluta, alla fine, l'aveva vinta lei.

In un paio di mesi la mia ostinazione aveva portato sul lastrico una persona, e aveva distrutto un rapporto fraterno che teneva in piedi l'intero mondo della mia più cara amica. L'avevo svuotata di tutto solo per ubbidire all'istinto egoistico di tenere suo fratello al mio fianco, prostrata da quattro interminabili anni di solitudine.

Un'azione priva di altruismo, tuttavia, rimaneva l'unico modo di farmi perdonare. Quando tutta quell'agonia sarebbe giunta al termine, io mi sarei allontanata da Blake e Ava. Avrei smesso di generare problemi nella loro esistenza già minata da eventi indelebili, pur consapevole che una gran parte del mio cuore sarebbe sempre appartenuta a loro.

Io avevo ripreso a vivere, grazie ai Mitchell. A distrarmi, a vestirmi di una felicità che era diventata estranea. Ma loro meritavano la vita più di quanto essa spettasse a me.

Era stata un'estate di sorrisi, divertimento, brividi riscoperti al più mero degli sfioramenti, ma anche di sfide mai vinte e pericoli non scampati. Probabilmente non ero adatta a essere circondata da troppe persone. Se avessi tenuto le mani lontane da coloro che amavo, avrei risparmiato una sofferenza tanto atroce da artigliare il cuore.

Ripercorsi ogni giorno intenso, concentrata sul vuoto che aleggiava nella sala. Nessuna persona, fatta eccezione per il personale, si aggirava più per i corridoi dell'ospedale. Quella desolazione era lo specchio riflesso del modo in cui mi sentivo. Assente, inesistente. L'ottimismo e la speranza, due valori che avevo stretto fra le dita per non farmeli scivolare via, erano scemati.

I muscoli erano intorpiditi dalla stanchezza, le ossa dolevano. Avevo poggiato i gomiti sulle ginocchia; ero china in avanti, il viso sorretto dalle mani. Nelle mie vene scorreva una debolezza che non avevo le forze di manifestare: i condotti lacrimali imploravano di esplodere in un pianto liberatorio, ma lo respingevo. Non sapevo per quanto ancora le mie barriere avrebbero retto. Sarebbe bastata una sola parola per farmi cedere.

A mettere a tacere il silenzio stesso furono dei passi. Il rumore di un paio di scarpe la cui suola pestava il pavimento con delicatezza, dopo aver aperto la porta della stanza senza farla cigolare. Identificai quella persona solo quando mi affiancò, lasciandosi cadere su una delle sedie libere, e con la coda dell'occhio scorsi le ciocche rosse che fuoriuscivano da una crocchia non più così ordinata.

Lydia, nella sua uniforme bianca, si appoggiò allo schienale duro e trascorse una manciata di secondi trincerata in un mutismo pregno di tensione e mestizia. Intravedevo solo il suo profilo: il capo reclinato all'indietro, aderente alla parete, e lo sguardo perso in direzione del soffitto. Le luci al neon evidenziavano il pallore del suo volto, affaticato da turni interminabili, sottolineando le fattezze di una donna che, giorno dopo giorno, lottava per tenere accese le più fioche speranze.

Su Ava e su di me, per qualche giorno, la sua influenza era stata miracolosa. Eppure, lei era un'infermiera. Non aveva il potere magico di riavvolgere un nastro inciso dalla perfidia del destino, cambiando le sorti di Blake. L'unica possibilità che aveva era quella di lottare fino all'ultimo, più di chiunque altro.

Intrecciò le dita e le fece scrocchiare, liberandosi del fastidio e della stanchezza. Le mani le ricaddero in grembo, sulla gonna che le sfiorava le ginocchia, e scongiurò il nervosismo giocherellando con i pollici. Poi si schiarì la gola, ma io non ero sicura di possedere ancora il coraggio di ascoltare una raffica di verità insostenibili.

«I medici vi concedono una visita fuori orario» mi informò, senza perdersi in giri di parole inutili. Parlò con la voce roca, come se i vocaboli fossero stati intrappolati per troppo tempo. «Hanno deciso di permettervelo perché...» Deglutì, spaventata da ciò che doveva comunicarmi, e abbassò lo sguardo sulle mani congiunte. «Perché ormai è una questione di giorni, Rylee. Se Blake non migliora all'improvviso, ha le ore contate».

Fu diretta, ma delicata al contempo. Non mancò di empatia e adempié al suo compito senza lasciarsi scalfire. Era finito il tempo delle illusioni: più i minuti passavano scanditi da quell'orologio rumoroso, più bramavo concretezze. Della speranza vana, oramai, non me ne facevo nulla.

Non riuscii a guardarla in viso, quindi mi voltai. La luna brillava fuori alla finestra, nel cielo scuro della notte, ma non riusciva a rischiarare le tenebre che si annidarono nel mio cervello all'udire quelle parole. Generarono una fitta nel petto, un dolore che pregai fosse momentaneo, ma che perdurò. Avrei solo voluto strapparmi il cuore e sparire, cessare di esistere.

L'intenzione di correre nella stanza di Blake era palpitante, aveva preso il posto di un cuore troppo stanco e martellava, martellava, martellava fino a dolere. Fu, tuttavia, un istinto in parte egoistico che allontanai, perché la dipartita di quel ragazzo si stava trascinando via la mia migliore amica. Io dovevo sapere dove si trovasse, come la stesse affrontando. Se si stesse facendo del male.

«Dov'è Ava?» domandai, allora, con la voce tremula che si disperse per l'intera sala. Non rivolsi alcuno sguardo a Lydia, perché l'oggetto della mia concentrazione era il vuoto, le pareti, il pavimento. «Dimmi che sta bene, che non ha...»

Un sospiro dell'infermiera al mio fianco bastò a interrompermi. Migliorò la sua postura raddrizzandosi appena sulla sedia e riprese la parola. «Aveva bisogno di un po' di tempo per sé, ma sta bene. Fisicamente, almeno» mi informò. «Ho provato a parlarle... Spero sia servito».

«Tu stai facendo tutto il possibile per noi, Lydia» le assicurai. Un repentino impeto di decisione mi portò a voltare il capo verso di lei, studiando la delicatezza del suo profilo femmineo. «Sei la persona migliore che potesse capitarci in tutta questa situazione».

«Sto facendo degli straordinari solo per aiutare in modo concreto» confessò. «Passo intere notti qui e non sono nemmeno un medico, ma non posso lasciare che Ava perda suo fratello». Scrollò la testa: per lei era impossibile realizzare quell'opzione. «Non posso», concluse.

Fummo distratte da alcuni passi che si arrestarono sulla soglia. Uno dei dottori del reparto, che avevo già intravisto durante le giornate trascorse in ospedale, scoccò un'occhiata a Lydia. Lei non sprecò un solo secondo e balzò in piedi.

«Sheridan, c'è bisogno di assistenza al pronto soccorso. Al lavoro» le ordinò. Dal tono duro e serio trapelò il monito.

«Certo, arrivo» si affrettò. Si tastò le tasche, accertandosi di essere in possesso del necessario per svolgere le sue mansioni, poi mi dedicò un'altra minima attenzione. «Se hai bisogno, mi trovi nell'atrio in fondo al corridoio».

Annuii, grata della sua inesauribile disponibilità. La ragazza dai capelli rossi girò sui tacchi, dopo avermi salutata con un'espressione che univa compassione e altruismo, e superò l'uscio. Io rimasi sola nel silenzio notturno di quei corridoi deserti.

Mentre Lydia spariva oltre l'angolo poco distante da me, decisi che non avrei voluto perdere altro tempo. Ne rimaneva poco, i minuti potevano essere contati sulle dita di una mano e io non potevo permettermi di perdere Blake senza mantenere la mia promessa. Lui non era tornato da me, non l'aveva nemmeno giurato, ma meritava di sapere la verità.

Quindi mi alzai dalla sedia. Il suono prodotto dalle scarpe contro il linoleum riecheggiò nella quiete, rompendola, e con le pupille puntate a terra e il capo chino mi diressi verso l'uscita della sala d'attesa. Regnava il ronzio delle luci al neon e dei distributori addossati alle pareti, presto affiancati da un altro, inconfondibile rumore. Passi leggeri, incerti, sul cui artefice mi concentrai.

Ava si fermò davanti a me. Aveva un palmo fasciato, rivestito da una benda che aveva già assorbito una notevole quantità di sangue, ma i polsi erano scoperti e le maniche della felpa arrotolate all'altezza del gomito. I graffi erano i sovrani sulla sua pelle pallida, sugli avambracci scheletrici deperiti a causa del digiuno, ma non si vergognò di mostrarli. I pensieri che le vagavano nella mente erano altri, ben distanti dal modo in cui appariva.

Non pronunciai una singola parola. Ricoprii la minima distanza che ancora ci separava, lenta ma decisa, e la accolsi tra le mie braccia. Le imprigionai i capelli, la testa; lei, dal canto suo, mi strinse all'altezza dei fianchi. Fu sufficiente la nostra vicinanza a renderci arrendevoli, a farci soccombere.

Il dolore, l'agonia e la stanchezza si fusero e si sciolsero sui nostri volti. Persi le lacrime tra le sue ciocche arruffate, e lei lo fece sulla mia maglietta consumata. Sentivo il suo cuore battere all'impazzata in sincronia con il mio, a scandire il ritmo di un panico che aleggiava nell'aria e ci stava dilaniando. Nel silenzio, entrambe le nostre sofferenze comunicarono tra urla sorde e singhiozzi che non trattenemmo. Lei tremava, sotto la mia protezione, e la debolezza mi sovrastava.

Non eravamo più la colonna portante l'una dell'altra, ma ci eravamo tramutate in cumuli di macerie irrecuperabili, che nemmeno insieme erano capaci di alleviare un male tanto atroce.

Continuai a compiere tentativi di calmarla. Le accarezzai la nuca con gesti flemmatici e cadenzati, le dita intrecciate ai capelli scuri, mentre lei si lasciava andare china sulla mia spalla. Aveva smesso di essere vittima dell'apatia, colpita da un'impellente urgenza di sfogarsi, di far esplodere l'ordigno di afflizione che le risiedeva dentro.

Eppure, il conforto a gesti non sarebbe mai bastato. Di conseguenza, mi discostai appena e spostai le mani dalla sua testa al suo viso. Le carezzai le guance costellate di lentiggini, non più piene ma scavate, e lambii le occhiaie profonde. Feci aderire la mia fronte alla sua, in una dimostrazione di vicinanza e presenza che potesse colmare parte della sua vacuità.

«Gli abbiamo promesso che gli saremmo rimaste accanto per tutto il tempo possibile» affermai in un sussurro roco. Solo io e lei potemmo udirci, rintanate in una bolla di filo spinato intriso di veleno, che pungeva cuore e mente. «Finché Blake non esalerà quell'ultimo respiro io e te saremo qui, Ava» proseguii. «Anche se fa troppo male, lui ha bisogno di noi».

Lei si limitò ad annuire. Con il volto madido di lacrime, non si staccò da me. Tornò ad abbracciarmi con più forza di prima, stringendomi a sé come se avesse voluto imprimere il mio corpo sul suo. Fu lei, questa volta, a perdersi in carezze intime e sincere, da cui trasparse una delle poche, vere amicizie di cui mi nutrivo.

I silenzi di Ava, in quei giorni, erano stati infiniti e strazianti, simboli di un tedio che l'aveva attanagliata fino ad annichilirla. Quella sera, però, le sue labbra a contatto con il mio orecchio produssero un dolce sussurro.

«Sei stata la prima persona che lui abbia amato senza paura» mi confidò. «Con te non si è vergognato di niente. Lo hai fatto vivere, Rylee» sottolineò, e quel singolo lemma, dalla semplicità estrema ma dal significato immenso, generò un'altra ondata di pianto. «E io non sarò mai abbastanza grata per tutto questo. Hai dato a mio fratello tutto ciò che gli è sempre mancato» asserì.

Ero ignara del modo giusto di replicare. Ava mi aveva sottratto ogni parola buona, mettendomi faccia a faccia con la verità più oggettiva: Blake non aveva mai chiesto niente, se non un briciolo d'amore privo di secondi fini. Voleva liberarsi dei tocchi sporchi e meschini, delle ferite inferte per la sua ovvia ritrosia e, come cura, bramava la purezza di uno sfioramento di labbra e una carezza al suo cuore violentato.

«So che con te, nel bene o nel male, è stato felice» aggiunse, la voce spezzata dal pianto.

Niente colmò i miei vuoti più di quell'affermazione. Anche se parte di loro rimase indelebile, sapere di essere stata la ragione dei sorrisi che lui meritava disseminò i brividi su tutto il mio corpo. Le braccia scoperte ne furono rivestite.

Ava compì qualche passo indietro. Con le guance umide che brillavano alla forte luce dei lampadari, le iridi verdi portatrici dei ricordi sereni di quell'estate ormai finita, non smise di guardarmi.

Aveva, cuciti addosso, i segni di una vita che con lei era stata troppo crudele. Un'esistenza che aveva giocato sporco, che le aveva sottratto un'intera famiglia senza restituirne nemmeno un brandello. Era rimasta una bambina rifugiata tra pareti di solitudine e silenzi, che non aveva mai smesso di farsi in quattro per gli altri. Pezzo dopo pezzo, però, era scomparsa.

Deglutii dinanzi alla sua figura esile. Scoccai un'occhiata al pavimento per una frazione di secondo, ma lo rialzai subito. Erano gli ultimi sforzi, l'ultima travolgente raffica di dolore.

«Lydia mi ha detto che i medici ci hanno concesso delle visite fuori orario» la informai, vertendo la conversazione su aspetti più concreti. Con un dito ravviai una cioccia fastidiosa della frangetta, cresciuta fino a ostacolarmi in parte gli occhi, e faticai per riprendere la parola. «Credo che dovresti andare prima tu», le dissi.

«Rylee» mi interruppe, scuotendo il capo. Mi afferrò entrambe le mani con un gesto inaspettato e iniziò a carezzarne il dorso. Era una coccola tenera, frutto di quell'istinto materno che Ava aveva maturato con parenti e amici fin dalla giovane età. «Conosco mio fratello», esplicò, «e so che, se potesse parlare, in una situazione come questa vorrebbe te». Fece un respiro profondo e tornò a guardarmi negli occhi, in un concatenamento di sguardi eloquenti. «Io sento di avergli detto tutto quello che dovevo. Ci sono cresciuta, con lui. Sa tutto» proseguì, tirando su con il naso. «Ma ora è il tuo turno. È giusto che tu vada da lui prima di me, stanotte».

La mia mente, ormai priva del suo ottimismo, si convinse del fatto che quella sarebbe stata l'ultima volta che avrei visto Blake. Gli ultimi minuti trascorsi con lui, dopo quasi due mesi di sensazioni inaspettate. La consapevolezza acquisita fu un peso che mi si adagiò sullo stomaco, una fitta dolente sparata nel petto, che mi artigliò senza lasciarmi andare.

Non risposi, perché un nodo alla gola me lo impedì. Avrei rischiato di perdere il controllo se solo avessi pronunciato una singola parola, quindi preferii il silenzio. Strinsi le labbra riducendole a una linea sottile, lasciai una delle mani di Ava per asciugarmi le lacrime che mi campeggiavano sulle gote e annuii.

«Penso che tu debba ancora dirgli una cosa importante, sbaglio?» mi domandò. Erano vocaboli che uscivano rochi, i suoi, ma non si arrese a quella fatica.

Mi dimostrai nuovamente d'accordo con lei.

Blake aveva saputo tanto, di me. Gli avevo raccontato anche ciò che avevo tenuto segreto per quattro anni, ma nella lista mancava la verità più importante di tutte, la più ardua da confessare e da assimilare. La ragione dietro la mia confusione immensa, dietro la nebbia di sentimenti contrastanti che mi aveva offuscato la vista per settimane.

«E allora vai, Lee» mi concesse la mia amica. Studiandole il volto, potei giurare di aver scorto un leggero arco che tanto somigliava all'accenno sorriso. All'angolo degli occhi, spuntarono un paio di rughe di espressione dovute alla stanchezza. «Lui sta solo aspettando che tu gli dica quelle parole».

Ero pronta a compiere i primi passi verso la stanza di Blake, ma mi presi un altro paio di minuti per dedicarlo a lei. Le poggiai la mano libera dietro la nuca, tra i capelli scuri e, attirandola a me, le lasciai un bacio tremante sulla fronte con le labbra umide di pianto.

«Ti voglio bene» sussurrai.

Impiegai quattro maledetti anni per tornare a pronunciare quella frase; mesi e mesi per non dirla in modo collettivo, per mormorarla con un "io" e senza indicare un "noi". Ma quella notte, tra mille stilettate crudeli, riuscii a regalarla alla mia migliore amica, come una goccia di balsamo salvifico versata su centinaia di ferite.

Ci separammo in via definitiva dopo quell'effimera parentesi d'affetto. Io mi discostai da lei, lasciando la mano che ancora stringeva la mia, e feci il primo passo indietro. Poi un altro, e un altro ancora fino ad allontanarmi da Ava e dalla sala d'attesa, che rimasero alle mie spalle. Incamminatami lungo il corridoio, pregai che le mie ginocchia non cedessero per i tremolii incessanti.

Non ero pienamente consapevole di ciò che stavo per fare. Avevo delle parole depositate sulla punta della lingua, impazienti di essere buttate fuori, che cantavano di un sentimento che ancora stentavo a definire.

Marciai per inerzia, coprendo i metri che intercorrevano tra me e quella stanza d'ospedale. Le pareti che mi scorrevano accanto diventarono una pellicola di ricordi, una serie di fotogrammi sempre più insistenti e nitidi che riportavano ogni momento vissuto con Blake.

Lo stand del luna park. Il poligono. I primi contatti inaspettati la sera del cinema drive-in. Gli sguardi scambiati con il tentativo di nasconderli. Il bacio davanti alla porta di casa. Le coccole dopo una notte di incubi, le carezze che annullarono le nostre più grandi paure. La forza di non dividerci anche se eravamo deboli come foglie contro una raffica di vento.

Quasi non mi accorsi di essere giunta davanti alla porta. La mia testa aveva memorizzato quel tragitto, tante erano le volte che l'avevano percorso. Impaziente, nemmeno mi preoccupai di bussare, ma con mia grande fortuna non trovai nessuno all'interno della stanza.

Serrai l'uscio alle mie spalle. Ad accogliermi, solo un silenzio interrotto dal monitoraggio del battito cardiaco di Blake. Era più lento del solito, e anch'essi comunicavano la medesima, devastante notizia: si stava lasciando andare. Steso su quel letto, stava esalando i suoi ultimi respiri.

Sentii i muscoli arrugginiti solo avvicinandomi alla sedia di plastica, che era rimasta lì per giorni, sede di lacrime e paure rivelate più che fondate. Mi ci accomodai senza sfruttare lo schienale: la feci stridere in avanti contro il pavimento, diminuendo la distanza tra me e Blake, e feci il possibile per stargli vicina.

Gli afferrai la mano, la strinsi anche se le sue dita non reagirono all'intreccio. Ma il calore del suo palmo contro il mio non era ancora svanito. Poi decisi di guardare il suo volto.

Aveva gli occhi chiusi, le ciglia lunghe che sfioravano le guance e metà del viso coperto dalla mascherina che gli permetteva di respirare. Era portatore di un'espressione pacifica, come se per lui fosse impossibile rendersi conto della sorte che incombeva ineluttabile; con le palpebre serrate sembrava un bambino intento a riposare, inconsapevole che l'altra parte della vita lo stesse attendendo. Sulla fronte contornata dai capelli cresciuti di qualche centimetro portava ancora qualche taglio ormai rimarginato, rimasto lì dall'incidente. Il tempo trascorso era evidente sulle sue guance, segnate dalla barba appena accennata.

Era ancora impossibile credere che Nora avesse architettato quel piano per far soffrire tutti noi, pur colpendo una sola persona: la più fragile del gruppo.

Con il cuore che martellava nel petto, la cui velocità ricordava il principio di un infarto, mi chinai verso di lui. Appoggiai il capo alla sua spalla, coperta da un camice pulito che l'ospedale gli aveva fornito, e chiusi gli occhi. Le lacrime rivolarono fino a inumidirgli la pelle diafana del collo.

Gli lasciai la mano e lo avvolsi con il braccio, in una posizione scomoda a cui non pensai troppo a lungo. Quello era il massimo che potevo fare per avere Blake accanto, per fargli percepire quella vicinanza di cui aveva bisogno.

Mi senti...?

Avevo la necessità di parlargli. Volevo che ascoltasse la mia voce per l'ultima volta, che essa gli tenesse compagnia e che rimpiazzasse la solitudine.

Deglutii, ancora vittima del groppo irremovibile che bloccava le parole.

L'ultimo sforzo, rammentai a me stessa. Quindi presi un respiro e procedetti.

«Mi mancherai» riuscii a mormorare, tradita da un singulto. «Mi lascerai con un vuoto indescrivibile, Blake» ammisi. Quella notte, nella stanza illuminata scarsamente solo dall'abat-jour posta sul comodino, non esisteva timore che ostacolasse le mie parole. Ero lì per dirgli tutto. «E forse ce l'avrò sempre un po' con te per non avermi promesso che saresti tornato, ma non importa» singhiozzai. «Perché sei stato la rivincita più bella che io potessi avere» sussurrai. «Sei stato...» Lemmi periti sulla lingua, spazzati via da un'improvvisa mancanza di coraggio, ma non demorsi. «Sei stato il mio nuovo inizio, quella piccola virgola del nostro tatuaggio» esalai flebile.

Nessuna reazione. Non un tremolio, non un lamento. Erano giorni che Blake rispondeva con silenzi ovvi, seppur difficili da digerire.

Più trascorrevano i minuti, scanditi da un orologio appeso sopra la porta della stanza, e più i suoi battiti sembravano distanti tra loro. Passavano infiniti secondi dall'uno all'altro, non erano quantificabili, ma ogni suono emesso dal macchinario era solo l'ennesimo grido prima del silenzio tombale che presto sarebbe giunto.

Ventisei anni vissuti e poche ore rimaste. Uno scherzo del destino, che ci aveva illusi di poter costruire qualcosa di precario ma sincero, e che adesso si beffava di noi ridendo della nostra sofferenza.

Lo schiaffo più doloroso che ricevetti da quest'ultimo arrivò quella sera, a cogliermi di sorpresa raccolta al capezzale di Blake. Realizzai che la vita era troppo crudele per raggirare i suoi mali con i sorrisi e la distrazione, che una canzone allegra non era sufficiente per accantonare le sue imprevedibilità. Colpii in pieno quella lastra di vetro limpido che filtrava la realtà, che cadde e si distrusse in mille cocci, rivelando che l'esistenza aveva un'innata capacità di rovinare ogni attimo gioioso, benché caduco.

Compresi che il tempo era poco, e che andava sfruttato nella sua totalità.

Quindi lo feci. Mi raddrizzai sulla sedia, il volto prostrato, il mio braccio che scivolò via dal corpo di Blake. Avvicinai una mano al suo viso inespressivo e pacifico, gli sfiorai quei pochi centimetri che potei toccare della guancia.

Le lacrime si moltiplicarono. Non ero pronta a dire addio ai sorrisi che mi aveva dedicato, alle parole dolci che le sue labbra avevano pronunciato in mia presenza. Salutare per sempre quell'insieme di gesti semplici, pregni di valore, stava conducendo alla morte anche me.

«Io, però, una promessa te l'ho fatta» obiettai. Gli carezzai la gota con le dita, studiai le sue lentiggini e cercai di memorizzarne la posizione. Anche la costellazione dipinta sul cielo più cupo mi avrebbe ricordato di quella moltitudine di bellezze. «Ti ho detto che c'è una cosa molto importante che devi sapere, e non posso farlo in altri momenti, se non ora». Zittita da un altro singhiozzo, mi presi una pausa.

Lo guardai, prima di confidargli del groviglio di sensazioni che lui aveva generato in me. Mi concentrai sui lineamenti dolci del viso e sulle onde morbide disegnate dai capelli scuri, sulle labbra nascoste dalla mascherina che avevano baciato troppe bottiglie d'alcol, sugli occhi chiusi che avevano patito troppo, per appartenere a una persona di soli ventisei anni.

Dinanzi a tutte quei problemi, però, avevo ceduto. Ero caduta nella luce delle sue battute timide e della sua gentilezza, ma una discesa altrettanto ripida l'avevo percorsa nelle sue tenebre, tra la dipendenza e il lato oscuro del suo carattere che lui non poteva controllare.

Ma se l'amore non fosse stato la più imperfetta delle contraddizioni, non ne sarebbe valsa la pena. E io, nelle difficoltà di quel sentimento che ti lacerava e ricuciva, ci vivevo da sempre. Anche se faceva male, anche se distruggeva.

Dovevo solo sussurrare quelle ultime parole, la confessione di un segreto che era un arcano anche per me stessa, incapace di ammetterlo. Presi fiato.

«Io...» esordii incerta, tra un balbettio e un singulto. Scuotere il capo fu un istinto, quasi non mi capacitassi della verità a cui stavo per dare voce. «Io mi sono innamorata di te, Blake. Non so quando, non so come, ma è successo. Succede e basta».

Una lacrima rotolò lungo la mia guancia. Scese, si staccò dal viso e piovve sulla pelle del suo braccio disteso sul letto.

Forse, solo nella mia testa, lui reagì a quello stimolo.

Continue lendo

Você também vai gostar

1M 36.6K 56
"Non te l'hanno mai detto Rochelle? Alla Winterhaven non puoi fidarti di nessuno." Trama: Rochelle Turner sta per iniziare una nuova vita nella città...
Sweet Hell De enJoy

Ficção Adolescente

126K 4.5K 60
Kyla ha sempre avuto una vita ordinaria, niente di nuovo. Sempre i soliti quattro amici, esce una sola volta a settimana, a detta di tutti: una pall...
10.4K 683 22
Vi è mai capitato di vivere una situazione talmente coinvolgente, per poi rendervi conto,soltanto a posteriori, che tutto ciò che credevate reale era...
NOCTE De Vals

Mistério / Suspense

352K 19.1K 64
SEQUEL DI IGNI C'è un equilibrio indissolubile che governa ogni cosa nel mondo. Non c'è gioia senza dolore. Non c'è silenzio senza rumore. Non c'è...