The Not Heard

By azurahelianthus

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⛓️ DARK ROMANCE AUTOCONCLUSIVO ⛓️ Ci sono vendette che non hanno tempo e sbagli per cui non esiste redenzione... More

𝐓𝐇𝐄 𝐍𝐎𝐓 𝐇𝐄𝐀𝐑𝐃
𝐏𝐑𝐎𝐋𝐎𝐆𝐎
I
II
III
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VI
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IX
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XII
XIII
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XV
XVI
XVII
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XIX
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XXVIII
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XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXV
𝐄𝐏𝐈𝐋𝐎𝐆𝐎
𝐋𝐀 𝐋𝐄𝐓𝐓𝐄𝐑𝐀

VII

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By azurahelianthus

Non avevo idea di che tipo di patto volesse stringere uno come lui con una come me. Ne ero quasi timorosa. «Che tipo di patto?». Lo fissai sospettosa, attenta a non cadere in nessun tranello.

«Una confessione per una confessione».

«Una confessione per una confessione?». Ripetei confusa e lui annuii.

«Per ogni cosa che mi dirai di te io te ne dirò una di me. E viceversa ovviamente».

«Avevi detto che non ti piace parlare di te». Lo guardai cercando di nascondere la mia sorpresa.

«Sì».

«Allora perché mi stai proponendo questo patto che va contro i tuoi interessi?».

«Perché ho diciotto anni da recuperare con te, diciotto anni di cose da sapere e di avvenimenti a cui non sono stato presente».

Tornai ad appoggiare la nuca al muro, vagando con lo sguardo per tutta la stanza, abbastanza piccola e del tutto vuota. «Beh, direi che adesso il tempo è dalla nostra parte. Non abbiamo molto da fare».

L'ombra di un sorriso ironico gli curvò le labbra, prendendo le mie parole come una conferma al fatto che avessi accettato le condizioni del suo patto. Appoggiò la nuca alla parete e i gomiti alle ginocchia, cercando di mettersi comodo. «Come ti ho detto l'altra volta, ho vissuto a Santa Monica dai miei cinque anni con mio padre. Sono figlio unico, perciò siamo sempre stati solo io e lui sfortunatamente».

«Io sono nata in Sicilia durante una vacanza a Taormina. Non era previsto, ma è successo. Sin dalla nascita di Norman, e poi della mia, abbiamo vissuto in tante cittadine diverse della Russia per seguire il lavoro di mio padre e alla fine ci siamo stabilizzati a Mosca».

«Mia madre è morta a causa di mio padre. Il proiettile che le ha reciso l'arteria era indirizzato a lui, non a lei. È successo in Sicilia, dopo la partita di tuo fratello e dopo averti visto per l'ultima volta anche se non ne avevo idea. Ecco perché mi ha portato via». La sua voce si abbassò di qualche tono, come se stesse rivivendo la scena nella sua mente tramite i ricordi. Mi accadeva spesso.

Dischiusi la bocca, sorpresa dalla sua prima confessione seria e così personale.Aveva sempre detto poco e niente di sé. «Perché me lo stai dicendo?».

«Te l'ho detto, una confessione per una confessione. Se voglio una cosa da te devo dartene una di me». Il suo sguardo si fissò sul tetto sopra le nostre teste, incredibilmente crepato e rovinato dal tempo oltre che sporco. «E poi, sai, accade una cosa strana quando stai per così tanto tempo in silenzio. Una volta che torni a parlare ti esce tutto di botto, diventa un flusso che non riesci ad arrestare».

Mi morsi l'interno della guancia. «Non so chi sia mia madre, ci ha abbandonati dopo avermi partorito. Norman mi ha sempre raccontato che un giorno, durante quella vacanza a Taormina, ci siamo svegliati e lei non c'era semplicemente più. Era partita e aveva fatto perdere le sue tracce, lasciando soltanto una lettera che mio padre ha sempre nascosto».

«L'avete mai letta tu e Norman?».

«Ovviamente, la curiosità ci ha sempre fottuto. Diceva che era tutto troppo per lei, che quella non era la vita che voleva e che non si era mai immaginata in un futuro che comprendesse due bambini, una casa da gestire e un marito che lavora troppo. Aveva scritto che se fosse stato solo Norman avrebbe anche potuto farcela, ma con me e Norman insieme non poteva».

Mi parve di vederlo irrigidirsi. «Poteva pensarci prima di aprire le gambe una seconda volta».

«Hai ragione». Una risatina amara lasciò la mia bocca, i miei occhi erano offuscati da un velo di tristezza che non avrei saputo neanche spiegare. La rabbia e il dolore tornarono più forti delle ore precedenti. «Mi sono sempre chiesta come sarebbe andata se non fossi nata. Forse senza di me mio padre avrebbe avuto ancora una moglie e mio fratello avrebbe avuto una mamma». Abbassai anche io il tono, tanto da ridurlo in un sussurro. «Forse Norman adesso sarebbe felice».

Forse sarebbe ancora vivo.

«Prima o poi se ne sarebbe andata lo stesso, è quello che fanno le persone che ci lasciano. Niente potrebbe convincerli a restare per sempre». Voltò la testa verso di me. «Ho conosciuto Norman, anche se per poco. Sono sicuro che non cambierebbe nulla di quello che è stato e che sceglierebbe sempre te, anche se gli venisse data la possibilità di avere una madre».

«Probabilmente». Gracchiai, sperando che non lo notasse. Forse lo notò. «Che rapporto avevi con tuo padre?».

La sua espressione si incupì, ma fece un grande sforzo e alla fine mi rispose. «Molto marginale. L'ho sempre odiato perché era lui a dover morire, non la mia mamma. Non lei». Mormorò.

«Eri molto legato a lei, vero?». Sorrisi dolcemente, immaginando una sua piccola versione abbracciare la sua mamma con lo stesso affetto con cui io abbracciavo il mio.

«Mia madre era la mia luce, mi illuminava la strada e mi aiutava ad andare nella retta via. Voleva il meglio per me e mi dispiace averla delusa, vorrei cambiare le cose solo per questo».

Voltai la testa verso di lui, stuzzicata da un dettaglio che mi aveva inconsciamente dato. «Le cose sarebbero potute andare in un modo diverso, Airton? Perché da come parli sembra così».

I suoi occhi scuri si rabbuiarono. «Proprio non ce la fai a non fare la detective, mh?».

Ops, beccata in fragrante. Mi lasciai andare ad un sorriso imbarazzato e mi scusai con lo sguardo. «Va bene, tenterò di smetterla di fare il mio lavoro Mr. culo sodo e pallido».

«Era da un po' che non mi chiamavi così, eh? Non vedevi l'ora secondo me!». Scoppiò in una risata sinceramente divertita, una di quelle che non riesci a contenere e che esplodono tutto d'un tratto, illuminando la stanza di una luce che non è davvero presente.

Mi strinsi nelle spalle. «Un po', lo ammetto». Ridacchiai. «E tu è da tanto che non mi chiami con un nome che non è il mio».

«Il tempo passa velocemente da quando ci sei tu, nica». Le sue parole sembrarono suonare strane perfino a lui, non era abituale vederlo parlare in maniera così spontanea e onesta. Se c'era una cosa che avevo capito di lui in queste settimane era che calcolava alla perfezione tutto quello che diceva, dalla sua bocca non usciva mai niente di troppo e niente di troppo poco. Il giusto.

«Beh, direi meglio così». Non sapevo dire perché, ma mi sentii in imbarazzo. Quasi preferivo bisticciare con lui e litigare fino allo sfinimento, fino a vedere chi dei due avrebbe abbassato l'ascia per primo, piuttosto che vivere quel momento di pace fra due persone che erano più di due conoscenti.

Dovevo tornare al mio ruolo, ma non volevo.

«Il mio colore preferito è il giallo». Disse ad un certo punto, suscitando il mio stupore.

«Pensavo fossi un tipo da nero. Il mio è-».

Mi interruppe prima che potessi finire. «Il verde, lo so. L'hai detto la prima volta che ci siamo incontrati in caffetteria».

Mi fissò dritto negli occhi e non distolse lo sguardo nemmeno per un momento. Mi dispiaceva che non ci fosse la luce adeguata in quel buco di cella per riuscire a vedere meglio i suoi occhi alla perfezione, proprio ora che li avevo così vicini e sinceri.

«Perché proprio il verde?». Si mostrò curioso.

Altrettanto lo fui io. «Perché proprio il giallo?».

«La penso come Vincent Van Gogh, il giallo è un colore che trasmette felicità. Le cose più belle hanno un minimo di giallo: i tramonti e le albe, il sole, i girasoli, il bagliore delle lucciole, i tuoi capelli». Appoggiò di nuovo il capo alla parete e mi sembrò, ma non ci avrei giurato, di vederlo nascondere un sorriso. «Non lo mangerei perché ci tengo al mio intestino e alla mia vita, ma sono certo che se reputi una cosa portatrice di felicità cerchi in tutti i modi di tenerla vicino. Non era così pazzo alla fine».

Continuai ad annuire alle sue parole, almeno finché non mi resi conto di quello che aveva menzionato insieme a tutto il resto. Una risata sorpresa mi scappò dalle labbra. «I tuoi capelli?». Ripetei.

«Beh? Perché ridi? Sono gialli!». Stavolta non nascose il suo sorriso, riuscii perfino a vedere i suoi denti bianchi e perfetti tanto era larga quella curva felice sul suo viso sempre privo di emozioni.

«Non sono gialli!». Lo spintonai.

Mi spintonò a sua volta, rischiando quasi di farmi cadere di lato sul pavimento, ma io continuai a ridere. «E che colore sono allora? Dai, sentiamo».

Se avessi continuato a ridere avrebbero dovuto operarmi d'urgenza perché la mia pancia iniziava a dolere. «Di certo non gialli!». Il suo sopracciglio destro scattò in alto e la mia risata si affievolì. «Mi auguro almeno! Perché se lo sono devo correre a farmi un anti giallo». Presi una mia ciocca e me la portai sotto gli occhi per esaminarla.

«Sono perfetti, non hai bisogno di niente». Sfilò la ciocca dalla mia presa e iniziò ad attorcigliarsela al dito. «Da piccola non eri così bionda. Era più un biondo fragola».

«Sì e tu eri simpatico. Le cose cambiano». Ironizzai, inclinando la testa nel lato opposto al suo per fargli scivolare via la ciocca dalle mani. I suoi occhi saettarono su di me.

Non volevo - e non potevo - dirgli che avevo cambiato colore di capelli per non rivedere il riflesso di mio fratello ogni volta che mi guardavo allo specchio. Sperai non facesse altre domande.

«Perché ti sei fatta così bionda?». Mi guardò curioso.

Dannazione.

«Proprio non ce la fai a non fare il detective, mh?». Ripetei le sue stesse parole e imitai - male - la sua voce, cercando di rendere la mia profonda e più bassa. Uscì veramente male, gracchiante e più squillante del dovuto, per cui scoppiai immediatamente a ridere.

Anche lui rise, di nuovo. Oggi avevamo fatto progressi enormi tutti in una volta. «Osi usare i miei incantesimi contro di me, Castillo?».

Era un fan di Harry Potter anche lui!

«Sì, perché io sono la psicologa!». Risi. «Ti facevo troppo stupido per essere un fan di Harry Potter. Mi stai sorprendendo, Parisi».

«E tu mi stai insultando un po' troppo oggi». Sibilò, ma le sue labbra continuarono ad essere curvate in un sorriso. Con le dita mi pizzicò la pelle dei fianchi e per questo sobbalzai, ma lui strinse più forte. «Vedi di finirla, nica».

«Ahi!». Mi lamentai, ma continuando a ridacchiare senza sosta. Il mio corpo si mosse in automatico, cercando di sfuggire a quel pizzico doloroso, e in un attimo mi ritrovai con la mano sul suo polso e le mie gambe ai lati della sua vita. Mi ero mossa talmente tanto che mi ero piegata in avanti e lui, per non farmi finire sul pavimento non esattamente pulito, mi aveva agguantato le gambe e le aveva posizionate attorno a sé.

In sostanza ero seduta su di lui. Ed ero in un oceano di guai.

Le sue mani non si mossero da dove si trovavano, ovvero strette sui miei fianchi. E le mie dai suoi polsi, indecisa se allontanarli da me per alzarmi o se avvicinarli ancora di più per marchiarmi lì dove ancora non era arrivato. Quando trovai il coraggio di alzare gli occhi su di lui mi persi nel marrone dei suoi occhi, osservai concentrata le piccole linee più scure che rendevano le sue iridi molto simili alle dune del Sahara e mi sentii strana, come se non fossi più lì dove mi trovavo ma stessi fluttuando.

Il tempo si dilatò senza che ce ne rendessimo conto, io continuavo a fissare lui e lui continuava a fissare me. La cosa peggiore era che continuavamo istintivamente ad avvicinarci l'uno all'altro, attratti come due calamite che non potevano fare altrimenti.

Il suo respiro caldo si infrangeva sulle mie labbra e respirando non facevo altro che respirare il suo odore al posto dell'ossigeno di cui avevo bisogno, perché lui me l'aveva tolto tutto. Mi aveva mozzato il respiro facendo il nulla più totale. Feci un grosso sbaglio quando la mia stessa lingua mi lambì le labbra improvvisamente secche.

I suoi occhi si incendiarono e le sue dita mi scavarono nella carne, come se cercasse un appiglio a cui aggrapparsi per non perdere il lume della ragione. Le mie mani si mossero da sole, non sapevo come rimetterle al posto, e man mano che salivano verso le sue guance scavate si lasciavano dietro un calore che poteva essere riconducibile solo al fuoco.

C'era fuoco in quella cella angusta, anche se fuori cadeva la neve.

Le nostre labbra erano ormai a pochi millimetri di distanza, anche solo parlando avrei potuto accidentalmente sfiorarle e lui lo sapeva, lui ne godeva. Lo capii quando un ghigno sornione gli curvò quelle stesse labbra che mi attiravano come miele.

«Dovresti... dovremmo... spostarci». La mia voce sembrò strana perfino a me.

Si leccò le labbra e la sua lingua sfiorò un po' anche le mie. «Non è essenziale».

«Lo è invece. Se non finiremo nei guai perché verremo beccati, finiremo all'inferno per esserci baciati». Eppure non mi spostavo di un solo centimetro da lui, continuavo ad accettare di sentire quella durezza attraverso la sua divisa e i miei vestiti.

"Perché non ti sposti?!", chiesi a me stessa.

«Se per baciarti dovessi poi andare all'inferno, lo farei. Così potrò poi vantarmi con i diavoli di aver visto il paradiso senza mai entrarci». Capii da quell'istante, quello dopo aver menzionato uno dei migliori poeti inglesi di tutti i tempi, che per lui sarebbe stato facile rubarmi il cuore tanto quanto gli sarebbe stato facile rubare una caramella.

Solo che sarebbe stato nettamente meno dolce.

Il baccano metallico creato dalla porta massiccia che precedeva lo stretto corridoio dell'isolamento mi risvegliò bruscamente, come se fossi appena stata trascinata via da un bel sogno. In realtà era un incubo, o almeno sarebbe dovuto esserlo.

Non c'era niente di più sbagliato che potessi fare di baciare il motivo per cui ero stata spedita a così tanti km di distanza da casa mia.

Non c'era niente di peggiore di farsi toccare il cuore dall'oggetto della propria missione.

Saltai via dal suo grembo con la stessa velocità di una cavalletta, finendo nuovamente seduta al suo fianco. Evitai di guardarlo sia perché non si vedeva più molto, essendo tardo pomeriggio, sia perché avevo timore di quello che avrei trovato nel suo sguardo.

Un colpo brusco alla cella e il viso della guardia si affacciò dalla piccola finestra con cui passavano i pasti ai detenuti. «Signorina Castillo, il suo prossimo paziente è pronto. Se vuole possiamo andare, la accompagno nel suo studio».

«Certamente». Mi schiarii la voce, tirandomi su in fretta.

Mentre la guardia chiudeva la piccola finestra, facendo tornare la stanza nel buio più totale, mi sembrò di sentire le dita di Airton sfiorarmi il polso con una delicatezza tale da non darmi la certezza che fosse accaduto.

Il buio sembrò intensificare le sensazioni che ancora non erano scemate, mi sentivo ancora accaldata e bisognosa di quel contatto che non era avvenuto e non sarebbe mai dovuto avvenire. Abbassai lo sguardo quando la porta si aprì e la guardia mi permise di uscire fuori, lasciando Airton alle mie spalle.
Mi fermai un attimo quando la consapevolezza di star lasciando lui lì, da solo, al buio e in condizioni estreme. Non avevo il potere di tirarlo fuori da lì. Per questo mi girai e lo guardai, usufruendo della luce del corridoio che illuminava la piccola cella.

Lui mi stava già guardando e sembrava star dicendo qualcosa con gli occhi. "Non è finita qui", urlava il suo sguardo nella penombra.

"È finita esattamente qui invece", rispondeva il mio.

La cella si chiuse alle mie spalle con l'ennesimo rumore metallico che risultava inquietante. Seguii la guardia senza dire nulla, con la mente ancora chiusa in isolamento insieme ad Airton che non la voleva finire di immaginare i mille possibili scenari che sarebbero potuti succedere se non ci avessero interrotto.

Volevo scacciarli dalla mia testa il più in fretta possibile e sperai di farlo prima di entrare nel mio studio. Non volevo psicoanalizzare un altro paziente con la mente ancora ferma al momento in cui lui aveva posato le mani sui miei fianchi.

Ovviamente non ero riuscita a smettere di pensarci.

Ero talmente tanto nervosa che mi era passata la fame e mi ero limitata a fare compagnia a Daneen, che invece era molto ma molto affamata visto che non aveva avuto un momento libero per pranzare, sorseggiando una Coca Cola e continuando a sentire la presenza delle mani calde di Airton sui miei fianchi anche se erano passate ore.

Adesso, alle undici di sera passate, avevo una gran fame e mi stavo odiando per questo. Avevo il timore di incontrarlo in caffetteria durante il suo abitudinario spuntino notturno, ma nutrivo la piccola speranza che, non essendo ancora piena notte come le altre volte, lui fosse ancora in cella.

Non mi era ancora chiaro come facesse, ma con il tempo mi ero convinta, anche per logica, che qualcuno lo aiutasse effettivamente ad uscire dalla sua cella durante la notte. Era impossibile che non venisse mai beccato ed era impossibile che avesse fatto una copia delle chiavi della sua cella.

Qualcuno lo stava aiutando e io dovevo scoprire chi fosse, perché lì dentro sembrava che la maggior parte odiassero Airton Parisi.

Sfidai la sorte, quella notte. Una volta arrivata di fronte alla porta della caffetteria mi mossi come un felino, cercando di non fare alcun rumore e di non attirare l'attenzione. Non avevo alcuna voglia di latte e cereali, perciò mi fermai al bancone e cercai con lo sguardo il cibo che più mi appetiva.

Non era rimasto molto, ma c'era ancora qualche croissant e un paio di cookies di diversi gusti. Scelsi un croissant vuoto che andai a riscaldare perché era gelato dalle temperature esterne e agguantai un bicchiere medio di carta per farmi una cioccolata calda. Per mia fortuna mio fratello aveva lavorato per moltissimo tempo in un bar e, nei pomeriggi in cui studiavo lì per il collage e lui mi aiutava a ripetere, mi aveva insegnato a preparare cappuccini, cioccolate calde, latte e caffè.

In un pentolino inserii del latte, la panna liquida e lo zucchero, alzando il fuoco e mescolando continuamente fino a far sciogliere lo zucchero. Qualche minuto dopo, quando il composto era ormai bollente, aggiunsi una copiosa quantità di cioccolato fondente che era già stato tritato e messo in un contenitore, pronto per essere usato quella mattina.

Mi voltai per andare a recuperare il croissant e quasi mi venne un infarto, a fatica riuscii a trattenere l'urlo terrorizzato che mi si era creato in gola. Ne uscì soltanto un grugnito strozzato.

«Stavi tentando di evitarmi per caso?». Airton mi sorrise come il grande stronzo che era, appoggiandosi al bancone con i gomiti.

Mi allontanai frettolosamente, recuperando il mio croissant e rivolgendogli le spalle. «Io? Evitarti? Non ne avrei motivo».

«Non lo so, forse perché fino a qualche ora fa le tue gambe erano ai lati dei miei fianchi». Il suo tono ironico mi fece chiudere gli occhi dall'imbarazzo. «Dici che è un motivo valido?».

Perché devi per forza tirarlo in ballo?

«Che ci fai qui? Oggi non hai voglia di latte e cereali?». Tentai di cambiare discorso e sperai non fosse palese, poggiando il croissant in un vassoio che avevo preso per me e poggiato in un tavolo poco distante.

«Per tua sfortuna no, nica. Oggi ho voglia di altro». I miei occhi saettarono su di lui spontaneamente e quando vidi il bagliore divertito nel suo sguardo capii che mi stava prendendo in giro.

«Dovresti parlare di meno e agire di più!». Dischiusi la bocca quando notai il doppio senso della mia frase e tentai, anche se era pressoché inutile, di rimediare. «Nel senso... se non hai voglia di latte e cereali allora preparati qualcosa e levati di torno il più in fretta possibile».

Assunse uno sguardo di sfida. «Voglio quello che hai scelto tu».

«Non sai neanche quello che sto preparando».

Si strinse nelle spalle. «Qualunque cosa tu abbia scelto mi va bene, nica. Sta' tranquilla». Come se niente fosse continuò ad osservarmi, sempre con i gomiti poggiati al bancone e quella sfida che gli luccicava nello sguardo.

Lo odiavo come odiavo poche cose al mondo.

Borbottando un paio di insulti a bassa voce mi affrettai a togliere la cioccolata dal fuoco, versando il composto in due bicchieri di carta invece che solo in uno. Aprii la credenza e cercai con lo sguardo i marshmallows che non potevano assolutamente mancare, ma non ce ne era traccia. Dannazione!

«Che cerchi?». Mi soffiò sull'orecchio, facendomi nuovamente sobbalzare come un gatto.

«La vuoi smettere, Airton?!». Lo fulminai. «Sto cercando un pacco di marshmallows o qualcosa del genere, non è una cioccolata se non c'è una decorazione del genere!».

«Non ci sono, nica. È già tanto che ci siano le pareti in questo posto di merda». Ridacchiò, spostandosi da me solo per entrare in cucina, quella privata che usavano i cuochi per cucinarci il pranzo, e prese i cereali che avevamo mangiato l'ultima volta.

Lo guardai. «Che fai?».

«Non volevi dei marshmallows? Eccoli». Iniziò a cercarli dentro il pacco, evitando i cereali veri e propri, per tuffarli all'interno della cioccolata. Poi mi guardò confuso. «Che poi, non avevi detto che non ti piacevano? L'altra volta li evitavi come la peste. Sei qui solo da qualche settimana e stai già impazzendo?».

Alzai gli occhi al cielo. «Non mi piacciono i marshmallows nei cereali. A chi piacciono i marshmallows inzuppati nel latte?!». Mi fermai solo per pulire le gocce di cioccolata che stava facendo cadere sul vetro del bancone. Sembrava un bambino.

«...a me».

«...agli psicopatici».

I suoi occhi si alzarono sul mio viso e incontrarono i miei, aveva ancora un piccolo marshmallows stretto fra le dita. Ci fissammo a vicenda senza dire nulla per qualche secondo, prima di scoppiare in una risata fragorosa.

«Sei terribile, fattelo dire». Mi prese in giro, ficcandosi in bocca quel marshmallows per masticarlo con gusto con un sorriso sulle labbra.

Sbuffai divertita. «Come se tu fossi migliore, Parisi».

Lo superai, passandogli accanto per andarmi a sedere su un tavolo e mangiare la mia dannata cena - stavo morendo di fame -, ma la sua mano si posò sul mio fianco, di nuovo, per tirarmi a sé. Deglutii a vuoto, la gola mi sembrò improvvisamente arida.

«Mi mancava sentirmi chiamare con il mio cognome. Quando lo fai tu ha un effetto diverso su di me». Mormorò, fissandomi le labbra come se non fosse la cosa più sbagliata, stupida, pazza e complicata che potesse fare.

Non riuscivo a parlare, la mia lingua era bloccata perché riuscivo solo a pensare a poche ore prima, a quando le mie gambe erano attorno alla sua vita, le nostre labbra erano così vicine da toccarsi ad ogni parola e il mio dolore, quello che sentivo perennemente, ad ogni ora di ogni giorno, era muto, silenziato, inesistente.

Non capivo come facesse, mi dannavo a cercare di capire come riuscisse a fare una cosa del genere, ma lui sembrava sempre estasiato quanto me e forse, solo forse, l'effetto che lui faceva a me lo facevo anch'io a lui.

«Dovresti-». Deglutii a vuoto ancora una volta. «Dovresti spostarti, la cioccolata diventa fredda se non ci muoviamo a berla».

Vidi un sorriso divertito spuntare fra le sue labbra. «Hai ragione».

Inaspettatamente mi lasciò andare, non sapevo se esserne felice o meno. Mi sedetti di fronte a lui in un tavolo vicino e lo osservai mangiare marshmallows dopo marshmallows con un cucchiaino prima di bere la cioccolata, mentre io preferivo gustarli mentre bevevo. Un calore piacevole mi scivolò giù per la gola e mi sentii immediatamente meglio, il mio corpo aveva bisogno di un paio di energie considerando tutte quelle che avevo perso quel giorno.

Era interessante osservare le persone per notare quante fossero diverse le loro abitudine dalle nostre e quanto, viceversa, potessero essere uguali. Io e Airton fino ad ora avevamo davvero poco in comune, ma con lui mi trovavo meglio di molte altre persone che erano identiche a me.

A volte mi capitava di dimenticare quale fossero i crimini per i quali era stato condannato e lo vedevo come se fosse una persona normale, incontrata in modo normale in un luogo comune. Come sarebbe andata se ci fossimo incontrati prima di tutto questo?

«A cosa pensi?». Lo beccai a fissarmi incuriosito mentre leccava senza vergogna il cucchiaino sporco di cioccolata.

Oh andiamo, Parisi! Un po' di decoro, dannazione.

«A come sarebbe andata se ci fossimo incontrati molti anni prima di tutto questo». Mi strinsi nelle spalle e presi un lungo sorso.

Eseguì il mio esempio e poi si leccò le labbra. «Magari sarebbe andata meglio, magari sarebbe andata peggio, ma è inutile perdere tempo a pensare a quello che sarebbe potuto essere. Credo che il punto della vita in cui ci troviamo adesso sia il punto migliore in cui ci potremmo trovare». Sospirò.

«Pensa che merda». Borbottai.

Ridacchiò come se ci fosse davvero qualcosa di divertente, eppure io non lo trovavo. «Potrebbe andare peggio, nica».

«Peggio di così?!». Strabuzzai gli occhi ironicamente e lui annuii, con le labbra nascoste dal bicchiere mentre beveva. «Non vedo come potrebbe essere peggio di così francamente».

«Potremmo essere soli». Si strinse nelle spalle.

Mi poggiai indice e pollice sulla tempia, la stanchezza di quel giorno intenso si faceva sentire. «Ma noi siamo soli, Airton».

Scosse la testa. «No non lo siamo, Nicole». Si perse ad osservare qualcosa alle mie spalle con sguardo vitreo. Nei suoi occhi scuri era calato un velo diverso, non era triste come al solito ma più che altro consapevole.

«O almeno, non più».

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