L'Accademia dei Privilegiati...

By Morgan_Graves

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β™‘ βœ―π‘­π’‚π’π’•π’‚π’”π’š & π‘Ήπ’π’Žπ’‚π’π’„π’† βœ―β™‘ --- Β«Nel Principato di Hemera, ogni Privilegiato tra i quattordici e i... More

ππ‘πŽπ‹πŽπ†πŽ - ACCADDE UNA NOTTE
1 - SUE BERTRÁN
2 - THE πΏπ΄π·π‘Œ AND THE 𝐿𝑂𝑅𝐷 (p.1/2)
2 - THE πΏπ΄π·π‘Œ AND THE 𝐿𝑂𝑅𝐷 (p.2/2)
𝐄𝐗𝐓𝐑𝐀: SUSANNE CORNELIA BERTRÁN
3 - πΏπ‘ŒπΌπ‘πΊ PLACES (p.1/2)
3 - πΏπ‘ŒπΌπ‘πΊ PLACES (p.2/2)
4 - THE πΆπ‘…π‘ˆπΈπΏ LADY
𝐄𝐗𝐓𝐑𝐀: HANNALINE SOPHIA BERTRÁN
5 - THE 𝑅𝐸𝐢𝑇𝑂𝑅'S SPEECH (p.2/2)
6 - HIS FIRST NIGHT OF π‘„π‘ˆπΌπΈπ‘‡
7 - THERE WILL BE π‘†π‘‚π‘€πΈπ΅π‘‚π·π‘Œ'S BLOOD (p.1/2)
7 - THERE WILL BE π‘†π‘‚π‘€πΈπ΅π‘‚π·π‘Œ'S BLOOD (p.2/2)
𝐄𝐗𝐓𝐑𝐀: INQUY, L'INQUIETANTE CARCERIERE
8 - THE MAGNIFICENT π΄π‘‰πΈπ‘Œπ΄π‘…π· 𝐢𝐿𝐴𝑅𝐸
9 - THE THIN 𝑅𝐸𝐷 LINE (p. 1/2)
9 - THE THIN 𝑅𝐸𝐷 LINE (p.2/2)
𝐄𝐗𝐓𝐑𝐀: ARETH MEAD
10 - ONE FLEW OVER THE π‘€π΄πΏπΌπΊπ‘π΄π‘πΆπ‘Œ'S NEST
11 - BAD NEWS, 𝑃𝑅𝐼𝑉𝐼𝐿𝐸𝐺𝐸𝐷! (p.1/2)
11 - BAD NEWS, 𝑃𝑅𝐼𝑉𝐼𝐿𝐸𝐺𝐸𝐷!(p.2/2)
𝐄𝐗𝐓𝐑𝐀: JOSHUA NATHANIEL LARS
12- ARE YOU A 𝐻𝐴𝑅𝐸 IN WINTER?
πˆππ“π„π‘πŒπ„π™π™πŽ - 𝐢𝑂𝐿 𝑉𝐸𝑁𝑇𝑂ANDΓ’ 𝑉𝐼𝐴
13 - A TOUCH OF π‘‡π‘…π‘ˆπ‘†π‘‡
14 - THE SONG OF 𝐺𝐴𝐿𝐼𝐴-𝐷𝐸𝐴𝑇𝐻
𝐄𝐗𝐓𝐑𝐀: VALENTINE AVEYARD CLARE β™•
15 - A TALE OF TWO 𝑍𝐼𝑉𝐸𝐿
16 - ALL 𝐴𝐡𝑅𝐴𝐻𝐴𝑀𝑆, AND 𝐿𝐴𝑅𝑆 TOO
17 - 𝐡𝐿𝑂𝑆𝑆𝑂𝑀 AND SOUL
18 - 𝐡𝐿𝑂𝑂𝐷 π½π‘ˆπ·πΊπΈπ‘€πΈπ‘π‘‡ CAN'T WAIT (pt.1)
18 - 𝐡𝐿𝑂𝑂𝐷 π½π‘ˆπ·πΊπΈπ‘€πΈπ‘π‘‡ CAN'T WAIT (pt.2)
19 - WHO CARES, IF NOT π‘Œπ‘‚π‘ˆ?
20 - SENSE AND πΉπ‘…π΄πΊπΌπΏπΌπ‘‡π‘Œ
21 - SARABAND FOR 𝑀𝐼𝑆𝑃𝐿𝐴𝐢𝐸𝐷 LOVERS (p.1/2)
21 - SARABAND FOR 𝑀𝐼𝑆𝑃𝐿𝐴𝐢𝐸𝐷 LOVERS (p.2/2)
INTERMEZZO - 𝐴𝑆𝑆𝐼𝐸𝑀𝐸 𝐴𝐿 𝑃𝑅𝐼𝑀𝑂 𝐴𝑀𝑂𝑅𝐸
22 - SINCE YOU 𝐴𝑅𝑅𝐼𝑉𝐸𝐷
LISTA PERSONAGGI
𝑰𝑺𝑲𝑹𝑨 - Illustrazioni & Descrizioni

5 - THE 𝑅𝐸𝐢𝑇𝑂𝑅'S SPEECH (p.1/2)

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By Morgan_Graves

Al terzo piano dei dormitori dell'ala Est dell'Accademia, costretta in fondo al corridoio più lungo dell'edificio, c'era una porta. Era massiccia, d'ebano. L'intaglio era lugubre. Incuteva raccapricciante terrore e paralizzante angoscia: molti raccontavano di accusare un brivido agghiacciante che solcava loro la pelle appena imboccato il cunicolo, alcuni dicevano di aver sofferto di sogni truculenti per settimane dopo una sola occhiata, altri ancora affermavano d'avvertire ombre morte perseguitarli quando erano soli, nella semioscurità dei loro alloggi.

Era la porta della stanza 113: la più bella e ampia dell'accademia. E Lord Joshua Nathaniel Lars l'aveva scelta di persona.

Per scovarla, il primo giorno del primo anno da fresco Iskra quattordicenne, aveva vagato con l'entusiasta Rettrice Moukarbel al seguito. Gli era parso d'essere il padrone di un cagnolino sovraeccitato, scodinzolante e con la lingua umidiccia; l'aveva giudicata una donna squallida, ma fruttevole. Perché adorava il suo alloggio: dalle pareti rosse e i mobili scuri, ai suoi tre piani; dal letto in mogano, ai quadri che aveva selezionato di persona; dal camino su cui svettava la testa impagliata della prima cerva colpita alla sua prima battuta di caccia, alla sua vasca del tutto simile a una piscina. Sì, l'amava... quanto detestava il suo coinquilino.

Ora, mentre abbottonava gemelli ai polsini della camicia davanti allo specchio del salotto, lo osservava correre a destra e manca come un forsennato. O uno struzzo. Sì, da come muoveva la testa bionda, avanti e indietro e su e giù, sembrava proprio uno struzzo.

Patetico, pensava con amarezza.

Così lo aveva soprannominato: il patetico. Si disinteressò. Distolse lo sguardo da quello spettacolo indegno per un Privilegiato, finché non lo scoprì apprestarsi alla sua libreria d'epoca – anch'essa d'ebano, appartenuta a Lord Leonard Itea Raptis e contente le preziosissime prime edizioni de "Le ossa degli Zivel" e "La verità degli Aveyard Clare" – con la coda dell'occhio.

Si allarmò, a mascella contratta. «Cosa stai facendo?»

«Cerco... una cosa.» rispose il Patetico. Non si fermò. Non lo guardò. Continuò a trafficare coi soprammobili armato dalla delicatezza di un selvaggio.

Accompagnato dalle sopracciglia corrucciate, l'odio di Josh schizzò alle stelle perché quelli che il patetico stava maneggiando con avventatezza non erano semplici oggettini su una mensola: erano cimeli.

La vecchia ciotolina rossiccia che quasi rovesciò era un'antica lucerna a olio con coperchio di metallo decorato; era un ricordo dei primordi della sua famiglia, antecedente al Conflitto.

Il sasso azzurrognolo che spostò con noncuranza era uno dei minerali più rari esistenti nel Principato, chiamato "l'Occhio dei Wizja" giacché il cuore della pietra era una pupilla sulfurea che si ramificava alla stregua delle pagliuzze di un'enorme iride; il suo valore era addirittura impronunciabile.

L'ovvietà in persona, fu cinico e in un riso nervoso, chiamò il suo Asservito: DH5583.

Questo, abbigliato con la divisa rossa dal colletto blu, si avvicinò col suo solito passo: deferente, impettito e a mani legate dietro la schiena. Aveva trentacinque anni e tutto in lui era scialbo: i capelli neri erano mitigati da canizie precoci; gli occhietti verdognoli non erano abbastanza luminosi; il naso non era né dritto né aquilino; le labbra, sottili, erano strette in un mezzo arricciamento; non era né basso, né alto; non era né magro, né robusto. Il suo unico eccesso era riservato alle orecchie, belle larghe.

Dopo tre anni di servizio, Josh aveva maturato una naturale fiducia; non gli dispiaceva.

«Ho bisogno del tuo intervento.» gli disse a labbra stirate.

«Volete che vi aiuti a chiudere i gemelli, Lord?» chiese l'uomo, perplesso.

«Mai, lo sai.»

Che fossero fini e raffinati o un agglomerato di sfacciata opulenza, Josh amava i gemelli da polso. Li collezionava da quando suo padre gli aveva regalato il primo paio, a due anni: quadrati, di madreperla, oro massiccio e zaffiri. Da allora ne acquistava una coppia al mese; ne possedeva centosessantotto, di ogni genere: d'onice, di corallo, di giada, d'oro, d'argento; con diamanti, smeraldi, rubini.

Li conservava con estrema gelosia, li maneggiava sempre e solo lui e non usciva se la camicia ne era sprovvista.
Quelli che stava abbottonando erano magnifici: circolari, dal centro d'onice laccato e con il contorno sovrastato da un fulgido pavé di diamanti. Sobri, adatti per la serata, si era detto.

«Ma puoi tenere quelle luride manacce lontane dai miei averi.» continuò, sprezzante.

Su due piedi, DH5583 non comprese. Al che, fu il giovane Lord a dissipare ogni dubbio: in un lieve cenno del capo verso il coinquilino in fermento.

«Ma, Lord -»

«Non ho il tempo di occuparmi di quel tasto. Dunque, lo farai tu: tienilo lontano dalle mie cose. Se ungerà il mio tavolino dei boschi di Red Silva, ti considererò responsabile.» minacciò, cheto. Si sistemò a dovere la cravatta e diede l'ultimo tocco alla chioma scura. «Sono stato chiaro?»

«Subito, Lord.» rispose DH5583, ligio, e raggiunse il secondo abitante dell'alloggio celere. Josh l'osservò con la coda dell'occhio offrirsi in un deferente: «Mr. Posso aiutarvi?»
Questo, che era alle prese con le riviste sul bel tavolino di legno rosso intagliato, replicò disattento: «No, non c'è bisogno.»

Fu il momento dopo, quando il Patetico si buttò a quattro zampe come un animale per cercare sotto al mobile, che Josh perse di nuovo interesse in quella ridicola scenetta. Udì solo le prime battute nelle quali colse la voce di DH5583 in preda a un dichiarato imbarazzo e il suo coinquilino balbettare.

Patetico, peggio dell'ultimo degli Asserviti. Ecco qual era il pensiero che vagava nella mente di Josh mentre s'allacciava la giaccia a doppio petto viola dell'Accademia con il chiacchiereccio in sordina.

E si dannò. Non dovrei lamentarmi, se appesta la stanza è colpa mia. Sono stato troppo buono con Miss Von Weizsäcker.

Tre anni prima, la donna si era presentata alla sua porta con le mani preganti e un enorme favore in bocca: uno studente era rimasto privo d'alloggio. Incoraggiato dalla sicurezza che sarebbe stata una convivenza di poche settimane -come specificato dodici volte dalla dirigente -, Josh era stato vittima di quel barlume di bontà che, di tanto in tanto, mai più di una volta al mese e non oltre i due giorni, gli si accollava come un parassita. Aveva accettato. All'inizio, aveva sperato che il suo ospite comprendesse l'enorme abisso che sussisteva tra di loro e che imparasse i suoi limiti. Erano state speranze vane. Così, l'aveva ignorato. Poi le settimane erano diventati anni e la convivenza si era trasformata in un'invasione. Suo malgrado, si era ritrovato -lui, Lord della Casata di Sangue più influente tra le otto- con la mefitica presenza dell'ultimo degli inetti e irritanti Iskra delle Casate Nobili.

«Josh.» udì all'improvviso.
Si voltò. Era il Patetico: si era alzato e sfoggiava una smorfia angosciata. «Ti ho chiesto se sai dov'è. È importante.»

«Temo di non poterti aiutare.» lo liquidò. E fu sincero perché non gli importava. Si avviò alla porta. Con un'occhiata all'Asservito in rosso, gli indicò il prezioso tavolino. «DH5583, mi fido te.» Poi uscì.

A quelle parole, l'uomo avvertì prurito all'orecchio sinistro. Accadeva ogni qualvolta fosse preoccupato. E lo era. Molto. Per non grattarsi, decise di recuperare i guanti del Mr. dinnanzi a lui dalla loro confezione. Dalla pelle alla seta, erano un accessorio che questo mai dimenticava. Nel pomeriggio era stato consegnato il paio nuovo, di morbida nappa nera, per sostituire quelli vecchi, bianchicci e appena lisi sull'indice destro. Ma il tempo scorreva e il Privilegiato continuava a girovagare per l'alloggio con aria disperata. Dopo qualche minuto, controllò l'orologio da taschino e non poté tacere. «Perderete il discorso, Mr. Sapete che è proibito non presenziare.»

«E' sempre lo stesso.» sminuì il giovane Iskra, ispezionando frenetico le sedute dei divani. «E ci sono cose...più importanti.»

«Vi prego, ditemi ciò che cercate. Me ne occuperò personalmente.»

Benché titubante, questo lo fece. Raccontò tra balbettii e tentennamenti. DH5583 ascoltò, ricordò e ripose con viva solerzia, convinto che avrebbe reso felice il suo Privilegiato. In vero, il Mr.  Il suo viso, già pallido come un cecio bollito, trascolorò fino ad assumere la tonalità della cera fusa. «Che ore sono?» gli chiese.

«Un quarto alle otto, signore.»

«Un quarto?» fece eco. «Alle otto.»

«Sì.»

«Il discorso? Quand'è?»

«Tra quaranta minuti.»

«Quaranta?»

DH5583 confermò, angosciato. «Qualcosa non va, Mr.?»

Questo scosse il capo. Celere, ringraziò, infilò i guanti, imboccò la porta a passo ancor più svelto e scomparve.

Interdetto e confuso, DH5583 si assicurò che il pregiato tavolino di legno rosso non avesse un'impronta e si mise al seguito del Privilegiato per svolgere il suo lavoro: doveva avvisare Mr. Mead che aveva indosso i guanti sbagliati.

~~~

A circa venti minuti di camminata dai dormitori, folti gruppi di studenti ciarlieri e intirizziti dalla sera avevano già salito le scale e avevano già varcato gioiosi la soglia del Teatro Accademico.

Conosciuto comunemente come Teatro Delfina, era una delle gemme più preziose e brillanti dell'Accademia, invidiato persino dagli abitanti dello Snodo: era stato ideato da uno dei migliori architetti del Principato, tale Mr. Felix Kremon, e svettava incontrastato sull'ampia piazza del complesso studentesco.

Ora, affiancata dalla corvina Iris e seguita dalla deferente JC, Sue osservava l'imponente facciata, pervasa da bambinesco entusiasmo: rimase imbambolata davanti alla loggia doppia che grandeggiava in un tripudio di decori fiammeggianti, avvertì le vertigini assalirla ammirando i fasci luminosi che dall'enorme cupola si protendevano verso le stelle.

«Bello, vero?» sorrise Iris, al suo fianco. «La costruzione è stata patrocinata da Lady Delfina Gionata Lars.»

Stupita, Sue guardò l'amica che, con un lieve cenno del mento, le stava indicando il blasone a ridosso dell'ingresso principale: la pantera d'argento rampante e incatenata su smalto porpora, stemma della Casata di Sangue Lars.

Lady Delfina ..

Tra un bisbiglio e una passeggiata in libertà con Michela, Sue aveva sentito spesso parlare di Lady Lars, una delle due sorelle di Lord Andrew Dominic Lars. Era descritta come una donna d'immensa cultura, bontà e virtù. Addirittura Hannaline incappava in elogi, seppur magri.

E la domanda sorse spontanea, con un lieve calore inspiegato in petto. «È la-»

«Madre di Josh? Sì» l'anticipo Iris. Sospirò soave. «Lady Lars ama i teatri. Andiamo.»

Ed entrarono. Mentre JC si congedò raggiungendo l'area dedicata agli Asserviti, sulla destra, loro sbucarono nel lussuoso foyer che, illuminato da mastodontici lampadari di cristallo, dichiarava con sfacciataggine chi fosse il fautore della struttura. La pantera argentata dei Lars era ovunque: nei rilievi alabastrini delle colonne, negli intagli astrusi delle porte, nel grande affresco che ornava il soffitto come nelle trame dei vetri mosaicati.

Era una consuetudine - anche la biblioteca finanziata da Hannaline, nel cuore dello snodo, palesava tale ridondanza- che Sue non amava.

Se dipendesse da me, si disse, non costruirei teatri, ma smantellerei. A partire da qui, dalla prigione in cui è rinchiuso Trudi.

Altresì, le accolse una fiumana variopinta di studenti. Chi vestito di turchino con Iris, chi di giallo, chi di rosso e chi di viola, fremevano d'un placido tumulto. E Sue, malgrado un abito di chiffon morbido, d'un viola accesso e dall'arioso scollo a "v" sulle clavicole sottili, si sentì soffocare.

Ci sono troppe persone, troppi Iskra. Per il Principato, che ci faccio io qui!?

Si torturò le mani difese da guanti bianchi. «Credevo fossimo... meno.»

«Sono le matricole e quelli del secondo anno. Fidati: gli anni del Dominio falciano molte vittime. Vieni, c'è qualcuno che devo presentarti.» asserì Iris. La prese sottobraccio con un sorriso emozionato e si addentrò frizzantina nella folla. 

Per Sue non fu lo stesso. Odiava i posti gremiti di gente, odiava essere circondata da Privilegiati che, se solo avessero saputo, l'avrebbero trattata peggio di un Asservito. La investì un'opprimente sensazione d'inferiorità. Sentì gli sguardi giudicanti degli astanti bruciarle sulla pelle nuda, ogni loro risolino era composto sui suoi tremiti d'ansia. Ma era così? Guardavano e ridevano di lei? Le parve che tutti sapessero tutto della sua vita. E che inorridissero, che le puntassero il dito, che le scavassero la fossa. O, semplicemente, travisava la realtà?

Sono come un pesce arenato sulla spiaggia, pensò. Come sopravvivo se vedo tutti come giganti?

Tentò: assecondò l'amica; conobbe diversi studenti con un sorriso di plastica sulle labbra; fu salvata da Mr. Cooper, col quale scambiò qualche rapida battuta, dall'assalto di Miss-Von-Isterica che, col classico furore Domen, domandava ancora del suo invito per il matrimonio di Hannaline, chiaramente smarrito. Ma non resisté e, alla prima occasione, svicolò. Dovette uscire, respirare aria fresca.

Camminò celere verso l'ingresso con gli occhi pungenti di lacrime rabbiose. Biasimò la sorella. Perché era lei che l'aveva rinchiusa per anni. Uscì. Il freddo le corse sulla pelle. È colpa sua. Solo sua. Tremò.

«Lo spettacolo è tanto brutto, Lady Bertrán?»

Disse d'un tratto una voce profonda alla sua destra.

«Miss.» corresse d'istinto.

«Mi sono già espresso in merito.»

Sollevando lo sguardo, nel petto avvertì un sobbalzo. «Josh.»

Il giovane Lord era a pochi passi da lei, in giacca viola e sorriso smagliante. Alle ombre della sera, gli occhi affilati mutavano due pozzi maliardi senza fine. Sue riassaporò per un istante l'inteso contrasto tra timore e fascino. Ebbe una frenesia sconosciuta in corpo: avvertì le sue labbra incurvarsi spontanee.

«Di solito, il discorso della Rettrice non fa questo effetto.» disse lui. «Qualche sbadiglio? Sì.»

Lei si strinse nelle braccia. «Non è ancora iniziato.»

«E che fai qui? Oltre che prendere un accidenti, s'intende.» soggiunse Josh. Ancor prima che Sue potesse rispondere, slacciò i bottoni della giacca, se la tolse e la usò per coprirle le spalle. I polsini ben inamidati della camicia luccicarono alla stregua di stelle. «Sia mai che la mia collega si raffreddi. Se venisse a saperlo mio zio, non me lo perdonerebbe.»

Sue sorrise d'imbarazzo e comprensione. «Intransigente?»

«Quando vuole. E poi il viola ti dona, Bertrán.» ricambiò Josh.

Sue arrossì mentre rifletteva se confessargli i suoi timori. Si strinse nella giacca, morbida per quanto strutturata; il profumo di Josh le cullò i sensi. Decise di dire il necessario. «Avevi ragione. Non sono avvezza... alla mondanità.»

«Soffocante?» ipotizzò lui.

Annuì lei. «E giudicante. Invadente.»

«Dopo un po' si impara ad affrontarla.»

Una lieve risata dal retrogusto amaro sfuggi dalle labbra di Sue. «Credo che per me sia tardi.» Si tolse la giacca dalle spalle con incompreso dispiacere e gliela porse. «È meglio che torni al mio alloggio. Grazie.»

Il giovane Lord rindossò la suddetta, la riallacciò e la lisciò, chiuso in un mutismo pensoso. Infine, affermò risoluto: «Non è tardi, ma credere che il mondo sia buono o che non ti giudichi è utopia. La realtà è che non puoi cambiare la sua crudeltà, Susanne. Puoi solo decidere se concedergli potere su di te. E poi affrontarlo.»

«Come?»

«A schiena dritta, sorridente e con una forte dose d'ostentata sicurezza.»

Sarcastico, il sopracciglio di Sue si inarcò. «Come la tua?»

«Sono la dimostrazione che si diventa bravi.» sorrise Josh, divertito. Furono avvolti da un momento di puro silenzio in cui si guardarono. Sue avvertì un fastidio allo stomaco.

Il giovane Lord le offrì un braccio robusto, galante. «Allora? L'affronterai, Lady?»

Con un pizzicore a infastidirle le guance, Sue non tergiversò; accettò la gentile offerta con una sicurezza e un piglio che bussavano di rado alla sua porta. «Sì.»

~~~

Stretta al braccio di Josh, Sue fece il suo secondo ingresso nel foyer, carico di chiacchiericci, del Teatro Delfina. Ebbe la schiena dritta e fu sorridente. L'ostentata sicurezza, invece, fu una smussata titubanza; i timori non l'avevano abbandonata.

Fu così spaurita che udì di sfuggita quando la chiamarono. «Come?»

Era Josh, con aria angustiata. «Stai bene? Ti vedo pensierosa.»

«E' solo...Questo è...»

«Troppo?» Sue assentì. «Concentrati su altro.» consigliò.

E lei lo fece. Osservò distrattamente i presenti e ne adocchiò fugace le chiome acconciate; alcune erano tanto astruse da rasentare l'assurdo.

Spostò l'attenzione altrove. Apprezzò i bei marmi e annusò il sentore agrumato che le solleticava le narici; non la quietò.

Cambiò ancora, verso destra.
Qui, fu rapita da una vista abbagliante: lo stesso Josh. Il gremito foyer sfumò ed esisté solo la sua figura. Iniziò a notare quanto fosse alto, la superava di quattro spanne abbondanti; quanto fosse robusto il suo braccio; quanto fosse salda la presa della sua mano e quanto fossero curate le unghie, il loro nitore era sorprendente. E il suo viso? Vi colse un'imperfezione: sparse qua e là, ovali e imprecise, minute lentiggini poco più brune della carnagione ornavano il ponte del naso e parte delle guance. Gli conferivano un aria quasi bambinesca a dispetto dei tratti marcati, e le piacque. E gli occhi? Rimase inebetita quando, intensi e cupi, si poggiarono nei suoi. Scoprì che quel mare di nero, era in realtà un castano oltremodo scuro e profondo, costellato da impercettibili pagliuzze dorate. E il suo sorriso? Meraviglioso e agghindato da minuscole fossette, era apparso alla stregua di un'arcana malia.  E Sue si sentì preda di un incantesimo: non articolava pensiero, aveva il palato arido. Era...

«Susanne?» la chiamò .

La sua voce era calda, suadente, avvolgente; le scalò il cuore.

«Funziona?» continuò in un sussurro come se avesse timore di svegliarla da un sogno.

Funziona? Cosa? Il viso le si incendiò di rosso di punto in bianco. L'ho fissato, mi sono imbambolata?!  Stupida!

Distogliendo celere lo sguardo ottenebrato dalla medesima vergogna che le colorava le gote, fece il possibile per non sembrare impacciata. Invano; incespicò. «F-funziona. G-grazie.» si schiarì la voce e sviò: «Tua madre ha un ottimo gusto. Il Teatro è fantastico.»

Josh rispose con una scrollata di spalle. «Avrei preferito che non lo facesse.»

«Perché?» si stupì.

«L'ha costruito per il mio posto nella Convergenza», sorrise amaro, «cosicché il seggio rimanga nel nostro ramo della famiglia e non in quello di mio zio.»

«Tuo zio non ha figli.» ricordò lei. «Rimarrebbe comunque.»

«Ma potrebbe averne. Se dovesse prima che il seggio passi a me, alla maggiore età questo tornerebbe a suo figlio.» chiosò.

Muta, Sue mascherò un profondo imbarazzo. Hannaline non le aveva mai accennato certe minuzie. Lasciò che Josh proseguisse, anticipato da uno spiro di greve rivolto allo stemma della sua casata, impresso sul soffitto. «In famiglie grandi come la mia, costruire questi posti dovrebbe garantire il favore delle altre Casate e, con la giusta Abilità, il seggio della Convergenza.»

Sue lo guardò: ebbe l'espressione di quella mattina. «Che non vuoi.»

Fu mesto. «Si nota molto?»

«Un po'.»

«So che non dovrei. È il nostro dovere e... privilegio.»  Josh le carezzò la mano sul suo braccio. «Forse non sarà così male con un'amica al tavolo.»

Sue subì ancora quel pizzicore fastidioso dato dal rossore. «Forse no.»

Si sorrisero. Il pensiero di non dover affrontare in solitudine l'ingresso nella Convergenza la rincuorava. Josh la rincuorava. La cullava con una sensazione nuova e bellissima di cui si sarebbe potuta ubriacare. O forse l'aveva già fatto, perché la testa le vorticava.

Fu lì che, negletto, sentì il suo nome. Era Iris, con la gonna del bellissimo abito turchino tra le mani; pervenne rapida. «Sue! Dov'eri finita? Ti ho cercata ovunque.» 

«Avevo bisogno di una boccata d'aria.» rispose Sue contrita.

Lo sguardo celeste dell'amica si assottigliò, tagliente. «Con Lars?»

«Abrahams», salutò Josh altrettanto ferino mentre giovane Krafti tirava a sé l'altra. «Vi conoscete?  Che sorpresa. Non ne avevo idea.».

Dondolante sui tacchi, Sue fu spaesata. A cena, era stata la stessa Iris a dirle che con Josh era in ottimi rapporti e che, per di più, i legami tra le loro famiglie erano ben radicati: oltre all'amicizia tra i genitori, Anteo e Delfina, sua nonna, Lady Heather Bluma Abrahams, aveva avuto una relazione illecita con Lord Golia Lemuel Lars, prozio di Josh, a circa vent'anni. Non era finita bene: le regole del Principato avevano vinto e i due avevano dovuto sposare dei Privilegiati di Casate Nobili.

Allora perché, Iris e Josh le parvero due felini pronti ad azzuffarsi?

«Renditi utile, Lars. Sai dov'è Areth?» chiese altera Iris.  «Voglio presentarlo a Sue».

«Forse in stanza.» liquidò lui e si rivolse alla giovane Bertrán. «Iris non mi ha mai parlato di te. È strano, di solito non sta mai zitta.» i due si scambiarono un'altra occhiata che Sue non decifrò. «Da quanto vi conoscete?»

«Noi-»

«Non sono affari tuoi Lars.» anticipò Iris, sibilante.

«Abrahams, non essere maleducata. Susanne stava parlando.» ribeccò l'altro.

«Miss Bertrán?»

Si levò all'improvviso una voce arrocchita da un'aggressiva raucedine che interruppe incomprensibile bisticcio. Sue si voltò. Era un Asservito con la pelle rinsecchita e guance flosce. Avvicinatosi alle sue spalle con l'incedere di un felino, era minuto quanto un topino.

«Sì?»

L'Asservito si profuse in un inchino profondo dal quale ebbe difficoltà a raddrizzarsi; Sue ne ebbe a non aiutarlo.

«La Rettrice Moukarbel desidera incontrarvi» principiò. «Vi prego di seguirmi.»

~~~

Appena l'amica fu inghiottita dalla folla al seguito del vecchio asservito, Iris smontò il sorriso con il quale l'aveva salutata, si voltò corrucciata e mugghiò in un mormorio concitato verso colui che, oltre che possessore di un sorriso rapente e un ego smisurato, le stava rovinando tutto: «Maledetto di un Lars, che ti salta in testa!» L'afferrò per la manica della giacca e iniziò a trascinarlo dove la calca scemava. «Cosa diavolo stai facendo con Sue?!»

«Ciò che dovresti fare tu, Abrahams.» soffiò mentre la spostava per evitare lo scontro con il corpo giunonico di Mrs. Alonzo, docente di preveggenza Wizja. Scambiarono con questa un cortese sorriso indossato ad arte e continuò, una volta giunti: «La vendetta richiede che la vittima agisca».

In un dimenio, Iris si scansò e sbalordì. «Razza di...tu lo stai facendo apposta!»

Il ragazzo non trattenne un riso sottile. «Accidenti, sei una volpe.»

«Ti ho già detto che è tutto annullato.» lo rimbeccò severa Iris.

Gli occhi scuri di Josh rotearono di ribrezzo. «Sì, ricordo la chiamata di prima. Tutto quel buonismo mi ha dato la nausea.»

«Era la verità, non buonismo» si accigliò. «È la mia migliore amica.»

«Ma che dolce», ironizzò lui, «A quando il pat-pat sulla testolina?»

Indispettita, Iris gli rifilò una decisa pacca sulla giacca viola. «Non usare il tuo cinico sarcasmo con me!»

Josh le si fece vicino. «Devo. La tua amica è una bugiarda.»

«Non la conosci.» contestò lei.

«Sì, invece. Ci ho parlato.»

«Per quanto? Dieci minuti?»

«Venti.» rispose Josh. «Forse ventuno.»

Iris emise un risatina pungente. «Esilarante.»

«Sai che sono bravo a valutare le persone» decantò.

Stizzita, serrò le braccia. «Ma fammi il piacere. Tu credi di saperlo fare.»

«Credo? Chi aveva ragione su Mildred? Su Paul? Su Mr. Cooper? Fammi pensare; io, io, ancora io.» asserì saccente. «Chi avrà ragione su Susanne?»

«Lo sai che troppi io danno alla testa?» ribatté Iris in un sorrisetto mordace. «Perché non ti fai dare una controllata? Offro io.»

«Spiritosa.» Poi ghignò. «Vuoi un altro esempio? Ricordi chi aveva ragione in quella simpatica conversazione, dell'altro anno, sul tuo fidanzatino patetico?»

Iris trasalì. Gli si accostò a un palmo dal naso, gli diede una seconda pacca e gli scoccò un'occhiata che mal celava la furia nel petto. «Abbassa... quella voce. E non chiamarlo così.»

«Le Casate nobili sono tutte patetiche. Non cambiare argomento.» L'espressione paga che si impresse sul viso Josh quando rimase muta le moltiplicò la collera. «È ancora così, vero?» insinuò mellifluo.

«Non so di cosa tu stia parlando.»

«Non fare l'ingenua, non ti riesce: quando ci provi assomigli a un mastino.» lamentò sprezzante e lei storse il naso. Si accorse solo allora di essersi pronunciata a denti stretti. «Ma se proprio vuoi ti rinfresco la memoria... qui.»

Iris si voltò repentina e lo trafisse con un'occhiata dardeggiante. «Non oseresti.»

«Ne sei sicura? Le battute hanno successo solo se c'è un pubblico che le ascolta.»

Calò un silenzio che li divise dal resto del Teatro come un pesante e cupo sipario, pronto a dar vita a mirabolante commedia. In una metafora maligna, Josh sarebbe stato il teatrante di scena, gli astanti assiepatisi per il discorso sarebbero stati la platea ciarliera e lei sarebbe stata il pezzo forte della serata: la beffa e il gran danno.

Ma non cedé al ricatto d'orgoglio. Anzi, s'impettì e contrattaccò, incollerita.

«Un pubblico che si ricorderà di quanto sei infame, Lars, e che senz'altro ti amerà quando sarai nella Convergenza.» disse con falso languore e ora fu Josh a storcere il naso. Poi lo sfidò, con gli occhi ardenti piantanti suoi e le mani sui fianchi: «Avanti. Fammi a pezzi. Ma sappi che insieme ai miei, ci saranno anche i tuoi.»

Lì, il silenzio si ripresentò. Fu opprimente: le gravò sul petto, le represse il fiato in gola.

Infine, Josh si arrese. «Il concetto non cambia: la tua amica ti sta mentendo. Sveglia, Abrahams. Gliela farai passare liscia? Sul serio?»

«Sì.» disse Iris e, a passo svelto, fu sulla via per il centro del foyer.

«Quella ragazza ti ha fatto star male per tre anni. Se lo merita.» rincarò lui e la seguì. «Al primo anno hai riempito di mordente le scarpe di Emily Bauman perché ti aveva rubato il posto a pranzo. Dov'è la differenza?»

«La differenza è che Sue è mia amica. E mi fido.»

Josh fu stupefatto. «Ti fidi di lei?»

Iris si bloccò. «Sì.» sentenziò esasperata. «Lasciala stare. Non è il tuo punching-ball, Josh. Se sei annoiato, trova altro da fare e pensa a te stesso.» Concluse in un tono forse troppo agre, perché Josh lo accusò. Ma non si pentì: sorreggendo la gonna turchina, si defilò alla ricerca di Areth.

~~~

La camminata di Areth Mead era particolare: con le dita frementi, l'occhio guardingo, la schiena leggermente ricurva e un dondolio accorto della testa a ogni nuovo corridoio da imboccare. Certo, non era quella che soleva contraddistinguerlo, ma era la più utile per accingersi prudente all'alloggio 159.

In tre anni, mai avrebbe pensato che si sarebbe ritrovato a quel punto, a brancolare nel buio pesto. Era stato attento, aveva eseguito ogni passaggio con rigore e metodo, per cosa? Ora dov'era? Era nella...

Merda! Imprecò dinnanzi alla porta. E' tardi! Sta già cambiando!

Le stanze dell'Aveyard Clare Accademy erano particolari, soprattutto le loro porte: queste mutavano, si riscrivevano a seconda di chi occupava la camera; Areth rimirava la sua ogni mattina e rabbrividiva. Ora, la civetta, che da anni era appollaiata sulla porta 159, era stata inghiottita da una nebulosa grigiastra.

Ora come entro? si chiese. Perché lui doveva entrare.

Ma attraversare una porta in fase di mutazione era pericoloso. I pochi fortunati che avevano tentato per goliardia si erano ritrovati o senza un braccio, principalmente il sinistro, o senza una gamba, di solito la destra. Gli altri non erano stati fortunati. Areth, che teneva alle gambe, alle braccia e, non ultima, alla sua vita, scartò l'opzione.

Avrebbe dovuto attendere la fine del processo.

Rimuginò: sprecherei tempo. Era spacciato. Ma se non pongo rimedio? Avrebbe innescato degli eventi a catena che non sarebbe stato in grado di fermare.

«Mr. Mead.»

La voce alle sue spalle era di DH5583. Era allarmata e affannata. Areth si girò e l'uomo continuò:

«Avete confuso i vostri guanti. Vi ho portato quelli nuovi.»

Non è possibile, si disse. Mai li avrebbe scambiati. Mai. Quelli vecchi erano...
Areth si guardò le mani e divenne cinereo. L'Asservito non sbagliava: indossava quelli bianchicci, nei quali, sull'indice destro, campeggiava un buco. Era un forellino tra due lembi appena sfilacciati; lo terrorizzò. Entrò in uno stato d'apnea. Ebbe il bisogno viscerale di porre rimedio a quello scempio. Con la foga di un assetato nel deserto e l'orrore d'uno sgomento, si tolse repentino i guanti bianchi per ghermire dalle mani dell'Asservito e infilare quelli di nappa nera. Odiava la sensazione delle dita all'aria, nude. Amava, invece, il calore e la protezione della pelle cucita.

Espirò.

Si concesse un momento perché il cuore riprendesse il battito usuale. Era stato uno schiocco, non aveva notato che... Non volle rimuginarci. Indirizzò lo sguardo su DH5583: era lì, immoto, composto e muto. Aveva già assistito a scene del genere e Areth apprezzò il suo silenzio.
Gli rivolse un sorriso gentile e, impossibilitato a far altro, si avviò verso il Teatro Delfina. Avrebbe trovato un altro modo per entrare nella stanza 159.

~~~

Dalla pelle ambrata arricchita da un voluttuario accenno di fard e dalla chioma dorata arricciata con gusto, la Rettrice Moukarbel era affascinante; avvolta da un abito pari alla volta notturna, spandeva bellezza e grazia. Ma Sue, al seguito dell'anziano Asservito, era assillata da tutt'altro pensiero.

Perché? Aveva il cuore in gola. Forse è per...Non può essere. E se fosse ...

La sua voce arrocchita dell'Asservito che richiamò l'attenzione della rettrice le tranciò di netto i pensieri. E quando la donna si voltò, ebbe per lei solo che delicati sorrisi.

«Miss Bertrán. Aspettavo giusto lei.» esordì morbida, affidando il calice tra le mani all'Asservito. Fece un cenno. «Venga, ci tengo a mostrarle una cosa.»

Nervosa, Sue la seguì.

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