The Not Heard

By azurahelianthus

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⛓️ DARK ROMANCE AUTOCONCLUSIVO ⛓️ Ci sono vendette che non hanno tempo e sbagli per cui non esiste redenzione... More

𝐓𝐇𝐄 𝐍𝐎𝐓 𝐇𝐄𝐀𝐑𝐃
𝐏𝐑𝐎𝐋𝐎𝐆𝐎
I
II
III
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXV
𝐄𝐏𝐈𝐋𝐎𝐆𝐎
𝐋𝐀 𝐋𝐄𝐓𝐓𝐄𝐑𝐀

IV

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By azurahelianthus

Rem Ivanov, accusato di omicidio di primo grado ai danni di più di dieci persone e considerato omicida seriale prima che si costituisse di sua spontanea volontà alle forze dell'ordine, è stato condannato a ventun anni di carcere. È riuscito a salvarsi dalla condanna alla pena di morte solo perché gli omicidi che aveva commesso erano stati svolti nel New Hampshire, dove essa è stata abolita nel 2019.

Osservai le immagini dei cadaveri delle vittime con un'espressione priva di qualsiasi emozione, spostai gli occhi sulle parole fatte di inchiostro contenenti la  sua deposizione senza sentire il minimo accenno di sdegno.

Aveva rapito le sue vittime per torturarle con una crudeltà disumana, fisicamente e psicologicamente, tagliando la loro pelle in ogni angolo del loro corpo e lasciandoli morire di ipotermia nei casi migliori, a causa dell'aria condizionata che teneva sempre accesa per non mandare in decomposizione i cadaveri delle vittime precedenti. Nei casi peggiori morivano dissanguati.

Costringeva le sue vittime a mangiare la carne derivata dalle vittime precedenti e li osservava mentre lo facevano. Secondo un'autopsia più dettagliata, alcuni erano morti a causa del loro stesso vomito, che aveva ostruito le vie respiratorie nella posizione in cui lui li costringeva a stare. Eppure si era costituito, perciò non provava piacere in quello che faceva, non lo aveva fatto perché nutriva un godimento nel dolore altrui.

"Perché lo hai fatto?", mi chiesi mentre lo osservavo.

Ad occhio e croce era il più giovane lì dentro, per qualche motivo mi ricordò molto mio fratello. Aveva gli occhi più gentili e le movenze più docili che avessi visto in quella prigione, mi domandai che cosa ci facesse lì dentro uno come lui e come avesse fatto quello che aveva fatto.

Quando entrai nel mio studio e mi chiusi la porta alle spalle, i suoi occhi di una chiara tonalità di marrone mi osservarono con molta curiosità, ma una genuina e non maliziosa come molti altri. Era del tutto rilassato, con la schiena poggiata sullo schienale e le gambe allungate di fronte a sé, leggermente divaricate.

Considerando il suo aspetto apparentemente genuino e la calma sul suo volto, decisi di usare un approccio più diretto e dargli del tu piuttosto che del lei. «Ciao, Rem».

«Ciao, Nicole». I suoi occhi brillarono.

Mi sorprese, ma evitai di mostrarglielo. Mi sedetti di fronte a lui, all'altro capo della scrivania, e poco dopo una musica rilassante si espanse per tutta la stanza, coprendo le nostre voci e distorcendo le nostre conversazioni. Nessuno ci avrebbe potuto sentire con facilità da fuori, né ci avrebbero potuto registrare.

«Immagino che tu sappia il mio nome a causa di Parisi». Aprii il suo fascicolo solo per rinfrescarmi la memoria, anche se forse non c'è ne sarebbe stato bisogno. «Siete molti amici?».

«Non direi. Airton è l'unica persona che mi sta vicino per quello che sono e non per chi sono, in questi anni è diventato il fratello che non ho mai avuto». Chiusi il fascicolo e mi sistemai in una posizione più comoda, ma mantenendo lo sguardo puntato su di lui.

«Ci sono delle persone che ti trattano in maniera diversa a causa dell'importanza del tuo cognome e della tua dinastia? Se non erro sei russo, gli Ivanov sono una delle più importanti famiglie che supportano il Paese e tuo padre è un magnate».

«Sì, mio padre è molto... influente». Calcò la parola usando un tono di voce aspro.

«Non hai risposto alla prima domanda, Rem». Lo incoraggiai.

Sospirò. «Qui dentro l'unica cosa che ci rimane è il controllo che possiamo esibire sugli altri detenuti e i soldi. Gira tutto attorno al potere che si è creato fra queste mura e, anche se non sembra, in questo esatto momento, secondo dopo secondo, c'è una dinastia in espansione. Questo ha creato una sorta di frattura».

«Fra voi detenuti intendi?».

«Fra tutti, Nicole. C'è una fazione di questa prigione che cerca di vivere serenamente la pena che deve scontare e l'altra che tenta in ogni modo di sopraffarla».

Mi toccai distrattamente i capelli, assicurandomi di spostarli dal collo. «Scommetto che ti ritrovi nella prima frazione, ma la seconda non è d'accordo».

Annuì, storcendo il naso. «Se ti fanno del male puoi dirmelo, Rem. Farò il mio meglio per aiutarti».

«E che vuoi fare? Dirlo a Theodore, che ha il prosciutto negli occhi perché alla fine questa situazione gli giova? Qui dentro non c'è una sola vittima a parte te, Nicole. Siamo tutti carnefici».

Lo studiai. «Perché ti sei costituito, Rem? Tuo padre avrebbe fatto tutto quello che era in suo potere per fartela passare liscia».

«Sì, è vero, ma mio padre non fa mai niente per niente. Se mi fossi lasciato aiutare un giorno avrebbe chiesto qualcosa in cambio, e anche il giorno dopo, e anche quello dopo ancora. Non sarei più riuscito a fuggire».

Non mosse un solo muscolo, continuò a mantenere una posizione rilassata e il viso privo di nervosismo.
Era come se pensasse di non aver fatto niente di sbagliato.

«Anche da qui non puoi fuggire. Cosa cambia?».

«Che ho scelto io di essere qui. Ho fatto quello che ho fatto e me ne sono preso le responsabilità, starò dove devo stare e quando potrò uscire da qui non dovrò dare niente a nessuno». Inclinò la testa verso sinistra e quando l'ombra di un sorriso gli curvò le labbra abbassò lo sguardo sulla scrivania. «A parte ad Airton».

«Avevi una bella vita, Rem, o almeno così sembra dai tuoi dati e conti bancari. Perché hai fatto quello che hai fatto? Volevi solo provare la sensazione di potere? Volevi sfogare il tuo dolore in qualche modo?».

Alzò lo sguardo per puntarlo su di me. Anche in questo caso, anche dopo avergli messo davanti che aveva rovinato la sua vita, lui continuava ad essere tranquillo. Chiunque altro sarebbe stato così nervoso da muoversi freneticamente sulla sedia, continuando a cambiare posizione e a non fissarmi negli occhi per paura del giudizio nel mio sguardo.

«L'ho fatto per la madre della mia migliore amica, che era un po' anche la mia. Mia madre era troppo impegnata a stare attenta alle segretarie che uscivano dallo studio di mio padre aggiustandosi le mutandine per essere la mamma che mi meritavo». Mormorò.

Mi sporsi in avanti per stargli più vicina. «Cosa c'entra lei con il torturare fino alla morte più di dieci persone che lavoravano in un ospedale del New Hampshire, a più di 8.000 km di distanza dal luogo in cui abitavi?».

«Era malata, le avevano diagnosticato il cancro già due anni prima dell'arrivo dei risultati degli esami che avevano cambiato tutto. In quel misero foglio bianco sporco di inchiostro nero c'era scritto, in termini medici, che le rimanevano pochi mesi di vita. La fine della sua vita era stata comunicata così, con un foglio stropicciato, dei dispiaceri e tanti saluti. Era andata a farli in quell'ospedale perché una sua amica lavorava lì e le avevano detto che erano molti bravi, che stavano sperimentando una cura su dei pazienti consenzienti e che quella poteva essere la sua ultima spiaggia». Per la prima volta vidi un'emozione diversa sul suo viso, della semplice rabbia che lo portò a stringere la mascella. «Ovviamente era a pagamento, il costo era qualcosa di esorbitante e per aiutarla rubavo a casa mia degli oggetti che poi avrei rivenduto. Siamo riusciti a pagare l'intera somma a fatica prima che mio padre se ne accorgesse».

Gli guardai le mani, unite e poggiate sul legno. «Se sei qui qualcosa deve essere andato storto».

Immaginavo già cosa fosse successo e il fatto che fosse così "comune" rendeva la cosa ancora più crudele.

«Era una truffa». Il peso del mondo e delle sue crudeltà pesò più del normale sulle mie spalle. «La sua "amica" faceva parte di una banda di truffatori oncologici che illudevano i loro pazienti con pochi mesi di vita alle spalle facendogli credere di sottoporli ad una nuovissima cura sperimentale di cui nessuno poteva parlare. Quei bastardi attendevano la fine dei loro pazienti spillandogli tutti i soldi che gli rimanevano, capisci?!».

«Mi dispiace, Rem, non sai quanto».

«Sì, è dispiaciuto anche a me piangere la morte di mia madre con la ragazza che amavo che mi singhiozzava sulla spalla». Strinse ancora una volta la mascella.

«Quando li ho uccisi uno ad uno di fronte alle loro mogli, o viceversa, mi è dispiaciuto un po' meno».

«Non hai pensato a lei? Alla tua migliore amica, che è rimasta sola e che rimarrà sola per altri diciassette anni?».

Un sorriso amaro gli curvò le labbra. Mi sembrò così triste che mi fece quasi tenerezza perché mi ricordò qualcun altro. «No, perché lei ha già qualcuno che si prenderà cura di lei».

«La sua famiglia?».

«Il suo fidanzato, Nicole. Il suo fidanzato». Continuò a sorridere in quel modo.

Un'amara tristezza mi aleggiò nel cuore, perciò immaginai soltanto cosa si provasse ad essere rinchiuso in una stanza molto piccola con la consapevolezza che a km di distanza la persona che si amava era fra le braccia di un'altra. Mi chiesi se la sua vendetta sarebbe stata crudele allo stesso modo se i sentimenti verso di lei fossero stati diversi, se per lei avesse provato un amore fraterno.

Mi chiesi soprattutto cosa si provasse sapendo di dover passare molti anni lontano dall'amore della propria vita, o almeno da quello che lo sembrava.
Quanto fosse doloroso ricordare che il tempo al di fuori di quelle mura scorreva normalmente, le cose cambiavano, la civiltà si modernizzava, le persone morivano e altre invecchiavano, il tutto senza che loro potessero viverlo.

"La cosa che mi fa più male è che non potrò salutare papà per l'ultima volta", mi aveva detto mio fratello un giorno, "e che non potrò crescere con te, vederti diventare una splendida donna".

Aveva solo tre anni in più di me. Solamente tre.

«Nicole?». Rem richiamò la mia attenzione e per questo i miei occhi si posarono di lui.

Mi schiarii la voce. «Perdonami, mi sono persa nei miei pensieri. Stavamo dicendo?».

«Forse non hai scelto il lavoro migliore del mondo, sai?». Sorrise.

«Perché?».

«Troppa empatia non fa bene. Nessuno dei tuoi professori ti ha mai fatto l'esempio dell'annegamento?». Scossi la testa. «Quando qualcuno sta annegando in acque mosse devi provare ad aiutarlo ad uscire da lì, non tuffarti nel vano tentativo di salvarlo».

«Ci siamo scambiati di ruolo, Rem?». Richiusi il suo fascicolo dopo averlo schedato allo stesso modo di tutti gli altri.

Lo vidi sorridere un'altra volta. «Un favore per uno. Mi è piaciuto parlare con te, era da tempo che qualcuno non si interessava al motivo per cui sono finito qui. Sai, la gente vede sempre la fine di un binario e mai il treno che deraglia».

«E io sono contenta del fatto che almeno a te piaccia parlare con me. Sei stato uno dei più disponibili, complimenti».

«Posso andare?». Mi chiese, in procinto di alzarsi.

«Certamente, sei libero di andare».

Mi dedicò un sorriso ironico e al tempo stesso amaro. «Ammetto che mi piacerebbe». Chiusi gli occhi e mi sentii colpa, avevo scelto un insieme di parole sbagliate. Tuttavia lui tornò presto allegro e si alzò, attendendo che chiamassi la guardia attraverso il pulsante che si trovava sotto la mia scrivania.

La guardia fu la stessa che aveva avuto dei favoritismi nei confronti di Isaiah e quella su cui avrei dovuto indagare di più perché, fra tutte, era quella che meno mi convinceva. Marvyn, mi pareva fosse questo il suo nome, entrò con un'espressione spavalda all'interno del mio studio e neanche mi salutò.

Agguantò Rem da un braccio e lo avvicinò a sé, esortandolo con un gesto violento. «Salutala, idiota! Dov'è finita la tua educazione, ragazzino?!».

«Credo nello stesso posto in cui sia finita la tua, Marvyn». Lo misi al suo posto, proprio mentre mi guardava confuso. «Sei entrato qui e non hai saluto il signorino Ivanov come non hai salutato me. Non riprendere gli altri per ciò che manca anche a te».

Rem indossò un sorriso a trentaquattro denti, sembrò che nessuno lo avesse mai difeso in questo modo e per questo la sorpresa prese posto sul suo viso giovane.

«Sei stato rimbeccato dalla nuova arrivata, Marvyn». Cantilenò divertito lui, beccandosi uno schiaffo sulla nuca che mi fece innervosire.

Marvyn borbottò infastidito, spingendolo fino alla soglia. «Sta' zitto, Ivanov! A forza di frequentare Parisi stai diventando come quel coglione».

Lo fulminai con lo sguardo e quando uscì chiusi la porta con un po' troppa violenza, creando un rumore forte che si espanse per tutto il corridoio. Cominciavo a non sopportarlo proprio. 

Quando finii con l'ultimo detenuto prima della fine della giornata, sapendo che Daneen mi attendeva in mensa per cenare insieme, la caffetteria era ancora allagata, uscendo in corridoio mi sorpresi di non vedere nemmeno una guardia. Normalmente ne circolava una per accertarsi della mia sicurezza, ma adesso ero da sola.

Mi addentrai nel corridoio non esattamente illuminato e arrivai ai controlli di sicurezza che precedevano le celle dei detenuti. La mia bocca si spalancò quando udii un paio di grugniti sofferenti, urla furiose e parolacce a non finire, contornate da minacce gelide che mi fecero accapponare la pelle. C'era una rissa nel bel mezzo del corridoio che divideva i due piani delle celle!

Notai immediatamente il tessuto della divisa da agente spiccare fra il colore blu delle divise dei detenuti, perciò mi avvicinai cercando di non farmi notare e quando vidi il volto della guardia che stava osservando la scena senza fare niente ne fui sorpresa. La mia bocca si schiuse e sui miei occhi calò un velo di rabbia.

Conoscevo quel viso come le mie mani, lo avevo visto di sfuggita per tanto tempo e molti mesi dopo avevo osservato i suoi occhi da una fotografia così tante volte da memorizzarli.

Cairo L'Imam era lì, posizionato a gambe aperte e con la mano destra sul manganello pronto a intervenire aggressivamente. Eppure sembrava attendere qualcosa, come se non fosse ancora il momento giusto per separare la violenta rissa che si stava consumando davanti ai suoi occhi.

Quel sorriso soddisfatto e maligno sulle sue labbra mi incendiò da capo a piedi, il mondo si tinse di un rosso scarlatto e rischiai quasi di perdere il controllo, immaginando i mille modi diversi con in cui avrei potuto torturarlo e portarlo lentamente a implorare la morte.

Improvvisamente quello che aveva fatto Rem mi parve giusto. La crudeltà della sua vendetta, la rabbia cieca che aveva smosso le sue azioni e il mancato senso di colpa presero un senso, divennero un qualcosa che comprendevo.

In quel momento, pensando a quello che Cairo mi aveva tolto, la giustizia che si era fatta Rem mi sembrò la soluzione migliore.

Occhi di un azzurro freddo, dentro la sua iride niente oceano ma solo ghiaccio, che giorno dopo giorno avevano trascinato via da me il mio compagno di vita, la persona con cui condividevo il mio stesso sangue.

Mio fratello.

«Nicole, allontanati!». Sentii a malapena la voce di Vince, la sentii solo quando non mi fu più utile. In qualche modo avevo sceso le scale, persa nei miei pensieri, ed ero finita in mezzo ai detenuti, che non mi davano nemmeno conto troppo occupati ad osservare la scena che ci trovavamo davanti agli occhi.

«Nicole!». Urlò ancora.

Uno dei due detenuti, cercando di sfuggire ai colpi dall'altro, iniziò ad indietreggiare velocemente e finì sul mio corpo. Venni spinta violentemente, seppur non appositamente, sul pavimento gelato del corridoio a pochi metri dal resto dei detenuti. Dei versi sorpresi si alzarono dalla cerchia di gente che si era creata attorno a noi e la rissa si fermò.

Tutti gli occhi ora erano puntati su di me, proprio mentre la mia nuca sbatteva sul metallo duro delle sbarre di una cella e un dolore persistente al cranio mi costringeva a chiudere gli occhi.

La mia vista si sfocò, a malapena riuscii a riconoscere la voce dal tono alto e furioso di Vince e quella calma e controllata di Cairo, a cui evidentemente non fregava niente delle mie condizioni.

Mi toccai la parte dolente con il palmo della mano e quando la tirai via e la fissai, vedere quanto fosse sporca di sangue scuro e liquido non mi stupì. Questo non mi impedì di rialzarmi, seppure a fatica, e di tenermi sulle sbarre per non cadere a causa delle gambe molli.

I detenuti sembravano sorpresi tanto quanto preoccupati, ma solo uno di loro mi si avvicinò immediatamente. «Nicole, mio Dio! Mi dispiace!».

Rem mi sorresse, circondandomi la vita con un braccio e continuando a scusarsi per un motivo che non comprendevo.

Mi persi il momento in cui la sua presenza venne rimpiazzata da quella di Airton, mi stupii riconoscerlo anche solo dal suo tocco, e anche l'attimo in cui mi prese in braccio a mo' di sposa e ignorò le urla di Vince che gli intimavano di lasciarmi perché stava solo per peggiorare la sua situazione. Passò di fronte a Theodore come se niente fosse, non rispose neanche alle sue di domande e si lasciò la sua presenza alle spalle, camminando Dio solo sapeva dove.

«Starai bene, non ti preoccupare». Mi mormorò all'orecchio, la sua voce per la prima volta fu intrinseca di un'emozione vera e reale, umana come non era ancora mai stata.

«Lo so». La testa mi martellava, continuavo a sentire il sangue caldo scendermi dalla nuca fino al retro del collo. «Non è la prima volta che sanguino in questo modo, sai?».

Mi posizionò meglio, passando il braccio sotto alle mie gambe e facendomi appoggiare la guancia al suo petto. «Quindi non è la prima volta che qualcuno ti spinge fino a farti sbattere la nuca su una sbarra? Davvero?». Sembrò particolarmente nervoso, tremava dalla testa ai piedi.

«Beh, no. Questa è la prima volta». Tentai di spostare la faccia dal suo petto per guardarlo ma lui me lo impedì, riportandomi il viso in quel punto. «Ma che ti prende?! Comunque potevo camminare da sola, riesco a tenermi in piedi».

«Sì, l'ho visto, Nicole. L'ho proprio visto. Ora sta' zitta!». Ringhiò.

Battei le palpebre per l'aggressività del suo tono. Quando mi fece scivolare sul lettino dell'infermeria non lo guardai neanche e anzi lo ignorai, così come ignorai le sue successive domande.

«Ti fa male?».

«Fammi vedere se ti esce ancora sangue». Non mi mossi.

«Provi dolore? Ti fa male la testa? Senti qualcosa di strano?».

Vedendo che non rispondevo si piegò in avanti, finendo nel mio campo visivo, e mi fissò con i suoi occhi marroni. «Nicole, mi senti o no? Stai bene? Mi sto preoccupando».

Mi studiò a lungo, assottigliando lo sguardo e spostandolo per tutto il mio viso. I miei occhi non incontrarono mai i suoi, glieli vietai proprio, e per questo sembrò comprendere. «Oh, mi stai sentendo eccome, non è questo il problema. Mi stai semplicemente ignorando, brutta stronza!».

«Airton tesoro, non ti senti bene?». Chiese preoccupata l'infermiera quando entrò nella stanza, i suoi occhi si posarono su di me e quasi impallidì mentre dischiudeva la bocca con sorpresa. «Oh cielo, che ti hanno fatto tesoro?!».

«Niente in realtà, credo sia stato un incidente».

Mi si avvicinò e iniziò a controllare la ferita. «Ti fa male?».

«Solo quando lo tocca. Mi sento più che altro confusa e un po' debole, niente di grave». Mormorai.

«Questo sta a lei deciderlo, tu fai la psicologa non l'infermiera». Mi rimbeccò acidamente Airton, ottenendo in risposta solo una mia un'occhiataccia.

«Adesso inizio a medicarti. Se il dolore diventa troppo dimmelo e ci fermiamo per qualche momento, va bene piccina?». Era molto gentile, adesso capivo perché Airton parlasse anche con lei.

Le sorrisi. «Va bene. Grazie mille, signora».

«Perché a lei rispondi e a me no?». Lo vidi aggrottare la fronte.

Inarcai un sopracciglio. «Come ci si sente? Vedi com'è frustrante?».

«Oh vaffanculo! Non ho tempo per queste cazzate, ho un conto da saldare». Poi si risolve all'infermiera. «Mi faresti un favore se le facessi un vaccino antirabbico, credo che abbia preso la rabbia».

Spalancai la bocca tanto quanto l'infermiera stessa. Con la mano sinistra, quella libera, agguantai il nastro adesivo sul tavolino e glielo lanciai contro con tutta la forza possibile, sperando solo di beccarlo in un occhio e farlo diventare un pirata. Sfortunatamente lo prese al volo, rilanciandomelo contro e facendolo atterrare sulla mia pancia.

«Tu avrai preso la rabbia, stronzo!». Il mio urlo furioso lo seguì per tutto il corridoio, ne ero certa.

Per un paio di minuti non spiccicai una sola parola e non lo fece neanche l'infermiera, continuando a prendersi cura della ferita con delicatezza e professionalità. A quanto pare la ferita non era molto profonda e utilizzando una crema cicatrizzate si sarebbe chiusa in fretta, probabilmente tutto quel sangue non era derivato dalla gravità della ferita ma dal mio sangue più fluido del normale.

«Tesoro, non ti sei mai chiesta come mai hai il sangue così tanto liquido? Non hai mai eseguito degli esami specifici?». Mi chiese dopo un po'.

«Io... soffro di emofilia, l'ho ereditata da mio padre».

«Immaginavo. Dovete tenerla sotto controllo, siete predisposti ad avere spesso delle emorragie che possono essere meno gravi, come in questo caso, ma anche molto più pericolose». Mi raccomandò, ma io ero già abbastanza informata sull'argomento.

Ingoiai il groppo alla gola. «Ne sono a conoscenza, mio padre aveva questa malattia e mia madre è una portatrice sana, perciò io e mio fratello l'abbiamo ereditata da entrambi. Mio padre ha saputo educarci sin da piccoli a questo argomento». Parlare di due persone che non erano più su questa terra come se non se ne fossero mai andate faceva davvero male. Era un dolore difficile da spiegare, una nostalgia di tempi che sapevi che non sarebbero tornati.

«Gli uomini hanno più probabilità di beccarsi questa patologia, ma nelle donne è molto rara». Sospirò tristemente e mi passò la crema che avrei dovuto applicare mattina e sera. «Tu e tuo fratello siete stati davvero sfortunati, piccina». Mi guardò dispiaciuta.

Abbassai lo sguardo sul pavimento, sentendo un peso al cuore che mi accompagnava tutti i giorni e che normalmente ignoravo. Con i denti mi torturai il labbro inferiore, rivedendo una serie di foto del corpo di mio fratello, pieno di lividi, con le costole incrinate, con le labbra spaccate e la pelle attorno agli occhi ancora violacea. Me lo immaginai tutte le volte in cui aveva ricevuto quelle botte violente per motivi futili, assolutamente evitabili, sia dagli agenti che dai detenuti.

Immaginai mio fratello dolorante e stanco che si trascinava sul letto della cella, tentando in qualche modo di fermare il flusso copioso di sangue che usciva dalle sue ferite e che non era di una quantità normale. Riuscii quasi a vedere gli stracci che gli erano stati concessi intrinsechi di sangue, tanto da poterli quasi strizzare e usarli per dipingere un'intera tela bianca. Forse riuscii anche a provare ad immaginare cosa si provasse a sentire tutto quel sangue lasciare il proprio corpo quando ad altri bastavano pochi secondi perché iniziasse a coagulare e a fermare l'emorragia.

Alla fine, prima di svoltare verso il corridoio e tornarmene nella mia camera, lo immaginai mentre saliva su uno sgabello logoro e traballante e si legava una spessa corda al collo. Lo vidi dare un calcio violento ad esso, rimanendo appeso al metallo del letto a castello solo grazie alla corda che lo tratteneva e che piano piano gli toglieva il respiro fino a farlo annaspare.

E mentre lui si dimenava immaginai il suo sguardo spento che, prima che la morte lo raggiungesse, si spostava verso la piccola scrivania presente nella sua cella. Lì dove c'era una busta bianca, o almeno prima doveva esserlo stato, con il mio nome scritto sopra.

A Nerea.
Spero tu possa perdonarmi per averti lasciato da sola.

Perché alla fine era così che era andata. Quelle erano state le sue ultime mosse.

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