The Not Heard

By azurahelianthus

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⛓️ DARK ROMANCE AUTOCONCLUSIVO ⛓️ Ci sono vendette che non hanno tempo e sbagli per cui non esiste redenzione... More

𝐓𝐇𝐄 𝐍𝐎𝐓 𝐇𝐄𝐀𝐑𝐃
𝐏𝐑𝐎𝐋𝐎𝐆𝐎
I
II
III
IV
V
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
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XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXV
𝐄𝐏𝐈𝐋𝐎𝐆𝐎
𝐋𝐀 𝐋𝐄𝐓𝐓𝐄𝐑𝐀

VI

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By azurahelianthus

Lui era lì, a pochi passi da me.

Mentre con gli occhi setacciavo il bancone pieno di croissant e di dolciumi vari con cui fare colazione, scegliendo quello che più mi appetiva, lui era al mio fianco a fare lo stesso.

Con la coda dell'occhio lo vidi circondare il bicchiere fumante che la cassiera gli porse con le dita, vedendole sporche di un sangue che stavo soltanto immaginando. La stessa donna di mezza età mi passò una busta di carta con all'interno un croissant ai frutti di bosco e un bicchiere uguale a quello suo, contenente una quantità di caffè adeguata a tenermi vigile per tutta la giornata.

Camminando nella direzione di Daneen in qualche modo me lo sentii che avrebbe provato ad approcciarmi, era un predatore alla perenne ricerca di vittime da masticare come gomme.

«Ehi, biondina!». La sua voce era come la immaginavo, profonda e sgradevole, ti si appiccicava addosso e ti faceva sentire in difetto.
Mi voltai lentamente verso di lui, inarcando un sopracciglio per quel soprannome poco carino.

«Sì?». Lo vidi squadrarmi dal basso all'alto, soffermandosi con lo sguardo sul mio petto fasciato da una camicia bianca infilata dentro dei pantaloni neri.

«Hai perso qualcosa per caso?». Lo rimbeccai.

Sorrise quando notò di essere stato beccato. «No, in realtà sono solo curioso. Ho sentito molto parlar di te ma non avevo ancora avuto il piacere di conoscerti, Nicole». Mi porse la mano ed io fui costretta a stringerla, sapendo bene che quelle mani dalla pelle ruvida avevano causato non pochi problemi a mio fratello.

«Mi chiamo Cairo».

Sì, anch'io ho sentito parlare di te.

«Non serve che io ti dica il mio, a quanto pare sono l'oggetto delle conversazioni di tutti qui dentro». Storsi il naso. Mi osservò dall'alto al basso una seconda volta, rischiando di beccarsi un ceffone in pieno viso.

«Non è difficile immaginarne il motivo, tesoro».

Mi ero stufata di essere soltanto un corpo in bella vista, ero più di quello che loro credevano che io fossi. «Se mi fissi un'altra volta in quel modo darò spettacolo davanti a tutti e in quel momento il mio nome girerà fra i corridoi per un motivo ben diverso. Io non ti conosco e tu, soprattutto, non conosci me. Sono una tua collega, Cairo, ed esigo lo stesso rispetto che doneresti ad un tuo collega maschio». Sibilai infastidita, provocando la sua sorpresa.

La mascherò in fretta. «Eppure mi avevano detto che eri simpatica».

«Le voci che avevo sentito su di te sono tutte vere invece». Non attesi la sua risposta, gli voltai le spalle e, ignorando le mani che mi tremavano, mi allontanai in fretta da quel demone travestito da umano.

Mi aveva appena rovinato l'intera giornata e ne ero consapevole.

«Nicole!». Mi sentii chiamare da Daneen quando sorpassai il tavolo che aveva occupato per noi due senza neanche pensarci. «Non fai colazione con me oggi?». Mi sembrò delusa ed io mi sentii molto in colpa.

Mi fermai al suo fianco e fulminai con lo sguardo l'artefice del mio brutto umore. «Mi dispiace Daneen, oggi non sto bene. Non ho molta fame».

«Oh... non preoccuparti». Mi sorrise. «Qui i brutti giorni pesano di più, lo capisco. Ci vediamo a cena».

Inarcai un sopracciglio. «Hai da fare a pranzo?».

Sbuffò. «Purtroppo sì, dovrò fare da interprete fra Theodore e un uomo russo. Che palle».

«Un uomo russo? Hai idea di chi sia?».

«No, so soltanto che non parla inglese o perlomeno non abbastanza da riuscire a mantenere una conversazione con il direttore. Probabilmente c'entrerà con Isaiah, Kurtis o Rem, sono gli unici russi qui dentro».

Annuii e la lasciai con un sorriso, promettendole di rivederci quella sera per recuperare il tempo perso. Mi dispiaceva lasciarla da sola, lì dentro io avevo solo lei e lei solo me, ma quell'idiota aveva inciso sul mio umore.

Speravo soltanto che con il passare delle ore la rabbia sparisse in fretta com'era arrivata.

Kurtis Pavlov era stato condannato per così tanti reati che tanto valeva descriverlo per quello che era: un pezzo di merda. Spaccio, omicidio, rapimenti, traffico illegale di organi e stupro erano solo l'inizio di una lunga lista di crimini efferati che lo avevano reso uno dei più pericolosi detenuti di quella prigione.

Io sapevo bene che lui fosse il peggiore, perché non aveva avuto alcun motivo per fare quello che aveva fatto.

Ero una psicologa, almeno secondo le carte, e il mio compito era quello di aiutare indipendentemente dalla gravità dei crimini commessi dal paziente, eppure la cosa più essenziale per me era arrivare tanto in profondità da capire solo il perché.

Perché fossero lì, perché avessero fatto quello che avevano fatto. Le cose non sarebbero cambiate, le vittime non sarebbero tornate e gli anni da scontare sarebbero stati gli stessi, ma io ne avevo un disperato bisogno.

Avevo bisogno di aiutare chi aveva dovuto sacrificare la propria vita per uno scopo piuttosto che per divertimento, perché nel mio cervello questo avrebbe aiutato me. In un altro universo, se solo la teoria del multiverso fosse vera, avrebbe aiutato mio fratello.

Se esistesse questo famoso doppio universo, forse io sarei ancora in grado di cucinare per lui perché era una frana nel farlo e lui starebbe ancora personalizzando dei cerotti per me perché non mi piace nuocere al mio aspetto.

Mi schiarii la voce ed entrai nel mio studio, facendo le solite cose prima di iniziare a parlare. Mi scostai i capelli dal collo e aggiustai la collana. «Buongiorno Pavlov, come si sente oggi?».

«Tutto questo è proprio necessario?». Sbottò, mantenendo la sua posizione rigida e le braccia conserte al petto.

«Non capisco a cosa si stia riferendo».

«A questa farsa della psicologa arrivata da lontano che vuole aiutarci. Conosco i giochini mentali del cazzo di questa prigione, non riuscirete a fottermi». Assottigliò lo sguardo.

«Nessuno vuole farlo, signorino Pavlov. Sono qui solo per l'alto tasso di morte e il comportamento ribelle dei detenuti di questa prigione, non per fottervi come dice lei». Diedi un'occhiata veloce al suo fascicolo. «Anche perché sinceramente non è la mia attività preferita. Preferisco spendere il mio tempo per altro».

«Nessuno qui fa niente per niente».

Lo guardai da sotto le mie ciglia scure. «Neanche lei quindi, signorino Pavlov?».

«Ovviamente».

«Quindi è per questo che non lascia in pace il signorino Ivanov e molti altri detenuti di questa prigione?». Lo fissai e lui fissò me.

Ridacchiò. «E questo chi te l'ha detto? Quel ragazzino di nome Rem o quel coglione di Airton?».

Percepii un moto di fastidio salirmi dallo stomaco e mischiarsi alla rabbia che mi seguiva da quando avevo parlato con Cairo. Non era la giornata giusta per provocarmi. «Quel "ragazzino" ha tagliato gli arti di più di dieci persone e li ha costretti ad ingerire pezzi di carne del cadavere delle precedenti vittime e quel "coglione" l'altra volta le ha rotto il setto nasale secondo la sua cartella clinica. Credo sia un bene ricordarle che nessuno qui dentro è innocente, Pavlov».

«Ti sei già affezionata a quanto vedo. Forse dovrei essere io a ricordare a te che Airton viene chiamato "the girlfriend's killer" per un motivo». Il suo sorriso sadico mi disgustò.

Chiusi il fascicolo e lo allontanai da me. «Se dovessi aiutare le persone in base ai crimini che hanno commesso, signorino Pavlov, lei non sarebbe seduto su quella sedia».

Non sembrò scoraggiarsi molto. «Touché».

«Comunque». Lo rimproverai con lo sguardo per aver sviato il discorso su altri due pazienti non presenti. «C'è qualcosa di cui vuole parlare oggi, signorino Pavlov?».

«In realtà sì». I suoi occhi si illuminarono.

«Mi dica pure».

Capii che sarebbe stata una cazzata nel momento in cui vidi il suo sorriso sadico allargarsi sulle sue labbra. «Che tipo di rapporto c'è fra te e Airton? Ti ha già scopata da qualche parte, ad esempio proprio qui dove sono seduto? Pura curiosità, bellezza». Mormorò e io mi sentii umiliata per la prima volta da quando ero lì.

«Se continui con questo atteggiamento ti farò sbattere in isolamento, mi hai capito? Qui davanti non hai l'infermiera, che è dolce e comprensiva, né gli agenti che coprono le tue stronzate con i soldi».

Girai attorno al tavolo e mi appoggiai sulla scrivania, a pochi centimetri da lui. «Se fai qualche cazzata di fronte a me io ti rovino la vita come tu la rovini agli altri. Te lo ripeto...».

Mi sporsi verso di lui, proprio di fronte al viso. «...mi hai capito, Kurtis?». Sussurrai minacciosamente.

«Ho capito». Ringhiò, furioso che avessi rovinato il suo gioco prima che potesse cominciare. Con me era impossibile giocare a scacchi, io controllavo tutte le pedine.

Il silenzio si estese per qualche altro minuto, proprio mentre mi accomodavo nuovamente al mio posto, dietro la scrivania, e con fare nervoso accavallavo le gambe per donarmi un aspetto più sciolto. Ma quando lo sentii borbottare a bassa voce la rabbia che mi era portata dietro per tutta la mattina appiccò un fuoco, dentro di me, che quasi mi arse viva.

«Aveva ragione Cairo».

Alzai lentamente lo sguardo su di lui. «Prego?».

«Niente, non ho detto niente! Stavo parlando con me stesso».

Persi il controllo e la mia voce uscì intrinseca di risentimento e fastidio. «Se è con te stesso che vuoi parlare allora lo puoi fare anche da dietro le sbarre, Kurtis».

«Almeno in questo siamo d'accordo». Sputò, battendo una mano sulla scrivania con fare violento. Il portapenne cadde ed esse si sparsero per tutto il pavimento, proprio mentre la porta alla mia destra si apriva lentamente.

Con la coda dell'occhio vidi un paio di stivali di pelle superare la soglia del mio studio e io sapevo già chi fosse senza bisogno di guardarlo in faccia. Qualsiasi altro agente si sarebbe precipitato dentro e avrebbe minacciato Kurtis di spedirlo in isolamento, ma lui era diverso. Era il peggiore.

«Ho sentito un botto, signorina Castillo». Parlò a voce calma.

Io ero tutto tranne che calma. «Se lo hai sentito è perché c'è stato, no?! Di certo non sono stata io a sbattere la mano sulla scrivania e a far cadere tutte le penne!». Sbraitai mentre le raccoglievo una ad una, senza che nessuno di quei due si facesse avanti ad aiutarmi.

Ancora una volta mi sentii umiliata, le mie guance si tinsero di rosso tanto quanto lo fece la mia vista. Mi rialzai in fretta, i loro sguardi viscidi li percepivo perfino sulla pelle, e con la mano libera indicai la porta.

«Che diavolo stai aspettando?! Portalo in cella!».

Vidi l'agente Cairo avvicinarsi a Kurtis e stringerlo per il braccio, la sua presa era così delicata che sulla tuta blu non si creò neanche una piega. Se lo trascinò dietro. «Non siamo gli unici stressati qui dentro, provi a capirlo. La mancanza di libertà fa impazzire tutti».

«Portalo-». Ringhiai. «In-». Chiusi gli occhi. «Cella!».

Mi rifiutai di aprire gli occhi fino a quando non sentii la porta del mio studio chiudersi alle sue spalle. A fatica arrivai alla scrivania a causa delle gambe molli, perciò poggiai subito il portapenne al suo posto per evitare di doverle raccogliere una seconda volta.

Dopo non avrei saputo spiegare quello che successe.

Mi piegai sulle ginocchia e scoppiai in un pianto isterico, soffocando i miei stessi versi disperati con la mano per non essere sentita da nessuno.
Tremavo come una foglia e il respiro mi veniva meno ad ogni singhiozzo.

Quante volte mio fratello si era sentito così, umiliato e inferiore a qualcuno? Quante volte avrebbe voluto sparire, farsi inghiottire dalla terra e non sentire più quel calore umiliante sulla pelle? E quante erano le volte in cui aveva pensato di strapparsi via la pelle dalle ossa con i denti nella speranza di diventare un'altra persona?

Quante volte aveva percepito le lacrime agli occhi e aveva dovuto fare finta di niente, creando una diga immaginaria per non farle cadere, pur di non mostrarsi piccolo in mezzo a cose così grandi?

Quante volte aveva dovuto essere forte anche se non lo era?

Quante volte aveva avuto bisogno di me e io non c'ero, come io ora avevo bisogno di lui e lui non c'era?

Poggiai una mano sulla scrivania e mi tirai su, anche se le gambe le sentivo ancora tremanti e deboli, solo per avvicinarmi alla borsa e tirare fuori una busta ingiallita dal tempo, rovinata agli angoli, la cui carta era stata spiegazzata da tutte le volte in cui l'avevo letta e riletta per imprimerla nella mia memoria. Avrei potuto ripeterla in qualsiasi momento, parola per parola.

Sapevo ogni punto in cui l'inchiostro si era rovinato, i punti esatti dove le sue mani avevano tremato e le lettere erano uscite fuori un po' storte, ma perfettamente leggibili e dolorose allo stesso modo.

Era l'ultima cosa che aveva toccato, l'unica certezza che avevo del fatto che anche nei suoi ultimi momenti lui aveva pensato a me, alla sua sorellina. Alla sua fotocopia, in tutto e per tutto.

La accarezzai distrattamente, sperando di sfiorare i punti dove le sue dita erano passate per l'ultima volta.

Come se questo potesse, in qualche modo, alleviare la mancanza che sentivo ogni giorno, quel vuoto al petto che mi ricordava che qualcosa di me non esisteva più. Che una parte di me non abitava più questo mondo.

La morte di mio padre mi aveva recato un dolore che non si poteva spiegare a parole, ma la sua, di mancanza, me l'aspettavo. Dal primo giorno in cui impariamo a ragionare con la nostra testa siamo consapevoli che i nostri genitori, come i nostri nonni, sono una parte della nostra vita che non ci accompagnerà per sempre e che un giorno saremo costretti a dirgli addio.

Ci prepariamo per una vita intera, anche se cerchiamo di non pensarci e alla fine prepararsi non serve a nulla, ma lo sappiamo e lo ricordiamo, purtroppo, ogni giorno della nostra vita.

Ma non sarei mai stata preparata a perdere mio fratello, perché avevo sempre avuto la delicata certezza di essere in due a questo mondo e non una sola. Avevo vissuto con la convinzione che anche se la mia strada si sarebbe, purtroppo, dovuta separare da quella di mio padre, mi sarei sempre potuta voltare di lato per trovare quella di mio fratello ancora attaccata alla mia.

Ma adesso che mi guardavo attorno... non avevo più nessuno dei due. E faceva male, sentirsi così soli, sentirsi privati di qualcosa che tutti possedevano.

Mi bastò abbassare lo sguardo per provare una fitta al cuore.


Era in ritardo. E fino ad ora non lo era mai stato.

Continuando a battere il piede sul pavimento con fare nervoso, mi ritrovai a spostare lo sguardo sulle lancette dell'orologio fissato sulla parete di fronte alla scrivania. Non era mai stato in ritardo, anzi, tutte le volte in cui entravo in studio dopo la pausa pranzo lo trovavo già stravaccato sulla sedia come se non aspettasse altro per tutta la giornata.

Lasciai passare altri cinque minuti per precauzione, arrivando a così a mezz'ora di ritardo, e poi mi alzai. Mi affacciai sul corridoio e lo sguardo della guardia più vicina, una con cui ancora non avevo mai avuto alcun contatto, incontrò con il mio.

Si drizzò immediatamente. «C'è qualche problema, signorina?».

«Sai dov'è finito il mio paziente? Non è mai arrivato in ritardo e se non ha voglia di fare la seduta normalmente vengo avvisata prima, così da scambiare la sua presenza con un altro paziente».

«Quale detenuto aspetta, signorina?».

«Parisi».

Il suo sguardo brillò di consapevolezza. «Il detenuto Parisi è finito in isolamento, signorina. Ecco perché non può venire da lei».

Solo a sentire quella parola mi sentii male, il cuore mi scivolò giù per la gola e si fermò sul mio stomaco. «Per quale motivo?».

«Durante il pranzo lui e il detenuto Pavlov hanno iniziato una rissa che si espansa ad altri gruppi di detenuti, hanno fatto un casino lì dentro. Entrambi sono stati messi in isolamento e agli altri verrà vietata la cena e la colazione come punizione».

«Ho capito, grazie». Mormorai scioccata, rientrando nel mio studio solo per prendere le chiavi e il suo fascicolo.

Prima di uscire e chiudere la porta alle mie spalle indossai il nuovo camice bianco che mi era stato dato dal direttore. Aveva una targa in argento con il mio nome cucita all'altezza del cuore per evitare che qualcuno lo usasse al posto mio, per il resto era molto semplice e praticamente uguale a quello dei medici. Non aveva detto molto, ma avevo capito da sola che il motivo di quella nuova "divisa" era per nascondere le mie curve provocanti dagli occhi degli uomini che riempivano quel posto.

Era un classico, nascondere le vittime piuttosto che rieducare i carnefici.

Mi recai velocemente verso l'entrata e appena intercettai Vince con lo sguardo mi avvicinai a lui. Un sorriso luminoso gli si aprì sulle labbra piene, anche se screpolate dal freddo, e notai all'istante che si era fatto la barba perché adesso sembrava molto più giovane.

«Miss Nicole! È da un po' che non ti vedo, come stai?».

In effetti non ci vedevamo dal mio piccolo "incidente", fra una cosa e l'altra non eravamo più riusciti ad incontrarci. Ricambiai il suo sorriso spontaneamente, mi trovavo davvero bene con lui, e poi risposi alla sua domanda. «Mi sono ripresa in fretta grazie alle medicine e alle cure dell'infermiera, adesso sto bene».

«Quella donna è una delle poche anime buone qui dentro oltre te e Daneen, Miss Nicole».

«Anche tu ne fai parte». Ammiccai nella sua direzione. «A proposito di te, cos'è questa mascella liscia e priva di barba? Sei un figo della madonna, Vince! Sembri molto più giovane, stai bene!».

I suoi occhi buoni si addolcirono. «Stai cercando di adularmi? Non ho nulla che possa interessarti, sappilo».

«Sono sincera!». Gli mollai uno schiaffetto sulla spalla ridendo.

«Va bene va bene, ti credo. È che stando qui dentro si perde la bellezza di dare e ricevere complimenti, sai com'è. Qui nessuno è gentile con gli altri». Sospirò tristemente e questo mi dispiacque, provai un'amara tenerezza nel sentirglielo dire.

«Sì, ho avuto modo di notarlo». Mi morsi la lingua. «Che è successo in mensa fra Airton e Kurtis?».

I suoi occhi scattarono su di me. «Hai saputo?».

Annuii. «Da qualche minuto in realtà, mi sono insospettita quando ho visto Airton ritardare così tanto alla seduta. Non lo fa mai».

«Ma-». Corrucciò la fronte. «Gli avevo detto di avvisarti!».

«Cosa?».

«Mentre tentavo di sedare la rissa avevo detto a Cairo di venire da te ad avvisarti che la seduta era stata spostata in un altro luogo. Il direttore non vuole che nessuno dei detenuti perda una sola seduta e ha accettato di farle anche in casi estremi come questi. È vietato saltarne una, se lo scoprisse Airton finirebbe in grossi guai!».

Che bastardo. «Cairo non è venuto a dirmi un bel niente». Sibilai.

«Ho sempre detto che è un coglione». Si mostrò infastidito.

«Che tipo di punizione potrebbe ricevere un detenuto se saltasse una seduta con me?». Mi informai.

Lui mi guardò dispiaciuto. «Il direttore è stato chiaro, se non si faranno aiutare le punizioni saranno molto severe. Verrebbero trasferiti definitamente in isolamento e privati del cibo, alimentati solo con l'acqua necessaria a sopravvivere. Se non si faranno aiutare gli verrà mostrato cosa significhi rimanere da soli con i propri demoni, questo è quello che ha detto a noi guardie».

Imprecai a bassa voce. «Devo andare, Vince! Prima che Theodore scopra che Airton non si è presentato alla seduta!».

«L'isolamento è la seconda porta a destra dopo i controlli, sono nei sotterranei». Mi istruì. «Corri, Nicole! Prima che lo scopra!».

Non me lo feci ripetere due volte. Mi incamminai in fretta e furia nella direzione che mi aveva indicato, superando i controlli senza perdere tempo perché avevo poco e niente con me. Scesi le scale arrugginite e non esattamente in una bella condizione con la furia di chi ha un demone alle calcagna, sperando di non cadere e di non farmi nuovamente male.

Non c'era neanche una guardia a controllare il corridoio dove erano poste le celle dell'isolamento, il che mi parve strano ma forse aveva senso. Erano fatte appositamente per non far trapelare la luce, figuriamoci se era possibile scappare. Il silenzio lì sotto era inquietante e le temperature sembravano ancora più basse.

La cosa spiacevole era che, essendo blindate e chiuse, mi era del tutto impossibile vedere quale detenuto si trovasse al loro interno.

Poteva essere Kurtis, che avrebbe spifferato tutto e ne ero certa, o poteva essere Airton. Come avrei capito, dall'esterno, chi era chi?

Mentre mi scervellavo per trovare una soluzione al problema, quel silenzio inquietante di cui avevo parlato poco prima venne rotto da una voce bassa e rauca che trapelava dalla seconda cella a destra del corridoio.

«La mia vita mi fa perdere il sonno, sempre».

Era lui, Airton. E stava cantando, come sempre in italiano.

«Mi fa capire che è evidente...». Si prese un paio di secondi prima di continuare, quasi riuscii a sentire il sospiro divertito che uscì dalle sue labbra. Forse lo immaginai soltanto. «...la differenza tra me e te».

Ero così assorta nella sua voce che canticchiava da sobbalzare nel momento in cui la guardia alle mie spalle mi richiamò.

«Signorina Castillo?». Quando mi voltai trovai i suoi occhi confusi fissi su di me.

Mi schiarii la voce. «Sì, sono io. Dovrebbe aprirmi la cella numero tre, ho una seduta con il detenuto Parisi».

«Okay». Per grazia di Dio non fece alcun problema, prese le chiavi dal retro dei suoi pantaloni e aprii la cella, che emise un rumore così raccapricciante da farmi venire i brividi. Avevo letto che era un modo per terrorizzare ulteriormente i detenuti, che nel sentire quel rumore provenire dal corridoio sarebbero stati a conoscenza del fatto che stessero prelevando un detenuto e che uno di loro, con tutta probabilità, sarebbe stato il successivo.

Varcai la soglia tastando il buio più totale con il piede, quasi mi preoccupai di poterlo calpestare senza rendermene conto visto che non vedevo niente. Quando la cella si chiuse alle mie spalle il buio si intensificò e per qualche minuto io non fui più me, la psicologa che doveva aiutare il paziente, ma il detenuto che aveva bisogno di aiuto.

Il respiro mi si bloccò da qualche parte fra il petto e le costole e una sensazione di ansia si espanse nel mio corpo. C'era troppo buio, l'oscurità era così fitta da impedirmi di vedere e iniziare a farmi immaginare cose che non erano veramente lì.

Durò solo un paio di minuti, il tempo che la guardia all'esterno accendesse l'unica luce all'interno della cella, ma mi sembrarono ore interminabili. Mi chiesi, perciò, cosa si provasse a passarci ore e giorni interi. Impazzire sarebbe stata la cosa più ovvia.

Abbassai lo sguardo su di lui appena la luce illuminò la piccola stanza vuota, fatta solamente di cemento e priva di qualsiasi altro oggetto. Niente letto, niente sedia, niente bagno. Niente, solo buio e i propri demoni al fianco.

Era rannicchiato in uno dei quattro angoli della stanza, lo sguardo fisso sul pavimento e le labbra secchissime, probabilmente la sua idratazione era minima. La sua pelle era davvero pallida, la pelle attorno alle sue nocche era gravemente ferita, c'era ancora del sangue secco sulle sue mani, e il suo occhio sinistro portava un alone viola che era riconducibile solo ad una cosa.

Potei solo immaginare quante botte avesse preso in seguito alla rissa dagli agenti. Potei solo provare ad immaginare quanti lividi e tagli ci fossero sulla sua pelle in quel momento.

Battei un pugno sulla porta e la piccola finestra sulla porta blindata si aprì, rivelando gli occhi chiari della guardia. «Signorina Castillo?».

«Puoi darmi una bottiglietta d'acqua?».

«Certamente». Pochi minuti dopo la sua mano sbucò fuori dalla piccola finestra, porgendomi la bottiglietta di plastica. «Questa era mia ma può prenderla, è ancora sigillata. Vado a prendere un'altra per me alle macchinette».

Lo ringraziai calorosamente e poi mi avvicinai ad Airton, che parve notare la mia presenza solo in quel momento. I suoi occhi cerchiati da occhiaie scure e profonde saettarono su di me.

Mi piegai in ginocchio di fronte a lui e, dopo aver aperto il tappo, lo aiutai a bere qualche sorso di acqua fresca. Subito dopo si leccò le labbra, che adesso erano tornate morbidi e rosee. «Che ci fai tu qui?».

«Svolgo il mio lavoro?».

«Non dovresti essere qui. È un posto brutto per una come te».

«Esiste un posto bello qui dentro, Airton?». Non rispose.

«Proprio così. Questo non è il mio posto, lo so, non fate altro che ricordarmelo, ma io ci sto provando a farmelo andare bene. Sto solo provando ad aiutarvi». Mormorai.

Improvvisamente stanca, mi lasciai cadere al suo fianco. Poggiai la schiena al muro come lui e mi portai le ginocchia al petto, gli occhi fissi ovunque tranne che su di lui. Per un po' non disse nulla, come al suo solito, ma poi mi stupì.

«"Ricordarmelo"?». Ribatté.

«Cosa?».

«Chi è oltre me che te lo ricorda?».

«Tutti, Airton. Non c'è una sola persona che mi guardi come se non fossi un cerbiatto nella tana di cento leoni».

«C'è invece». Mi rispose. «Vince non ti guarda così».

«Vero».

Passarono altri minuti interminabili di silenzio, normalmente ero io a portare avanti le nostre conversazione ma quel giorno non ero in me. Oggi ero io quella intrappolata, incastrata in una ragnatela di problemi e dolori da cui non riuscivo a districarmi.

«Nicole». Mi chiamò a bassa voce.

Lo guardai. «Mmh?».   

«Che c'è che non va?». I suoi occhi scuri mi trafissero l'anima, alla ricerca della solita luce che mi contraddistingueva e che oggi era assente.

«Perché pensi che ci sia qualcosa che non va?».

«Perché non parli, a quest'ora mi avresti già minacciato del fatto che se non ho intenzione di parlare con te allora-».

Lo interruppi. «Oggi sono io a non voler parlare».

«Beh, è quello che mi preoccupa». Si accigliò.

Abbassai lo sguardo. «A volte succede. Sono umana anch'io».

«Allora facciamo una cosa».

«Cosa?». Lo guardai riluttante.

«Ti propongo un patto, Nicole Castillo».

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