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By zaystories_

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! TW: violenza, abuso sessuale, morte/omicidio, dipendenze, disturbi psichici, aborto, autolesionismo. «Non m... More

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Informazioni e TW
Playlist
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
EXTRA - La lettera di Nate Cross
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30 (pt. I)
Capitolo 30 (pt. II)
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
EXTRA - Ava
Capitolo 37
Capitolo 38
EXTRA - Nora (pt. I)
EXTRA - Nora (pt. II)
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
EXTRA - Lewis
Capitolo 44
Capitolo 45
Capitolo 46
EXTRA - Lydia
Capitolo 47
Epilogo
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EXTRA - Dom

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By zaystories_

Remsen Village, New York, 1981

Il clima di gennaio, a New York, era uno dei più rigidi. La brezza fredda soffiava dal mare, investendo l'intero distretto di Brooklyn, e infastidiva le persone più sensibili.

Rifugiati tra le pareti di casa, tuttavia, le temperature erano sopportabili. I termosifoni diffondevano calore in tutte le stanze e il fuoco del caminetto in soggiorno brillava riflesso nel parquet lucido. Fuori dalle finestre, il sole splendeva e la neve ai lati delle strade riluceva, abbracciata dai suoi raggi dorati.

Era una giornata come le altre, quella. Tutto procedeva alla normalità e non accadeva nulla di straordinario. I miei genitori non si erano ancora sbarazzati delle decorazioni del Natale appena trascorso: i fili di lucine arrotolati intorno ai rametti dell'abete sintetico scintillavano, passando da un colore sgargiante all'altro, e mamma e papà non avevano smesso di improvvisare balli di coppia a ritmo di motivetti festivi.

Avevamo appena finito di pranzare. Al piano inferiore regnava il tintinnio di stoviglie e piatti puliti, pronti a essere sistemati, mentre nella mia stanza era protagonista un silenzio confortante. In quel momento ero da solo, impegnato a sistemare il disordine che io e Rylee avevamo lasciato nella mia minuscola camera da letto, mentre lei si preparava per uscire.

La mia Rylee.

A volte, rintanato nella solitudine, riflettevo sulla fortuna che avevo avuto per conoscerla. Ci eravamo ritrovati nello stesso gruppo di amici per un fortuito caso del destino e, nonostante la differenza d'età che ci separava, la sintonia che intercorreva tra noi era troppo intensa per essere ignorata. Neanche un mese dopo, ero finito per uscire con lei.

Non avrei mai ringraziato abbastanza la vita, per avermi concesso di vedere quello scorcio di beatitudine.

Ci pensai a lungo, trovando un posto per ogni cianfrusaglia presente nel cassetto della mia scrivania. Era pieno di cartacce e oggetti inutili, accumulati perché solevo aprirlo di rado. Tra esse, però, decisi di trovare un ottimo nascondiglio per un regalo che avevo comprato proprio per Rylee: un anello che, dopo quattro anni di relazione, avrei voluto usare per chiederle di sposarmi.

Tutto per un impulso, una scarica d'incoscienza: nessuno dei due conosceva il sapore di una vita stabile, né di uno stipendio che fosse sufficiente. Rylee lavorava come cameriera e io, per passione e vocazione, guadagnavo insegnando il pattinaggio ai più piccoli. Entrambi godevamo di una certa indipendenza, ma quest'ultima non sarebbe mai bastata per sostenerci.

Eppure, io volevo che Rylee fosse il mio futuro. Sognavo di chiamarla Rylee Morgan, un giorno.

Quel giorno, però, non sarebbe arrivato in fretta. Non faticavo a cantare del mio amore per lei, a tessere le sue lodi senza sosta, ma l'idea di compiere quel passo mi terrorizzava. Nonostante le rassicurazioni, nella mia testa girovagava sempre l'ipotesi che lei avesse potuto respingermi. Obbligai me stesso ad aspettare il momento giusto, perché avevamo un'infinità di mesi e anni da goderci insieme.

Ci sarebbe stato tutto il tempo necessario.

«Oggi mi sono preparata in meno tempo del solito» mi comunicò una voce, una nota d'allegria che conoscevo bene.

Quando Rylee fece il suo ingresso nella mia stanza, comparendo sulla porta, avevo ancora la scatolina dell'anello tra le dita. Mi affrettai a camuffarla tra i vari oggetti che popolavano il cassetto, sparsi sul fondo, e lo chiusi con una velocità che non sarebbe passata inosservata. Con altrettanta fretta, mi ci appoggiai e lo tenni serrato con la sola forza del bacino, le braccia incrociate al petto e un sorriso da ebete stampato sul volto.

Puntai lo sguardo verso di lei e ne rimasi incantato. Come sempre. Incredibile come riuscisse a essere mozzafiato indossando un semplice paio di jeans e un maglioncino a quadri, sdrucito dal passare degli anni. I capelli castani le ricadevano sulle spalle, le ciocche ondulate le carezzavano il viso: era perfetta senza compiere sforzo alcuno. La giovialità che emanava solo sorridendo riusciva a farla brillare anche nella sua semplicità.

Le sue pupille saettarono verso il cassetto appena chiuso, e lei cercò degli indizi da sotto le ciglia che sfarfallavano per l'immensa curiosità. Nelle mani reggeva il suo pigiama – una delle mie magliette e un paio di miseri pantaloni di flanella –, che lanciò sul mio letto prima di iniziare a raggiungermi.

«Cosa stai nascondendo, stronzo?» continuò a beffarsi di me, producendosi in un risolino gioioso con cui mi schernì. Mi gettò le braccia al collo e reclinò il capo per guardarmi, viste le nostre altezze ben diverse. «Dimmelo» mi implorò.

Scossi la testa in un cenno di diniego. «Niente di importante», replicai.

Eravamo entrambi sorridenti, entrambi felici. Le nostre labbra si sfioravano, nel compimento di tacite dimostrazioni d'amore, sentimento che esprimevamo solo guardandoci. Con il mero potere degli occhi, del brillio delle nostre iridi acceso da quella profonda connessione.

«Dai, amore» mi incitò, a pochi millimetri dal mio viso.

Per non lasciare che si allontanasse, le lambii i fianchi con le mani, sciogliendo l'intreccio delle mie braccia. Lei aderì al mio corpo e diventammo incapaci di separarci.

«Neanche per idea» ribattei. Sollevai un dito per liberarla del fastidio di una ciocca che le ricadeva sul volto, sistemandogliela dietro l'orecchio. «Un segreto è un segreto, Lee».

Lei si vestì di un finto broncio, arricciando le labbra rosee. I suoi occhi tondi e scuri mi stavano pregando, come se scoprire del suo regalo avesse potuto cambiare la sua giornata, ma io non la degnai di alcuna spiegazione.

«Lo scoprirai a tempo debito» aggiunsi, munendomi di un sorriso beffardo.

«Dovrò aspettare fin quando non sarai più nella mia vita e mi rimpiangerai per anni?» scherzò, ridacchiando. Usava sempre l'ironia per convincere gli altri a darle ciò che desiderava.

«Non dire stronzate, scema» la apostrofai. «Devo solo trovare il momento giusto». Glielo dissi abbassando il tono, sussurrandoglielo sulle labbra.

Lei mi stampò un bacio sulla bocca, un caduco gesto d'affetto, e si ritrasse piantandomi i palmi sul petto fasciato dalla felpa grigia.

«Va bene, signor Morgan» decretò. «Io aspetterò tutto il tempo necessario, ma devi far sì che ne valga la pena».

«Oh, non sai quanto». Scompigliandole i capelli con le dita, quello fu il mio modo di assicurarmi che da me si aspettasse un gran gesto.

Quello era il meglio che potevo donarle: la promessa di un futuro insieme.

Allontanandosi da me a piccoli passi, poi, si piazzò dinanzi al mio specchio a figura intera. Si sistemò le ciocche castane spettinate e tornò a voltarsi nella mia direzione, accennando un altro dei suoi splendidi sorrisi contagiosi.

«Hai pensato a che cosa vuoi fare oggi?» mi chiese, giocherellando con l'orlo del suo maglioncino.

Feci spallucce, rimanendo appoggiato al bordo della scrivania. Con le braccia conserte, fissai un punto indefinito della stanza, ma lo sguardo non si sottrasse al bisogno di posarsi sulla sua figura esile e incantevole.

Era una domenica monotona nel distretto di Brooklyn: le persone non lavoravano e la maggior parte di loro si rifugiava tra le mura di casa per sfuggire al freddo. I bambini di cui ero l'istruttore potevano riposarsi; Rylee, invece, avrebbe coperto il suo turno in un fast food di Brownsville quella sera. Ci rimaneva un pomeriggio da trascorrere insieme, e avrei voluto farlo nella maniera che più ci univa.

«Hai i pattini?» le domandai, di conseguenza.

«No, non pensavo che...»

«Non fa niente» la interruppi, in preda a un lampo di genio. «Puoi prenderne un paio alla pista» la informai.

«È il tuo giorno di riposo, Dom» mormorò, il tono intriso di compassione, e si riavvicinò a me. «Vuoi andare davvero fin laggiù?»

La pista di pattinaggio, infatti, non era lì a Remsen Village. Non ne esisteva nessuna in tutto il quartiere di East Flatbush, ragion per cui ero costretto a compiere un tragitto di un quarto d'ora verso la zona costiera di Bergen Beach.

Rylee tornò a cingermi il collo con le braccia, e me la ritrovai per la seconda volta a una manciata di centimetri dal mio viso. Riuscivo a sentire il suo buon profumo, che mi inebriava grazie alla dolcezza dei fiori di cui sapeva.

«Sai che amo pattinare con te» le sussurrai, e rimisi le mani sui suoi fianchi. Li ricoprii di carezze lente e cadenzate, godendomi la morbidezza della lana che la proteggeva dal freddo invernale. «Ti va?»

Un altro bacio che lei mi diede, un altro sorriso che nacque spontaneo. «Certo che mi va», mi sussurrò a fior di labbra.

Indietreggiò di qualche passo, lasciandomi il via libera per finire di prepararmi. Accertatomi che si fosse del tutto obliata del contenuto misterioso del cassetto alle mie spalle, quindi, mi diressi verso l'appendiabiti che torreggiava solitario in un angolo della mia stanza. Afferrai la pesante giacca di denim, rivestita di lana all'interno, e la indossai sopra il maglione.

Sentivo lo sguardo di Rylee addosso, catturato da quel capo d'abbigliamento a cui aveva già puntato più di una volta.

«Sai che sarai obbligato a prestarmela, prima o poi, vero?» mi ricordò, come faceva in ogni occasione in cui la indossavo.

Alzai le mani in segno di resa. «Il mio armadio, ormai, ti appartiene» scherzai.

«Bingo!» esultò.

«Preparati, dai. Dobbiamo andare» le rammentai.

Annuì senza ribattere, e si infilò una giacca pesante. Era talmente imbottita da farla sembrare una bambina fasciata in un abito troppo grande, ma al contempo era adorabile. Non riuscivo a pensare altro che quello, di lei.

Nella stanza riecheggiò il tintinnio delle chiavi della mia auto e della pista, quando le afferrai. Con l'altra mano, poi, agguantai la sacca che conteneva i pattini. Quegli aggeggi di plastica dura pesavano come macigni.

«Sei pronta?» chiesi a Rylee, infilando le chiavi in una tasca dei jeans per liberare una mano e poggiarla sulla maniglia.

Gettò un'occhiata alla stanza e passò al vaglio quel quadrato di scarse dimensioni, controllando di non aver dimenticato nulla. Tra le dita, stringeva il manico di un borsone che era solita lasciare da me. Conteneva lo stretto necessario per pattinare: un paio di vecchi leggings di un blu ridicolo – per cui la canzonavo sempre – e una maglietta più comoda.

Una volta sicura di avere tutto con sé, compì un cenno per annuire e mi raggiunse alla porta. La aprii, uscendo sul ballatoio del piano superiore, e lei la richiuse alle sue spalle.

Scendemmo le scale accompagnati da un dolce profumo di cibo, l'odore invitante dei biscotti appena sfornati. Come a confermarlo, adocchiai mia madre intenta ad appoggiare una teglia calda sul tavolo da pranzo.

«Oggi ti dai alla pasticceria?» domandai, appoggiandomi al piedritto dell'arco che divideva l'ingresso dalla cucina.

«Sì, amore. Fuori fa troppo freddo per uscire» commentò senza lanciarmi occhiata alcuna. Posò lo sguardo su di me solo quando Rylee mi affiancò, e io le cinsi le spalle con un braccio. «Oh, dove andate?» curiosò.

«Andiamo a pattinare al Blue Skate» la informai, menzionando la pista che conosceva bene. «Hai bisogno di qualcosa, mamma?» le domandai, per approfittare del fatto che stessi uscendo.

«No, tranquillo. Pensate a divertirvi» ci sorrise, con la sua immensa gentilezza.

«Ci vediamo dopo, allora» presi commiato, discostandomi da Rylee e dall'arco. Compii qualche passo indietro, verso la porta d'ingresso dell'abitazione.

«A dopo» ci congedò lei, e noi uscimmo.

Il vento freddo che soffiava dalla costa oceanica ci investì, sferzandoci il viso. Con una mano protetta dalla tasca dei pantaloni e una impegnata a sorreggere la sacca dei pattini, scesi in fretta i gradini che mi separavano dal vialetto. Fortuna voleva che la mia auto fosse parcheggiata proprio davanti al cancelletto.

«Aspettami» quasi esclamò Rylee, alle mie spalle. Fece scricchiolare i ciottoli del vialetto, pestando i piedi su di essi, e mi raggiunse.

Insieme uscimmo dalla proprietà e io sbloccai le portiere della macchina. La vernice scura della carrozzeria cominciava a scrostarsi e i sedili erano logori, ma funzionava. Finché mi avesse concesso di arrivare al lavoro e a Brownsville senza problemi, sarebbe andata bene.

Ci riparammo nell'abitacolo, tremando per il gelo. Il mese di gennaio, a New York, era invivibile: noi newyorkesi eravamo costantemente abbracciati da temperature inferiori allo zero e dalla neve che ricopriva le strade.

Misi in moto il veicolo sgangherato e, dopo aver emesso qualche borbottio, il rombo del motore ci accompagnò per poco più di un paio di miglia.

***

A Bergen Beach, il vento soffiava con ancora più insistenza. Lo notammo quando scendemmo dall'auto, abbandonando un tepore che era diventato sovrano.

Parcheggiai dinanzi all'ingresso della pista, completamente deserta. La struttura in mattoni rossi ci accolse, quando sbloccai la serratura con la chiave, ma la temperatura non variò: vista l'assenza di personale e pattinatori, il riscaldamento non era attivo.

Camminai sul pavimento liscio, in direzione di un armadietto. Ne aprii le ante, lasciandole spalancate per Rylee. «Quando ti sarai cambiata, scegli i pattini» le comunicai, la voce che riecheggiò nell'ampio spazio vuoto.

Lei annuì, già indirizzata verso lo spogliatoio che conosceva bene. In un secondo momento, però, arrestò i suoi stessi passi.

«Credi che avrò caldo, se rimarrò con il maglione?» mi domandò. «Qui dentro si gela» constatò.

«Provaci», le consigliai. «Se sentirai caldo, ti cambierai».

Non replicò e, spedita, sparì oltre le porte dello spogliatoio. Io non mi recai in quello maschile: rimasi solo nell'ampia pista, e dallo stesso armadietto prelevai un borsone che solevo lasciare lì. Come quello di Rylee, conteneva lo stretto necessario per pattinare. Quindi mi cambiai i vestiti, indossando un paio di comodi leggings e una maglietta più leggera.

Seduto su una panchina, infilai i pattini ai piedi e li allacciai. Il peso della plastica dura fece aderire le rotelle al pavimento, e mi alzai in piedi scivolando sulla pista liscia.

Quel giorno non mi riscaldai nemmeno. Solo in pista, iniziai a provare diverse catene di salti. Iniziai con tre Ritt, che si susseguirono a oltranza atterrando sempre sullo stesso piede; continuai, poi, con una combinazione di tre Axel. Era il salto più difficile e di gran lunga il mio preferito, perché implicava tre rotazioni consecutive a mezz'aria, contrastando il peso dei pattini stessi.

Il pattinaggio era controllo ed equilibrio. Era una serie di respiri brevi, accorciati dalla fatica, ma era anche la capacità di trovare la propria stabilità in un atterraggio perfetto. Era un modo di sviluppare l'abilità di non cedere per una difficoltà, e di rialzarsi se ciò accadeva.

Erano quelle le ragioni che mi avevano spinto a introdurre quello sport a Rylee. Era giovane e il mondo era ancora una grande incognita, per lei. Ma se solo avesse imparato che ogni regola delle quattro rotelle era applicabile alla vita vera, forse le cose sarebbero andate meglio.

Un applauso interruppe l'esecuzione di una trottola intera, una rotazione all'indietro con cui avevo deciso di allenare il mio piede più debole. Un paio di passi felpati echeggiò nella pista e io mi fermai, sorridendo alla mia ragazza.

«I miei complimenti» si congratulò, raggiante come il sole all'esterno. Il suo applauso scemò nel silenzio, ma non lo fece la felicità che indossava sul viso. «Ancora mi chiedo come tu riesca a fare quel triplo Axel».

«Questione di pazienza, amore» risposi, passandomi il dorso della mano sulla fronte già imperlata di sudore. «Ci vuole parecchia coordinazione».

Si allontanò da me, camminando in direzione dell'armadietto a bordo pista. I capelli castani le rimbalzarono sulle spalle fin quando non li raccolse in una coda alta, lasciando libere le sole ciocche della frangetta. Prelevò un paio di pattini da uno dei ripiani, e si sedette a terra per infilarli e allacciarli.

Aspettando che lei si sistemasse, io pattinai fino a un angolo della pista in cui era addossato un juke-box dai colori pastello che un membro del personale aveva regalato alla nostra piccola scuola. Era utile per creare un sottofondo piacevole, o per avere la musica per i diversi dischi di gara. Sulla superficie impolverata della parte superiore, solevamo lasciare un barattolino con gli spiccioli, in modo che chiunque potesse usarlo in qualsiasi momento.

Le monetine tintinnarono, quando ne afferrai una e la infilai nell'apposita fessura. Scivolò fino a essere incassata e, tramite i pulsanti, digitai il codice numerico di una delle canzoni elencate sulla lista. Il pianoforte e la voce profonda di Elvis Presley cominciarono a riecheggiare tra le alte pareti della pista.

Quando tornai al centro di quest'ultima, Rylee mi stava aspettando. Aveva puntato a terra uno dei tamponi dei pattini per non scivolare, e con la coda di cavallo spettinata era ancora più bella. Traspariva tutta la sua spontaneità.

«Ti ispirava l'idea di rendere tutto romantico?» mi canzonò, con la voce sovrastata dalle note del brano.

«Sono sempre stato un uomo di gran classe, Lee». Stetti alla sua ironia, e le cinsi un fianco con una mano. Le punte dei nostri nasi si sfiorarono.

Lei mi puntò i palmi sulle clavicole, spingendomi indietro e scoppiando in una dolce risata. «A Brooklyn non sappiamo neanche cosa sia, la classe!» scherzò. «Dio, quanto sei stupido» continuò a beffeggiarmi, scuotendo il capo per il diletto.

«Allora, mi hai detto che hai problemi con l'Axel». Riacquisendo la serietà, puntellai le mani sui fianchi e prestai attenzione al pattinaggio. «Vuoi provarlo? Magari, con qualche accorgimento, riesci a farlo» ipotizzai.

Lei annuì e il suo sorriso scomparve, tramutandosi in un'espressione concentrata. Mi studiò, ascoltando ogni mia parola.

«La cosa fondamentale è l'equilibrio, sia allo stacco che all'atterraggio» le spiegai. «Inizi con una spinta indietro, a braccia aperte, abbastanza forte da riuscire a caricare il salto». A ogni istruzione, seguì una mia breve dimostrazione che lei ascoltò senza battere ciglio, come se covasse il timore di perderne una parte. Dopo averle insegnato la fase di caricamento del salto, eseguii un Axel singolo, pulito, atterrando in perfetto equilibrio sul piede di partenza. «Ricordati di stringere le braccia al petto, mentre salti. E di atterrare sullo stesso piede con cui sei partita» aggiunsi.

«Scommettiamo sulla rottura di una mia caviglia?» scherzò, tornando a sorridere, mentre io pattinavo nella sua direzione. «Questo salto è sempre un incubo».

«Io sono sicuro che puoi riuscirci». Incrociai le braccia al petto, rassicurandola e cercando di pronunciare solo parole motivazionali, così che lei potesse convincersi della mia medesima idea. «Avanti, prova» la incalzai, indicando la pista che si estendeva intorno a noi.

Fece un respiro profondo per recuperare la concentrazione perduta nell'ultima manciata di secondi, poi fissò la pista con occhi attenti. La studiò, come se quell'analisi potesse conferirle sicurezza ed energia, quindi partì.

Era il più potente dei magneti, per il mio sguardo. Ero calamitato dalla sua figura esile che scivolava sulla pista, dal modo in cui le rotelle consumate tracciavano solchi immaginari sul pavimento liscio. La ammirai mentre si staccava dal suolo, per pochi secondi di volo in cui sembrò librarsi con una leggerezza tale da sorprendere. Compì una rotazione perfetta, rapida il giusto, per poi atterrare con un equilibrio che non era mai riuscita a dimostrare. Pattinò all'indietro su una gamba, le braccia distese come un angelo.

Ce l'aveva fatta.

«Com'è stato?» domandò, e una punta di insicurezza trapelò dalla sua voce tremula, che le sfiorò le labbra distese in un sorriso ingenuo. Pattinò fino a raggiungermi. «Forse ho sbagliato l'atterraggio, o...»

«Rylee», mi infiltrai, quando un sorriso fiero comparve anche sul mio volto.

«Forse avrei dovuto prolungare la fase di volo?» continuò, nella sua eterna incertezza.

«Rylee» tentai di nuovo di fermarla, e lei inclinò il capo da un lato. Non smise di arridere.

«Che c'è?» chiese, la voce ridotta a un flebile sussurro, come quello di una bambina pronta a ricevere una ramanzina.

«È stato perfetto» mi complimentai, sempre più vicino a lei.

Sgranò gli occhi, incredula. Non si capacitava di aver portato a termine un salto che, per lei, era sempre stato fonte d'ansia e di insicurezza. L'aveva provato svariate volte, con scarso equilibrio o cadendo a terra, ma quel giorno era stato diverso.

Si era fidata delle mie parole. Le aveva ascoltate, interiorizzate, e le aveva ripetute a se stessa per non fallire.

«Ho fatto un Axel perfetto?!» esclamò, ancora ben lontana dal crederci.

«Sì, amore» le confermai. Le iridi le brillavano di soddisfazione, e nelle mie, riflesse nelle sue, splendeva la fierezza. «Hai fatto un Axel perfetto».

Dalla sua bocca detonò un urlo di contentezza, e mi gettò le braccia al collo in preda alla felicità. Mi strinse così forte da quasi impedirmi di respirare, ma io ricambiai e la sollevai dal pavimento. Compii una giravolta sui pattini, complicata per via del peso della ragazza che sorreggevo, poi la rimisi a terra. Non mi separai mai da lei.

«Merito di Elvis, non tuo» mi prese in giro, facendo scivolare le sue mani sul mio petto.

«Sì, sì, merito di Elvis» le feci il verso, stringendola sempre di più a me.

«È una canzone d'amore e non me la dedichi nemmeno, stronzo!» mi apostrofò, in un impeto della sua ira scherzosa.

Ma io la precedetti, perché, a pochi millimetri dal suo volto, con il mio accenno di barba che le pungeva la guancia arrossata, iniziai a cantarle il ritornello finale a bassa voce. «Take my hand, take my whole life too...»

«Sei stonato» commentò, persa in un risolino.

«For I can't help... Falling in love with you» terminai, fingendo un timbro caldo e profondo che si avvicinasse a quello del cantante.

La melodia, qualche secondo dopo, sfociò nel silenzio e il juke-box si zittì.

«Cosa ho fatto di male per avere un fidanzato così stupido?» ridacchiò, sfiorandomi le labbra che, da lei, chiedevano solo un bacio.

Mi ingabbiò il viso tra le mani morbide, accarezzandomi la barba che rivestiva parte delle gote. Anch'io sorrisi, a una distanza minima dalla sua bocca rosea.

«Io mi chiedo cosa ho fatto per meritarmi una come te, scema». Giocai la carta della dolcezza, un po' per indebolire la sua corazza e un po' perché ero sincero, quando glielo dicevo. «Il destino mi ha fatto un regalo senza che io lo desiderassi».

«Magari ce ne farà altri» ipotizzò. Quello fu un chiaro riferimento alla vita che voleva costruire con me.

Devi solo aspettare quell'anello, Rylee.

Feci spallucce, come se non avessi già programmato di farle una proposta del genere. «Prenderemo ciò che ci darà. Nel frattempo, pensiamo solo a godercela».

«Guai a te se mi lasci sola, Morgan». Dopo quella finta minaccia, stampò le sue labbra sulle mie.

Baciare Rylee non era solo una dimostrazione dell'amore che ci univa. Era un gesto che mi legava a lei ogni volta che lo compivamo, tra una risata e una parola, e che sigillava una promessa che portavamo avanti da quattro anni.

Quella di non dividerci mai.

***


Note informative

Blue Skate LLC
La Blue Skate LLC è una pista e scuola di pattinaggio a rotelle situata nella zona di Bergen Beach, sulla costa del distretto di Brooklyn, a New York. Dista all'incirca un quarto d'ora dalla zona di East Flatbush (dove abita Dom) e una ventina da Brownsville (dove abita Rylee).

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