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Oleh zaystories_

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! TW: violenza, abuso sessuale, morte/omicidio, dipendenze, disturbi psichici, aborto, autolesionismo. «Non m... Lebih Banyak

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Informazioni e TW
Playlist
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
EXTRA - La lettera di Nate Cross
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30 (pt. I)
Capitolo 30 (pt. II)
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
EXTRA - Ava
Capitolo 37
Capitolo 38
EXTRA - Nora (pt. I)
EXTRA - Nora (pt. II)
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
EXTRA - Dom
Capitolo 45
Capitolo 46
EXTRA - Lydia
Capitolo 47
Epilogo
Ringraziamenti
Tematiche trattate
Notizia importante!
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FRI24

EXTRA - Lewis

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Oleh zaystories_

Il tragitto verso casa fu marcato da un silenzio pregno di tensione, ma che al tempo stesso lasciava trapelare l'angoscia che si annidava nel corpo e nella mente di Rylee.

Ogni tanto le scoccavo una breve occhiata, ma lei non ricambiò mai le mie attenzioni. Era immobile, con il capo addossato al finestrino dell'auto, i capelli spettinati e le palpebre socchiuse per la stanchezza. Non sapevo se stesse dormendo, ma non la disturbai.

L'unico momento in cui lo feci fu quando arrivammo nel parcheggio sotto la nostra palazzina, immerso nella fitta oscurità notturna, sferzata solo dalla luce dei lampioni sparsi nella zona. Non fui invadente, perché il senso di colpa verso i miei comportamenti era già abbastanza grande. Al contrario, mi limitai a picchiettare un dito sul suo braccio affinché si svegliasse.

La vidi muoversi, riassestarsi sul sedile dalla tappezzeria logora. Mugolò qualcosa di incomprensibile e, solo dopo aver realizzato di essere desta e vigile, mi guardò.

Avevo smesso di vederci Rylee, in quegli occhi. Le sue iridi d'un marrone caldo avevano perso lo scintillio che la caratterizzava fin da quando era bambina, il brillio giocoso e allegro che si era affievolito. Non ne scorgevo neanche un benché minimo barlume. Era una luce che si era spenta per la seconda volta nella sua vita, dilaniata dall'amore che lei aveva sempre vissuto al massimo dell'intensità.

Non aveva mai voluto capacitarsi del fatto che superare i limiti portava a pericoli, e che questi ultimi costituivano la retta via verso la sofferenza. Era testarda, la conoscevo bene, e avevo provato costantemente a dissuaderla dalle emozioni in cui si stava avventurando. Forse, però, l'avevo fatto con i modi sbagliati.

Non mi rivolse parola alcuna. Fece scattare la portiera della sua auto, di cui stringevo il volante tra le mani, e scese dal veicolo. Io emulai i suoi movimenti e la seguii nell'androne della nostra palazzina, che raggiungemmo in una manciata di secondi.

Salimmo le scale in silenzio, un mutismo interrotto dal ronzio emesso dai vecchi lampadari dei singoli ballatoi. Eppure, io non le tolsi gli occhi di dosso per un solo istante. Era debole, e l'unica mia volontà era quella di tenerla sotto controllo affinché non crollasse a terra per lo sfinimento. Non contemplavo nessun secondo fine.

Gradino dopo gradino, la frangetta le rimbalzò sulla fronte imperlata di sudore e lei litigò con gli orli dell'uniforme stretta. Odiava la divisa del Kenmore, me l'aveva sempre detto. Repressi un sorriso, quando mi resi conto che almeno quel dettaglio di lei non era svanito nel nulla, mangiato dal dolore.

Arrivammo al nostro appartamento in pochi minuti. Le chiavi tintinnarono nel momento in cui le afferrai, intrappolate nella tasca del mio pantalone, e con esse sbloccai la serratura. Spalancai l'uscio dinanzi al suo sguardo prostrato, segnato dalle occhiaie profonde.

Anche se il quadrilocale era in perfetto ordine, lei non sembrò notarlo e fui colpito da una punta di delusione. Mi ero impegnato per rimuovere tutto il soqquadro che ci caratterizzava, solo perché speravo potesse farle piacere, una volta rientrata a casa dalle sue notti infinite trascorse in ospedale.

Nonostante le discussioni e i litigi, non avevo smesso di compiere gesti per lei. Erano piccoli, talvolta impercettibili, ma c'erano. Eppure lei non li vide mai, perché erano celati dal mio spesso strato di egoismo nelle scelte e impulsività nei discorsi. L'avevo insultata, maltrattata, quasi malmenata fino a qualche ora prima. Un lato incontrollabile di me che odiavo e che non riuscivo a sopprimere.

Non me lo sarei mai perdonato e covavo, in un angolo remoto della mia mente, la speranza che lei potesse ancora volermi bene.

Ignorandomi, andò a sedersi al tavolo da pranzo che campeggiava in salotto, appena dinanzi all'area del cucinino. Si sfregò i palmi sul viso, come a liberarsi di un dolore ormai incagliato in lei, impossibile da rimuovere.

Stava rivivendo il periodo peggiore della sua vita, in una copia fedele trasportata a Worcester. Me l'aveva urlato in faccia prima di andarsene dalla tavola calda, e io ero rimasto attonito. Fino a quel momento, non l'avevo realizzato.

Assecondando il suo silenzio, mi avvicinai all'angolo cottura. Sui fornelli spenti, nel pomeriggio, avevo appoggiato una teglia di muffin al cioccolato che avevo preparato per Rylee. Sapevo che li amava, e avevo sperato che tornasse a casa per riposarsi e trovarli lì, come una sorpresa. Come una scusa. Ma non lo fece, e i dolcetti rimasero lì.

Quindi ne afferrai uno. Strinsi la carta liscia del pirottino tra le dita e compii qualche misero passo per avvicinarmi a lei. Una volta giunto, lo adagiai sulla superficie del tavolo, davanti al suo capo chino.

«Li ho fatti per te, oggi pomeriggio» le spiegai. Mantenevo basso il tono della voce, non volendo infastidirla più di quanto io non ne fossi già stato in grado. «Mangia qualcosa, Lee» la implorai. «Non ti reggi in piedi».

Giocherellò con il bordo della carta colorata, staccandola dalla pasta soffice del muffin e facendo cadere qualche briciola sul tavolo. Di malavoglia, ne prelevò un pezzetto e se lo infilò in bocca, iniziando a sbocconcellare un minimo. Erano bocconi piccoli, i suoi, ma almeno quegli zuccheri le avrebbero conferito un po' di sostentamento.

Quando mi fui assicurato del fatto che stesse mangiando, le regalai un'altra attenzione.

«Vado a riempirti la vasca», le dissi. «Così puoi rilassarti un pochino».

Non mi rispose. Continuò a fissare il vuoto, piluccando tra le briciole del dolcetto e nutrendosi con la lentezza di un uccellino indifeso. Le mie attenzioni, quella volta benevole, le scivolavano addosso come se lei ne fosse stata del tutto immune.

Senza avvilirmi, camminai verso il bagno del nostro appartamento e accesi la luce. Era sempre stata una stanza piccola e spoglia, scarna, dotata del minimo indispensabile, e la vasca era addossata alla parete piastrellata. Non era certo delle dimensioni di una piscina, né tantomeno della stessa bellezza, con la ceramica sbeccata e segnata dagli anni.

Mi inginocchiai davanti a essa e occlusi lo scarico, poi aprii il getto d'acqua. Limpida, iniziò a scorrere e a infrangersi sul fondo, abbastanza calda da generare alcune volute di vapore che appannarono le lenti dei miei occhiali. Vi aggiunsi il sapone, che liberò nell'aria un dolce profumo. In quei giorni aveva piovuto spesso, l'aria all'esterno era più fresca e un bagno caldo non avrebbe che giovato alle condizioni di Rylee.

Nell'attesa, rimasi seduto sul pavimento, con un gomito puntellato sul bordo della vasca e il capo sorretto da quest'ultimo. Stavo pensando proprio a lei, al modo in cui mi ero rivelato una persona orribile, comandato dalla gelosia e da un senso di iperprotettività. La cosa peggiore era che, dopo ogni litigio, comprendevo sempre di più la realtà dei fatti: la mia non era un'infatuazione, bensì un attaccamento morboso che avevo sviluppato nei suoi confronti. L'abitudine di vederla sola, senza alcun legame sentimentale, a ricordare il suo unico amore. E, così facendo, non avevo contemplato la felicità che Blake le stava trasmettendo.

L'avevo fatta soffrire per niente, per una stupida paura del cambiamento.

Fu proprio lei a fare capolino, addentrandosi nel bagno sulle gambe tremanti. Le si serravano le palpebre dalla stanchezza, ma cercò di rimanere vigile. Sospirai e distolsi lo sguardo, chinandomi in avanti per chiudere il getto d'acqua. La vasca era ormai piena, pronta ad accoglierla tra la schiuma.

Lei si avvicinò ancora un po', con la suola delle scarpe logore che pestava la ceramica immacolata delle piastrelle, e io mi affrettai ad alzarmi.

Ignaro di cosa dire, pronunciai un mero: «Vado di là, così puoi stare tran–»

«No, resta» mi pregò, quasi ordinò, e lo fece anche con i suoi occhi dolci e imploranti al tempo stesso. «Per favore» aggiunse, in un flebile mormorio.

Compii un impercettibile gesto con il capo per annuire. Abbassai la tavoletta del water alle mie spalle, così da potermi sedere su di essa, la schiena appoggiata alla cassetta dello sciacquone. Lei iniziò a spogliarsi a qualche centimetro da me, e io dedicai la mia concentrazione alle fughe delle piastrelle della parete. L'avevo vista nuda svariate volte, conoscendola fin da quando era solo una bambina, ma quella volta non lo feci. Mi sembrava una mancanza di rispetto.

Privatasi di ogni indumento e scioltesi le trecce, entrò nella vasca e venne risucchiata dalla schiuma soffice. Le punte dei capelli spettinati si inumidirono e il suo corpo minuto scomparve nel sapone. Stette immobile, per un po': seduta sul fondo, con le ginocchia al petto circondate dalle braccia, contemplava un punto indefinito del vuoto e lottava contro l'istinto di addormentarsi per quel tepore improvviso. Poi voltò il capo, e appoggiò la guancia morbida sulle rotule. Così facendo, poté guardarmi.

«Perché lo stai facendo?» Quello fu il suo quesito repentino, roco per i lunghi silenzi entro cui si era isolata.

«Non lo so», sospirai. Era una scusa inventata, un modo per tergiversare e non confessare le mie vere colpe. Capitolare, tuttavia, non fu difficile, perché fui assalito dalla mole di problemi che le avevo riversato addosso e non potei sfuggirne. La mia vista si offuscò, quando percepii la presenza di un velo di lacrime. «Ho fatto schifo, nelle ultime settimane» ammisi. «Vorrei rimediare, in qualche modo» le rivelai il mio desiderio, «e vorrei che tu avessi qualcuno accanto in questo periodo».

Fece spallucce, mostrandosi indifferente. Vederla così rassegnata fu una coltellata inferta in pieno petto. «Ho discusso anche con Ava» mi confidò, scossa da una risata amara per l'assurdità della situazione. «Non mi sorprenderei, se mi ritrovassi completamente sola».

«Mi disp–»

«Non importa, Lewis» s'infiltrò. «Fa' finta che io non ti abbia detto niente».

Aleggiava una tensione palpabile, tra noi. Spessa, densa, si era intromessa creando silenzi imbarazzati e frasi sconnesse, talvolta insensate. Parlavamo a monosillabi ed era un miracolo che ci riuscissimo.

Ma io tentai di spezzarla, quella tensione. Tornai a inginocchiarmi sul pavimento, dinanzi alla vasca, e mi allungai per afferrare il flacone dello shampoo abbandonato nell'angolo. Rylee non mosse un ciglio: quando me ne versai un po' sulle mani e iniziai a coccolarle i capelli, chiuse gli occhi e si rilassò. Le mie dita viaggiavano tra le sue ciocche, che iniziarono ad ammorbidirsi sotto il mio tocco lieve, così come i nodi cominciarono a districarsi.

«Non ho nessun secondo fine», la rassicurai. Mantenni un tono di voce basso, per evitare di indispettirla o di disturbarla. Era sfinita: non volevo che le mie parole le martellassero il cervello. «Non ti sto chiedendo di perdonarmi, perché non lo farei nemmeno io stesso» le spiegai. «Ma voglio solo dimostrarti che sono qui».

Quando finii di insaponarle i capelli, tolsi le dita piene di schiuma e le sciacquai nell'acqua che colmava la vasca, ormai quasi fredda. Anche quella volta, Rylee non mi rispose. Si beò della tranquillità, dell'assenza dei rumori dell'ospedale, ma i suoi tremori perdurarono. Lo capivo dai brividi che le rivestivano il corpo.

Allontanandomi da lei, mi alzai in piedi. Sul pavimento rilucevano ora alcune gocce d'acqua cadute dalle mie mani, ma non persi tempo ad asciugarle.

«Vado a prenderti qualcosa di comodo da metterti» la informai, indicando l'uscio alle mie spalle, lasciato aperto. «Hai preferenze?» le domandai.

«Fa' come vuoi» esalò.

Non potei che annuire, lasciandola nel suo mutismo, e girai sui tacchi per uscire dalla stanza. La sua camera da letto sorgeva direttamente lì accanto, con il letto rifatto alla perfezione, segno che nessuno ci aveva dormito per un po', e i suoi averi erano sparsi in giro.

Stare in quella casa, nelle ultime settimane, era stata una tortura. Rylee mi mancava, e vedere tutto ciò che le apparteneva incrementava la nostalgia senza lenire le ferite. Volevo i suoi sorrisi, la sua allegria, i balli improvvisati a ogni canzone che ascoltava; sognavo di assistere al volo che soleva spiccare con le ali che io stesso le avevo mozzato.

Scuotendo il capo, arginai quei pensieri ossessivi e marciai verso il suo armadio. Ne spalancai un'anta: una sua caratteristica preponderante era quella di lasciare i vestiti in un ammasso disordinato. Le magliette che utilizzava per dormire, infatti, formavano un unico groviglio, e io afferrai la prima che mi capitò sotto tiro. Era larga, molto più grande di ciò che serviva alla sua esile figura, e sullo sfondo nero spiccava una stampa dai colori fosforescenti. Insieme a essa, poi, recuperai l'intimo.

Non appena superai l'uscio della stanza per tornare nel bagno, però, fui colpito da una serie di singhiozzi che riecheggiarono nel silenzio. Erano ovattati, forse per il tentativo di metterli a tacere, e ne ebbi la conferma quando giunsi sulla soglia.

Rylee era in piedi dinanzi al lavandino, fasciata nel suo solito accappatoio bianco. I capelli bagnati le cadevano sulle spalle, ondulati, e lei era scossa dai singulti che le facevano rimbalzare la frangetta sulla fronte. Si era portata una mano alla bocca per zittirsi con scarsi risultati, e le lacrime le si infrangevano proprio sulle dita.

Non ci pensai due volte: lasciai che i vestiti che reggevo tra le mani cadessero sul pavimento e mi fiondai da lei.

«Lee, hey...» mormorai, preoccupato. Provai a tenere a bada i respiri, che accelerarono, mentre le sfioravo un fianco per farla voltare nella mia direzione. Con un movimento simile, le afferrai il polso e scoprii le sue labbra tremanti. «Che c'è...»

Scosse il capo in negazione, non degnandomi di una risposta. E forse, in quel gesto, era insito un "non ce la faccio più": era stremata, dilaniata da un'oscurità sempre più espansa.

Tremava come una foglia, e sapevo che non era solo per il pianto. Era ricoperta di brividi, per quel poco che riuscii a intravedere della sua pelle chiara. Quella era una delle sue crisi d'ansia, le conoscevo bene. Avevo imparato a conviverci.

Nel tentativo di calmarla, la feci indietreggiare e la invitai a sedersi sulla tavoletta del water, ancora chiusa. Avevo bisogno di guardarla meglio, quindi mi inginocchiai dinanzi alla sua figura tremula e cercai il suo sguardo.

«V-Vai a prendermi una sigaretta, c'è un pacchetto in camera» mi implorò con la voce spezzata, mozzata dai respiri mancati.

La scrutai per qualche secondo. Non mi era mai piaciuto che fumasse. Aveva iniziato dopo la morte di Dom, ancora in piena gravidanza, per sopprimere il ripetersi costante di quelle situazioni. Ma le faceva male, la stava deteriorando e lo notavo soprattutto quando pattinava. Faceva fatica a prendere fiato, e non riusciva più a compiere grandi sforzi. Quel vizio la stava consumando con flemma.

«Rylee, perché non–»

«Perché sto avendo un fottuto attacco di panico, Lewis!» quasi mi sbraitò in viso, con le lacrime che aumentarono sulle sue gote. «Ho bisogno di fumare, ti scongiuro» decretò, infine.

Mi alzai in preda alla rassegnazione. Non provai a farle cambiare idea, a calmarla io stesso con dei meri gesti. Mi limitai a soddisfare il suo desiderio e mi ritrovai per la seconda volta nella sua stanza. Un pacchetto consumato di Chesterfield giaceva solitario sul suo comodino, affiancato da un accendino che agguantai. Raccolto il bottino, tornai da lei.

La raggiunsi sfilando una sigaretta dal pacchetto malandato. Gliela porsi, senza proferire verbo né ricevere ringraziamento alcuno, e lo stesso feci con l'accendino. La fiammella tremolò nell'aria, quando lei bruciò l'estremità del tabacco pressato nella carta sottile, e una voluta di fumo salì verso il soffitto nel momento in cui fece il primo tiro.

Trascorremmo i minuti in quel modo. Io mi risedetti a terra, di fronte a lei, con la schiena al muro. La osservai stringere il filtro tra le dita, poi tra le labbra, in un ciclo che terminò quando la sigaretta si consumò fino al limite. Si era calmata: i respiri erano tornati regolari, i tremori scomparsi; rimanevano solo le lacrime, lente sul suo volto. Spense la sigaretta sotto il getto d'acqua del lavello lì accanto e abbandonò il mozzicone sulla ceramica bianca.

Ancora coperta dall'accappatoio, tirò su le gambe e si strinse le ginocchia al petto. Era la sua posizione di difesa, il suo scudo contro di me, che l'avevo fatta soffrire più di quel che meritava.

«Mi sembra tutto così assurdo» confessò, all'improvviso. Parlò bevendosi le lacrime che le arrivavano flemmatiche alle labbra. «Non posso iniziare a godermi qualcosa che viene distrutto subito», rifletté.

Ancora una volta, sospirai. Era davvero incredibile il modo in cui le vicende che più l'avevano segnata si stessero ripetendo, con sfumature diverse ma nel medesimo, identico modo. Si era legata a una persona, aveva iniziato a provare un sentimento speciale dopo quattro anni e quella stessa persona le stava venendo sottratta dal destino.

Un emerito bastardo, per Rylee.

Ero ignaro di come consolarla, e rimasi in silenzio finché lei non riprese a sfogarsi.

«Io sapevo che avrei dovuto allontanarmi da tutto questo, dopo aver perso Dom» mormorò. «Io lo sapevo, cazzo, eppure sembrava tutto così bello che ho deciso di provarci». Tirò su con il naso, ma non smise di piangere. Le lacrime aumentarono. «Possibile che dove metto mano io vada tutto male? Ti sembra normale, Lewis?» mi domandò, rifilandomi una raffica di quesiti che mi balenarono nella mente per un po'.

Colpevolizzarsi era una sua abitudine fin dalla morte di Dom. Non aveva fatto altro per quattro anni, anche se tutti coloro che le orbitavano intorno avevano cercato di farla ragionare. Per lei era sempre stata colpa sua, se quei colpi di pistola le avevano rovinato la vita.

A distanza di un solo quadriennio, la situazione era la medesima. Rylee si sentiva l'artefice di una serie di rovine, proprie e altrui, escludendo la presenza di qualsiasi altro fattore complice. Oltre al dolore, sulla lastra di pietra cupa e grezza ch'era diventata era incisa anche la colpevolezza.

«Ma non è colpa tua», la rassicurai. «Non è mai stata colpa tua» sottolineai.

«Eppure Blake ha fatto quell'incidente dopo avermi conosciuta» sputò, e la rabbia che ne trapelò era tutta veicolata su se stessa. «È finito in ospedale e io sono solo una delle persone che stanno soffrendo». La voce le si ruppe in via definitiva, come quell'ammissione. Il labbro inferiore ricominciò a tremarle, così come le mani. «Ho distrutto sua sorella, la mia migliore amica» continuò.

Per ascoltarla meglio, mi raddrizzai. Eravamo a meno di un metro di distanza, viste le dimensioni ridotte del bagno, e i suoi singhiozzi riecheggiavano tra le pareti.

Per un po' guardai in basso, e mi interrogai su quante cose sarebbero state diverse se solo non le avessi voltato le spalle. Se solo fossi stato presente.

Se solo non mi fossi comportato da completo imbecille accecato dalla gelosia e dalle insicurezze.

«Ho litigato con te» riprese, poi. «Sei il mio migliore amico da quando ho memoria e ti ho perso, Lewis». Il modo in cui pronunciò il mio nome, frammentato e intriso di indecisione, mi spezzò il cuore. Lo sentii trafitto da una lama impregnata di veleno, tanto che una lacrima solcò la mia guancia. E non fu l'unica. «Ti ho perso perché sono stata testarda, perché non mi sono mai fermata a riflettere per un solo secondo» proseguì. «Non me lo perdonerò mai».

Nella mia testa, mi chiesi su cosa avrebbe dovuto riflettere. Lei non era cambiata di una virgola, eppure si sentiva complice di quell'errore. Si caricò dell'ennesima colpa.

«Al di là di Blake, che se ne sta...» vacillò, incapace di ammetterlo. «Che se ne sta andando...» singhiozzò. «Ci siete tu e Ava che mi detestate, e io... Io mi chiedo solo come sia possibile che io abbia sbagliato così fottutamente tanto».

Era un dubbio che la attanagliava, e non gli aveva dato voce per vittimizzarsi. L'aveva fatto con sincerità, perché era la sua reale sensazione: nella sua mente, lei era colpevole di tutto, anche dell'odio che si percepiva addosso, cucito come un vestito troppo stretto.

Il mio compito divenne quello di rassicurarla una volta per tutte. Mi alzai dal pavimento, facendo forza sulle braccia, e compii quel paio di passi che mi ricongiunse a lei. L'insicurezza dei miei gesti non ebbe la meglio: le carezzai i capelli umidi, seppur titubante, e la strinsi a me; il capo aderì al mio corpo all'altezza dello stomaco.

«Io non ti detesto, hey...» sussurrai, sfiorandole le singole ciocche ondulate di capelli. «Nessuno di noi lo fa» asserii. «È un periodo pieno di problemi, ma... Noi non potremmo mai odiarti, Rylee».

Era un "noi" che inglobava me e Ava, le uniche persone su cui aveva fatto affidamento una volta giunta a Worcester. In una cittadina piccola e noiosa come quella, non le era mai servito altro. Le era sempre bastato l'affetto sincero che le donavamo senza riserve, lo stesso che lei ora vedeva sbriciolato, quasi del tutto perduto.

Il vero senso di colpa, però, attanagliò me. Mi strinse le viscere, le disintegrò in maniera lenta e dolorosa, perché quel connubio di sensazioni di cui lei era prigioniera erano iniziate proprio quando avevamo discusso per la prima volta. Ero stato solo ed esclusivamente io a commettere l'errore madornale di allontanarla.

«Anche se non ti importerà e mi ignorerai, ci tengo a scusarmi per tutto» dissi. «Ti ho lasciata sola quando non avrei dovuto farlo, e non ho nemmeno provato a capire cosa stessi passando... Non è perdonabile, lo so, ma volevo che tu sapessi che mi dispiace».

Anch'io ero alla mercé delle lacrime. Un fiume in piena, salato e deciso, che mi solcava il volto; goccioline calde che finirono tra i suoi capelli umidi, da me carezzati senza sosta.

«Ne parleremo un'altra volta, Lewis» farfugliò, accantonando quella conversazione. «Ora ho solo bisogno di dormire, non chiudo occhio da due giorni».

All'espressione di quel desiderio, mi discostai da lei. Camminai, lento, verso i vestiti che avevo lasciato cadere sul pavimento per dirigermi da lei, qualche minuto prima; li afferrai e glieli portai, adagiandoli sul bordo del lavandino al suo fianco.

«Ti ho portato questi, spero vadano bene» mi augurai. «Se vuoi che io me ne vada, mentre ti cambi...»

«Smettila di farti problemi» replicò, alzandosi in piedi. «Ti ho visto nascere e tu mi hai visto crescere. Come potrei vergognarmi di cambiarmi davanti a te?»

«Beh, visti i trascorsi...» commentai, con una punta di sano sarcasmo.

«Taci, Lewis» ribatté.

Per evitare di stare in piedi, tornai ad accomodarmi, occupando il posto che lei aveva lasciato libero. Mi imposi di guardare altrove mentre, con la coda dell'occhio, notai il profilo della sua figura intenta a farsi scivolare via l'accappatoio. Cadde a terra e lei si infilò l'intimo. In un secondo momento, afferrò la maglia. Invece di indossarla, però, si fermò a fissarla. Fu allora che le lanciai un'occhiata, incuriosito dal suo atteggiamento, e scorsi un nuovo luccichio che rivestiva le sue sclere.

«Q-Questa era di Dom» balbettò, stringendo il tessuto morbido tra le dita.

Merda, l'ennesimo sbaglio.

«Cristo», imprecai. «Se vuoi, posso...»

«Va bene così» mi liquidò, e subito dopo se la infilò. Quelle taglie in più coprirono il suo corpo fino a metà coscia.

Si guardò allo specchio, e nel medesimo istante si ritrovò a sbadigliare. Il sonno iniziava ad annebbiarla e lei, con il viso rigato dalle lacrime che si stavano asciugando, sentì tutta la stanchezza accumulata nei giorni. Che fosse fisica o mentale, la stava portando allo stremo.

«Vieni qui» la invitai, battendo i palmi sulle mie cosce. «Se ti va», aggiunsi.

Quello che ne scaturì fu l'unico accenno di sorriso che scorsi sul suo volto. Non era certo a trentadue denti, ma mi bastò quella leggera incurvatura delle sue labbra perché il mio cuore recuperasse un battito perduto.

Non si dimostrò contraria. Con qualche passo mosso sulle gambe deboli, mi raggiunse e si sedette dove indicato. Le cinsi la vita con un gesto pressoché impercettibile, impaurito dalla possibilità di infastidirla; lei non batté ciglio. Si accoccolò, invece, sul mio petto: la sua testa aderì alla mia maglietta e socchiuse le palpebre. Forse non voleva davvero farlo, forse era solo un'azione dettata dalla mancanza di energie.

Ascoltai i suoi respiri e lei fece lo stesso con i battiti del mio cuore. Stretti nel silenzio, il mondo sembrò ridursi a noi, a una bolla protettiva in cui niente e nessuno avrebbe potuto dividerci.

Non di nuovo.

«Sai...» sussurrò all'improvviso, cullata dalle dolci carezze che iniziai a lasciarle fra i capelli. Dalle radici alle punte, le mie dita percorsero l'intera lunghezza delle sue ciocche. «Vorrei andare a New York e stare un po' lì. Anche se fosse solo per qualche ora... andrebbe bene lo stesso».

Sospirai in risposta, con il mento puntellato sul suo capo. Non avevo mai amato le sue fughe improvvise a New York, perché Brooklyn era un brutto distretto e Brownsville, come quartiere, era fin troppo malfamato. L'idea che lei vi si recasse da sola mi terrorizzava, ma al contempo sapevo di non poterla tenere in gabbia. Rylee era fatta per volare ogni qualvolta ne sentisse l'ardente necessità.

Dunque, benché a malincuore, tacqui.

«Vorrei andare da Brianna» aggiunse, e io sussultai per l'attonimento.

Brianna era la madre di Dom, e aveva sempre trattato Rylee come una figlia. Negli anni della relazione tra i due, nuora e suocera avevano instaurato un rapporto prezioso come l'oro, un legame inscindibile. Ciononostante, il fatto che Rylee volesse tornare in un periodo così arduo, mi sorprese.

«Come mai?» indagai, la voce calma e il tono incuriosito.

«Ho bisogno di sentire Dom vicino» confessò. Mi accorsi del suo deglutire repentino, come a ingoiare un nodo di tristezza e nostalgia. «Non posso farlo da nessun'altra parte, se non a casa sua».

«Nessuno può vietartelo, Lee» le sussurrai, senza smettere di coccolarla con carezze cadenzate. «Se senti che andare là è la cosa giusta per te... allora devi farlo».

«Non credi che sia sbagliato nei confronti di Blake e Ava?» mi domandò, ma alcune parole risultarono incomprensibili. Aveva la voce impastata dal sonno, che stava iniziando a vincere su di lei e sui suoi sforzi. «Forse dovrei restare qui» considerò.

«Hey, ascolta» esordii. «Tu hai già provato a fare il possibile per questa situazione, e adesso ti meriti una pausa» esplicai. «Ripeto: se senti che New York possa essere positiva per te, l'unica cosa che devi fare è prendere la macchina e andarci. Non ti ferma nessuno».

Annuì, mostrandosi d'accordo con me, e per un po' stette in silenzio. La tensione era scomparsa, l'imbarazzo si era dissolto nell'aria: eravamo rimasti solo noi, Lewis e Rylee, amici sinceri fin da quando erano stati in grado di rendersi conto dell'esistenza l'uno dell'altro.

Non mi sarei più lasciato scappare quella ragazza. I suoi sorrisi erano gocce di allegria che lei instillava in me, la sua risata era pura linfa vitale. E il luccichio che le impreziosiva le iridi... quello era il segno che, anche se il mondo si sgretolava e ti schiacciava con il suo peso, provarci ne sarebbe sempre valsa la pena.

Discostandomi appena da lei, abbassai lo sguardo sulla sua figura. I respiri si erano fatti profondi, lei era immobile. Con le labbra schiuse di cui scorsi solo il profilo, si era addormentata tra le mie braccia.

Decisi che era il momento di portarla sul suo letto, di concederle un po' di pace e comodità. Con una mano a sorreggerle la piega delle ginocchia e l'altra dietro la sua schiena, quindi, mi alzai, e mi caricai del suo peso fino alla sua stanza.

Una volta lì, la adagiai sulla morbidezza del materasso. Il lenzuolo chiaro si stropicciò, quando la sistemai nella posizione più comoda possibile, e lei, come una bambina attanagliata dalla solitudine, strinse a sé il cuscino.

Rimasi a guardarla per un paio di minuti. La sua gota era premuta sul guanciale, paffuta, e le braccia ingabbiavano saldamente quest'ultimo. Le labbra schiuse, piene, arrossate per il pianto eccessivo delle ultime ore. Dopo tutto lo stremo, il fatto che si fosse addormentata era per me un gran sollievo.

Piegando appena le ginocchia, le accarezzai il viso e scostai un paio di ciocche di capelli disordinate. Le lasciai un bacio sulla fronte, poi mi raddrizzai.

«Buonanotte, Lee» le augurai, e iniziai a incamminarmi verso la porta. Prima di lasciare la stanza, spensi la luce.

Quelle innumerevoli ore infinite avevano distrutto anche me. Non sapevo se lei mi avesse effettivamente perdonato, ma almeno riuscivo a scorgere un fioco bagliore di speranza.

In salotto, gettai un ultimo sguardo all'orologio da parete: erano già le cinque di una notte andata ormai perduta.

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