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By zaystories_

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! TW: violenza, abuso sessuale, morte/omicidio, dipendenze, disturbi psichici, aborto, autolesionismo. «Non m... More

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Informazioni e TW
Playlist
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
EXTRA - La lettera di Nate Cross
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30 (pt. I)
Capitolo 30 (pt. II)
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
EXTRA - Ava
Capitolo 37
Capitolo 38
EXTRA - Nora (pt. I)
EXTRA - Nora (pt. II)
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
EXTRA - Lewis
Capitolo 44
EXTRA - Dom
Capitolo 45
Capitolo 46
EXTRA - Lydia
Capitolo 47
Epilogo
Ringraziamenti
Tematiche trattate
Notizia importante!
BTME esce oggi!
FRI24

Capitolo 31

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By zaystories_

Rylee

Seduta sulla panca dinanzi alla pista silenziosa dello Skylite, allacciai i pattini formando un fiocco stretto.

Il mio umore non era dei migliori, dopo quello che era successo la sera precedente, e sottopelle sentivo ancora parte dei dolori inferti dalle percosse di Nora. Brutti ematomi mi avevano tinto parte della pelle di sfumature violacee, ma mi ero ingegnata per coprire il possibile e non destare sospetti. Di lì a poco, inoltre, sarebbe arrivata Ava per il suo solito allenamento.

Io avevo ignorato il pattinaggio per un bel po' di tempo, complice l'infatuazione improvvisa e intensa per Blake e il rapporto – ormai sgretolato – con Lewis. Ad accompagnare quell'amore appena sbocciato, fresco come il più rigoglioso dei fiori primaverili, però, non erano mancati i ripensamenti, i dubbi, il nome di Dom che si rincorreva celere negli scomparti della mia mente.

Quel giorno, perlomeno, avrei potuto scacciarli a ritmo di trottole e salti, nonostante i dolori fisici che avevo tentato di placare durante la mattinata, con un antidolorifico trovato per caso tra i medicinali abbandonati nell'armadietto del bagno.

Così, senza avere una vera coreografia da provare o delle figure da migliorare, mi gettai in pista e iniziai a riscaldarmi. I muscoli si tesero, riacquisirono la loro forza, e la fronte mi si imperlò del sudore dovuto all'afa di fine luglio.

Anche se avevo accantonato quella mia passione per giorni, non potevo negare il senso di spensieratezza che mi inebriava ogni qualvolta che tornavo sulle quattro rotelle. Soffocai la sofferenza causata dalle percosse riducendola a semplici sospiri o brevi pause, e improvvisai una trottola verticale che mi costò non poca fatica. I miei polmoni stavano iniziando a non reggere lo sforzo che ne derivava; prendere respiri profondi stava diventando arduo.

Dannate sigarette, pensai. Nicotina e tabacco stavano incenerendo quel poco di stabile che avevo costruito, un hobby nato per un caso fortuito del destino. Ero convinta che, se ci fosse stato ancora Dom ad allenarmi, con la sua serietà che mai trapelava se non in pista, mi avrebbe fatto la ramanzina. Non sopportava che io mi facessi del male, neanche nei modi più banali e diffusi.

Fu un rumore sordo, però, a interrompermi. Un materiale duro che impattò contro un altro e, nel voltarmi, mi accorsi che si trattava del borsone di Ava, che quest'ultima fece cadere sulla panca di legno. Nel momento in cui la guardai, anche le sue pupille si concatenarono alle mie; mi fissò seria, venata dal rimprovero a cui non diede voce, e sul suo viso angelico campeggiava un piccolo cerotto bianco a coprirle il naso. La curiosità sorse spontanea, ma, nella mia testa, l'unica opzione possibile era ben delineata: l'artefice era la stessa dei miei lividi.

«Dio, Rylee, che ci fai qui?» quasi esclamò, rompendo quel silenzio riflessivo durato più del dovuto. I suoi passi emisero un'eco nella pista vuota, nell'avvicinarsi a me. Fui travolta dal suo abbraccio, dal calore del suo corpo che risultò quasi fastidioso, sposato con l'afa estiva. A quel contatto, con le sue braccia attorno al mio collo e le mie a circondarle la vita, tutta la tensione e l'ansia accumulate si dissiparono. «Sei pazza, stai bene?»

Mi limitai ad annuire, muovendo il capo che sfregò contro la sua spalla, coperta solo dalla spallina della canotta nera che indossava. Nemmeno dopo averle regalato quella certezza, però, si separò da me, e mi strinse con ancora più intensità fino a farmi sussultare per il dolore causato dall'ematoma ottenuto in seguito al calcio che quella psicopatica mi aveva assetato. Non gemetti per non destare in lei alcuna preoccupazione, ma mi scappò un respiro più lungo e profondo, che ben si discostava dalla regolarità con cui ero solita prendere fiato in pista.

Lo Skylite era abbracciato dal silenzio, giustapposto al cinguettio degli uccellini rintanati sugli alberi all'esterno, il cui suono pacifico entrava dalle finestrelle aperte. Il sole indorava la pista con i suoi raggi, caldi e vivi, e quando Ava si staccò da me le iridi smeraldine furono impreziosite da quella luce brillante. La pelle era arrossata, ma il cerotto copriva in parte quel pigmento dovuto all'ipotetico colpo infertole. Anche così, però, rimaneva una delle ragazze più belle che io avessi mai visto – e invidiato –, che passeggiava a braccetto con l'indicibile splendore del suo gemello.

Blake.

Non sapevo cosa ne era stato di lui, dopo le minacce di Nora. Conoscevo bene le intenzioni di quest'ultima, trapelate dalle sue parole che me la facevano etichettare come una sociopatica, ma non potevo essere conscia di quanto oltre i limiti della ragione lei si sarebbe spinta. Era un connubio di follia e cattiveria, elementi che, nel suo cervello, si influenzavano l'un l'altro dietro la malignità di uno sguardo bello come il Paradiso, ma ustionante come l'Inferno.

Questo perché Nora conservava, dentro di sé, la perfezione degli angeli degni di benedizione, ma sputava un veleno deleterio contro chiunque non fosse disposto a piegarsi al suo volere. Trapassava le persone con iridi buie e nere come il mare in tempesta in piena notte, spaventoso e indomabile; le parole intrise di malevolenza le scivolavano via dalle labbra ipnotizzanti.

Nonostante il legame che avevo instaurato con Blake e che avrei difeso con le unghie e con i denti, non potevo sapere quanto facilmente lui fosse manipolabile da una persona di quel tipo. Perché quella ragazza era questo: una forza inarrestabile e intensa, capace di investire senza però dolere, in modo da attrarti a sé.

Fu allora che mi accorsi di avere lo sguardo perso nel vuoto, l'attenzione calata al suo infimo livello. Mi ero dissolta nel nulla, concentrata sul pulviscolo che aleggiava nell'aria umida, illuminato dal sole, a respirare l'odore stantio di una pista di pattinaggio che quasi nessuno utilizzava.

Ava, dinanzi a me, intrecciò le dita in un gesto nervoso. Se le contorse, le rigirò, ci giocò, ignara del giusto modo di intavolare una conversazione. Poi, forse guidata da un istinto improvviso, iniziò a compiere passi lenti, che si susseguivano su una linea immaginaria a scavare un finto solco sul suolo.

«Non immaginavo che sarebbe addirittura venuta da te, Lee» mormorò. Quindi la guardai, incollando le pupille a quella figura, che proprio non ne voleva sapere di fermarsi. Il tono era venato dalla voglia che nutriva di scusarsi, ma Ava era solita girare intorno alle questioni, affrontandole direttamente dopo qualche minuto. «Credevo che si sarebbe gettata a capofitto su Blake, che avrebbe insistito con lui fin da subito, e invece...» Nominò il fratello, e la voce si frantumò in una miriade di cocci irrecuperabili. Sparsi in maniera figurata ai nostri piedi, raccoglierli era un'impresa ardua. «Cristo, io la ammazzo!» esplose, le parole che rimbombarono contro le pareti sottili dell'edificio, le dita che le si infilarono tra i capelli per tirarli in un impeto di disperazione.

«Ava» proferii, e compii qualche passo ampio nella sua direzione. Non appena la raggiunsi, chiusi le falangi attorno ai suoi polsi e le feci distendere le braccia lungo il corpo, onde evitare che si facesse del male strappandosi le ciocche. La guardai negli occhi: lì regnavano furia e ira miste a paura e ansia. Anche lei non aveva idea di quello che sarebbe successo, ma le screziature verdi si rabbuiarono, adombrate dal timore. «Non preoccuparti per me, io sto bene» ribadii, e, fatta quella premessa, smisi di parlare di me. «Che ti ha fatto...?» tentennai nell'indagare, e addolcii il tono mentre i miei polpastrelli salirono, a carezzarle una delle gote morbide e lentigginose, in un gesto amichevole e rassicurante. Nella mia testa, poi, un altro pensiero si sovrappose a quelli già esistenti, e le parole si venarono di crepe quando le domandai: «Blake sta bene?»

Lei spezzò il contatto visivo. Si guardava intorno come se i pericoli fossero molteplici e addirittura incombenti, con i capelli scuri che dondolavano quando scuoteva il capo. Una delle mie mani le ingabbiava ancora il polso, l'altra si era discostata dal suo viso angelico per ricadere verso il basso. Cercavo la sua attenzione, qualche lemma che mi confortasse uscendo dalla sua bocca, ma lei pareva prigioniera della sua preoccupazione, incarcerata dietro le sbarre del mutismo.

«Voleva spaventarmi e che la lasciassi sola con mio fratello, quindi ha deciso di tirarmi una testata, ma sto bene» assicurò. «Stamattina ho fatto dei controlli e mi hanno detto che non è niente di grave, solo una piccola frattura» aggiunse. «Ma quella stronza ha concordato qualcosa con Blake e lui ha ceduto, e io non so di che cosa cazzo stava parlando quando mi ha detto che hanno un patto...»

Con ancora i pattini ai piedi e l'equilibrio precario che avevo sulle quattro rotelle, sentii le gambe cedermi e le ginocchia tremare. Le mie labbra disegnarono una linea sottile, si strinsero tra loro, forse si arrossarono per la pressione.

Conoscevo bene la natura debole di Blake, la tendenza che aveva a farsi abbindolare, segnato da una dipendenza passata e dalla sua indole da crocerossino, devoto alla protezione di chi più amava. Era una psiche fragile, la sua; sarebbe bastato un soffio di vento per distruggerla, ma Nora, nei suoi confronti, era un vero e proprio uragano.

Probabilmente voleva proteggerci, con quell'atto eroico che avrebbe recato dolore a lui soltanto. Ma la verità era un'altra: adesso che quella ragazza era tornata a mettere a repentaglio le vite dei Mitchell, nelle quali mi ero immischiata senza nemmeno accorgermene, il compito di difenderlo passava nelle mie mani e in quelle di Ava.

«Che tipo di patto?» le chiesi, dunque.

«Non lo so, Lee, non ne so niente» sputò, il tono duro. Le sclere si velarono di un luccichio, un sottile strato di lacrime che brillò sul verde speranza. «Sicuramente l'ha fatto per non farla avvicinare a me e a te, ma non so di che cosa abbiano parlato e se gli torcesse sul solo capello, Dio, io non sarei capace di rispondere delle mie azioni».

Fremeva, Ava, sotto il mio tocco delicato. Le dita vibravano per la tensione che la opprimeva e che le congelava ogni arto, ogni singolo muscolo.

Anch'io nutrivo terrore, dopo aver compreso la decisione di Blake. Non poteva soffrire ancora. Aveva già provato il fatale brivido dell'autodistruzione nella sua forma più crudele, quella che ti mangia da dentro, rovinando corpo e mente. La sola possibilità che potesse ricaderci non era contemplata, e pertanto comprendevo le paure della mia migliore amica, che aveva vissuto quel periodo infernale sulla sua pelle.

«E lui sta bene? Nonostante lei sia tornata, sta bene, vero?» cercai di accertarmi, ma in cuor mio ero già conscia della risposta.

«Non vuole parlarne. Né di questo, né di nient'altro» mormorò. Fu allora che intrecciai le mie dita con le sue, mollandole il polso esile e stringendole la mano che tremolava. Ne carezzai il dorso, disegnando cerchi irregolari per tranquillizzarla con un solo gesto spontaneo. «Stamattina avrà spiccicato sì e no due parole, è freddo» mi spiegò. Un pensiero le balenò nella testa, non lo soppresse, e generò una lacrima che le bagnò il viso candido. «Non posso perderlo di nuovo, Rylee».

Perché sì, lei l'aveva già perso una volta. L'aveva visto dissolversi in un vortice di nulla, risucchiato dall'alcol che annebbiava la sua ragione e corrodeva il suo corpo fragile, e aveva rischiato di pronunciare l'addio più doloroso che potesse concepire, dinanzi alla pericolosità del coma etilico che lui aveva sperimentato. Ava conosceva la sofferenza che impregnava le pareti degli ospedali esattamente come la conoscevo io; aveva camminato per corridoi silenziosi, accompagnata da suoni sordi, quasi inesistenti, a braccetto con il solo pensiero angoscioso di salutarlo per sempre.

Non accettava neanche la minima possibilità che ciò potesse riaccadere. Suo fratello era la famiglia che le rimaneva, la persona in cui era forgiato il suo prezioso concetto di "casa". Vederlo ucciso dal dolore avrebbe ineluttabilmente portato alla morte anche lei, perché ogni più piccolo dettaglio che la accendeva si sarebbe affievolito fino a spegnersi.

I Mitchell erano il perfetto combustibile del fuoco che li alimentava, e si tenevano in vita a vicenda. Se uno si riduceva in cenere, l'altro si sbriciolava al suo fianco per essere spazzato via dallo stesso vento: quello della dimenticanza.

Le cacciai via un rivolo salato con il pollice, che si inumidì. La mia mano, quindi, si arrampicò verso la sua nuca e io la strinsi a me. Indossando i pattini la superavo di qualche centimetro in altezza, e dovetti inclinare un piede per evitare di scivolare o arretrare a quel contatto, sfruttando l'attrito del freno contro il pavimento.

«Ascoltami» le sussurrai. Non avevo tutta la sicurezza che stavo tentando di dimostrare e che mi rivestiva come una maschera, ma la misi in gioco per tranquillizzare la mia amica. «Siamo ancora in tempo per evitare che quella pazza gli faccia qualcosa, okay?» Mi sentivo inevitabilmente coinvolta, e avrei indossato la paura di Ava come un vestito aderente se ciò fosse servito a toglierne una parte. Potevamo dividercela, se per lei era troppa da gestire. «L'importante è prestarci attenzione. Se c'è anche solo un modo in cui posso aiutare, per favore, dimmelo» la implorai.

La stretta delle sue braccia attorno al mio corpo, che lei rinsaldò, fu come un tacito ringraziamento. «Se potessi anche solo passare una serata con lui e provare a distrarlo...» propose, incerta. Si vedeva che detestava l'idea di rubarmi del tempo, ma per Blake avrei fatto ben di più. «Stasera preferisco lavorare da sola, per non attirare troppo l'attenzione di Nora. Lui non sarà d'accordo, ma voglio che rimanga a casa, e se tu potessi stare insieme a lui sarei molto più tranquilla». Sembrava un invito, ma era una richiesta disperata che io accolsi. Nonostante dovessi presenziare al Kenmore, la mia risposta sarebbe stata "sì". Ava, poi, deglutì, e la gola ebbe un fremito a contatto con la mia spalla nuda. «Ho paura che possa bere» confessò.

«Va bene, Ava, va benissimo» continuai a rassicurarla. Le mie dita si incastrarono nei nodi dei suoi capelli morbidi, carezzandoli, almeno fin quando lei non interruppe l'abbraccio e io potei guardarla in viso. «Dovrei coprire il turno con Lewis, ma posso parlargli. Ormai, se ci scambiamo due parole, è solo per il lavoro» tentai di ironizzare.

Allora mi fissò attonita, gli occhi strabuzzati. Sprizzava punti interrogativi in ogni dove e ne chiarì subito la ragione: «Credevo che ti stessi riposando, dopo quello che è successo ieri sera. Posso capire il fatto di averti trovata qui per svagarti, ma addirittura andare al lavoro, Rylee...» Uscì da lei tutta la natura premurosa del fratello, l'istinto materno che aveva sempre esercitato su di lui. «Non hai bisogno di riprenderti? Ti ha pestata fino allo svenimento» mi riportò alla mente.

Non rammentavo quasi nulla di ciò che era successo. Ricordavo i pugni assestati dalla sua mano inanellata, i tagli sul labbro, la canna gelida della pistola che mi aveva puntato in più punti e il proiettile che aveva sparato a un paio di centimetri da me. Poi avevo visto il buio, le palpebre si erano serrate, ma non era stato solo per il dolore. Protagonista di quel gioco assurdo, degno di un film d'azione, era anche il panico che mi aveva assalita e che si era inerpicato con fare crudele nel mio cervello, tanto che il mio corpo già ferito non aveva più potuto reggerlo.

«Non preoccuparti per me» le dissi, ancora. I gemelli si concentravano tanto sugli altri quanto non lo facevano su loro stessi, e questo li fregava il più delle volte. Mentre gli altri guarivano con il loro aiuto, loro soffrivano nel silenzio. «Al Kenmore non abbiamo chissà quanti clienti, quindi posso lasciare tutto nelle mani di Lewis, per una volta. Devo solo avvisarlo». Abbandonai ufficialmente la mia amica e, scivolando sulle rotelle, mi diressi verso la panca lignea. Mi ci sedetti e mi chinai in avanti per slacciare i pattini pesanti. Non avevo più intenzione di pattinare, perché l'umore che già faticava a essere stabile era evaporato. «Tra poco vado a chiamarlo», la informai, facendo riferimento alla cabina telefonica che avevamo a nostra disposizione appena fuori dall'edificio.

Lei mi raggiunse e, sbuffando per alleviare il nervosismo, si lasciò cadere sulla panca al mio fianco. Appoggiò le spalle al muro, sfruttando quest'ultimo come sostegno, e il suo sguardo si perse nel vuoto. Le lentiggini e le ciglia lunghe contrastavano con la pelle diafana, ancora più chiara alla luce del sole, che non si abbronzava ma si limitava ad accalorarsi, tingendosi d'un rosso adorabile.

Lasciai che i pattini giacessero abbandonati sul suolo e gettai uno sguardo dinanzi a me. I raggi iniziavano ad assumere una sfumatura aranciata, prossimi ad annunciare la sera che seguiva un pomeriggio ormai giunto alle sue ultime ore. Quel giorno ero arrivata più tardi del solito allo Skylite, indecisa se andarci o meno, per poi cedere alla possibilità di distrarmi da tutti i problemi che stavano rendendo quell'estate invivibile.

«Oggi non ti alleni?» sviai la conversazione, che atterrò sull'argomento sport. Ava aveva una gara in vista, che si trattava, per giunta, di una competizione importante. Determinata com'era lei, non avrebbe perso un solo minuto per migliorarsi. Quel giorno, però, pareva svilita.

«Mi è passata la voglia» replicò. Sembrava chiacchierare con il vuoto, con lo spazio che la circondava in cui riverberavano le nostre voci stanche; il suo tono solitamente squillante aveva lasciato il posto a uno monocorde, privo della sua solarità. «Non credo che parteciperò a quella gara. Manca ormai un mese e non posso affrontarla con l'ansia nei confronti di mio fratello. Non darei il meglio di me, che è quello che avrebbe voluto mia madre» sospirò. Un altro luccichio brillò nei suoi occhi, che vidi di sfuggita, ma non si lasciò sfuggire lacrima alcuna.

Non avrei mai osato chiederle se secondo lei quella fosse davvero la decisione giusta, e nemmeno sapevo se Blake ne fosse al corrente, quindi mi limitai ad accettarla. Quella fu l'ennesima dimostrazione del bisogno di Ava di stargli accanto, di non sprecare altro tempo.

Perché forse, nella sua testa, quel tempo non sarebbe neanche bastato. E se la sabbia di una clessidra avesse dovuto esaurirsi, lei avrebbe preferito che fosse quella della sua. Si sarebbe addirittura privata di qualche granello, per regalare l'eternità al suo stesso sangue.

Ignara di come riempire il silenzio che ci divideva, infilai le Converse logore e le allacciai, stringendole alle caviglie. Raddrizzandomi, sciolsi la coda di cavallo e lasciai che le morbide onde castane mi piovessero sulle spalle, per poi sistemare le ciocche della frangia con le dita. Le punte che necessitavano di un taglio mi atterrarono sugli occhi e scossi il capo per liberarmene.

«Va' a chiamare Lewis, non pensare a me» disse, una volta rinsavita. Abbozzò un sorriso, che scavò sulla sua guancia una fossetta identica a quella del fratello, ma non fu così reale da giungerle agli occhi. «È solo una giornata iniziata nel modo sbagliato, ma so che andrà tutto bene» tentò di convincersi. «Deve andare tutto bene», rettificò.

«Così sarà» risposi. Mi alzai dalla panca e lisciai il tessuto dei pantaloncini morbidi con le mani. Poi lanciai un'ultima occhiata alla mia amica, che ora era focalizzata sui pollici che si stava girando in grembo. «Vado a fare questa telefonata e poi andiamo a casa tua. Sei venuta con il pick-up?» le domandai. Ava aveva la patente, ma guidava di rado; forse, nemmeno le piaceva stringere il volante tra le mani.

Scosse il capo in negazione. «Vengo sempre a piedi, lo sai» confermò.

«Allora assisterai alla mia guida spericolata» tentai di farla ridere, munendomi di ironia, e funzionò per una manciata di secondi. «Torno subito, aspettami qui».

Così, congedandola prima di allontanarmi per qualche breve minuto, iniziai a compiere dei passi verso l'uscita dello Skylite. Spinsi il portone che divideva interno ed esterno e, una volta fuori, venni investita dal sole che batteva insistente sull'asfalto e sulla mia pelle, per mia fortuna poco soggetta alle scottature.

La cabina telefonica era a qualche metro da lì, collocata sul perimetro del parcheggio davanti alla struttura. Quindi camminai in quella direzione a passo svelto, e nel mentre estrassi qualche monetina dalla tasca dei pantaloncini. Spendevo più soldi in telefonate che in cibo, ma era fondamentale.

Raggiunsi finalmente il telefono, così inserii gli spiccioli e sentii il loro suono metallico, mentre cadevano nella fessura per regalarmi qualche minuto di chiamata con quello che era stato – e che nella mia testa era ancora, nonostante gli errori – il mio migliore amico. Quindi afferrai la cornetta, la plastica che scottava, e la feci aderire al mio orecchio. Fui svelta a pigiare sui tasti, conoscendo il numero del nostro telefono a memoria, e gli squilli mi sfiorarono i timpani.

Non furono molti. Ne sentii all'incirca un paio, finché Lewis non si degnò di rispondermi. Si schiarì la voce prima di parlare, rauca per un ipotetico riposino pomeridiano, e manifestò la sua confusione.

«Pronto?»

«Lewis, ciao, sono io» lo informai. Parlare con lui stava diventando sempre più difficile, per via della distanza che tra noi aumentava di giorno in giorno. Mi armai però di coraggio, obbligandomi a pronunciare le parole che dovevo dirgli. «Stavi dormendo?»

«No, tranquilla». E subito sospirò, come se conversare con me gli causasse fatica. «È successo qualcosa?»

La preoccupazione che nutriva nei miei confronti non era cambiata di una virgola. Onnipresente, si era palesata anche la sera prima, quando mi ritrovò stesa a terra tra i cassonetti del Kenmore. Fu lui a portarmi al sicuro tra le mura del locale, e a farmi rinsavire dopo minuti passati senza coscienza.

Tutto il resto, ahimè, era andato perduto. Accartocciato come un vecchio foglio, lanciato nel cestino e mischiato ad altri rifiuti destinati a sparire.

Sei stato uno stronzo, ma mi manchi come l'aria, avrei voluto dirgli, perché nel sonno, in quell'ultimo periodo, mi avevano tormentato sogni della nostra infanzia, dei pomeriggi trascorsi insieme sotto i cieli più plumbei, attorniati dai tristi palazzi e dal costante pericolo di Brownsville.

Stetti tuttavia in silenzio. Soffocai quella voglia matta di sopprimere il mio orgoglio e darla vinta all'istinto; le nocche si imbiancarono quando strinsi il pugno attorno alla cornetta rossa, il palmo sudò a contatto con tanto calore.

«No, non è successo niente» lo rassicurai, dopo qualche minuto di silenzio. «Solo che...» tentennai, «c'è stato un imprevisto, e volevo chiederti se stasera riuscissi a coprire il turno da solo».

«Riguarda Blake?» mi domandò nell'immediato, e la sua voce assunse una sfumatura più vicina alla durezza e alla rigidità.

Non ebbi le forze di proferire un netto "sì", così mi limitai a emettere un suono flebile, gutturale, per confermare la sua ipotesi.

«Va bene, non preoccuparti» rispose e, nonostante la rigidità, non sembrò seccato. Ciò mi sollevò, e quasi mi portò a pensare che forse, Lewis, non aveva smesso di esserci per me nel momento del bisogno.

«Grazie» replicai, e liberai l'ossigeno trattenuto con un lungo sospiro di sollievo. «Se hai bisogno di una mano, però, fammelo sapere».

«Vieni a casa, stasera?» mi domandò ancora.

«Voglio prima capire come sta Blake, perché da ieri sera si sono susseguiti solo dei problemi e non voglio lasciarlo da solo» spiegai.

«Solo... non tornare a casa da sola, se resti fino a tardi», fu la sua richiesta.

«Stai tranquillo, Lewis». La sua paura mi fece perdere in un risolino dolce, e fu la prima volta in cui, nelle ultime settimane, riuscii a ridere con lui. Ma avrei voluto quasi piangere, esplodere in lacrime salate, perché mi mancava farlo di frequente. Stupida nostalgia. «Blake non si farà problemi ad accompagnarmi» lo rassicurai.

«Ci vediamo, allora» iniziò a liquidarmi.

«Ci vediamo» ripetei, e lo congedai riattaccando la cornetta al telefono.

Mi lasciai la cabina telefonica alle spalle e, a passo svelto, mi fiondai all'ingresso dello Skylite per recuperare Ava. Tirai il portone verso di me ed entrai, sfuggendo alla calura estiva, e una volta dentro fui travolta dal silenzio desertico che vi regnava sovrano.

La mia amica non era più seduta sulla panca, ma il suo borsone giaceva solitario a qualche metro dai miei pattini. Pista vuota, dintorni anche; decisi, quindi, di prendere la direzione opposta e recarmi negli spogliatoi. Percorsi tutto il corridoio che mi congiungeva con quello femminile, e non feci in tempo a spalmare un palmo sulla porta per spingere quest'ultima, che una serie di singhiozzi mi giunse alle orecchie.

Subito l'ansia mi divorò le viscere. Allo Skylite, quel tardo pomeriggio, c'eravamo solo io e Ava e la voce era inconfondibilmente la sua. Avevo paura di vedere ciò che si celava dietro quell'uscio: la ragazza, nel poco tempo che avevo vissuto a Worcester, non si era mai disperata tanto. O, perlomeno, non davanti ai miei occhi. Era solita limitare la sofferenza alle espressioni del viso che le sfuggivano, e mai a esternarlo.

Eppure, quel giorno, qualcosa in lei si ruppe in via definitiva.

Mi fiondai all'interno dello spogliatoio vuoto e la trovai sola, sconquassata dal pianto dinanzi a uno specchio scheggiato, e l'intensità di un urlo liberatorio la portò a schiaffare i palmi sulla ceramica del lavandino davanti a cui sostava.

Accorsi a lei. Con tutta la forza d'animo rimastami in corpo, mi piazzai dinanzi ai suoi occhi lucidi, alle gote umide, alla bocca arrossata e singhiozzante. Mi dovetti armare di coraggio per non cedere a un eccesso di empatia, soprattutto quando lei, mettendomi a fuoco, si lanciò su di me per stringermi in un abbraccio tanto agognato.

«Ava, che ti prende?» le sussurrai. Ero smossa dall'allarmismo, ma lo soppressi per non palesarlo. «Che succede?»

Respirava a fatica. I polmoni si gonfiavano e sgonfiavano celeri, premevano contro il mio petto colliso con il suo, e ansimava cercando le parole che, però, non riuscì a trovare subito.

«Ho paura». A quella frase, la sua stretta si fece più salda. «S-Se Blake dovesse perdersi un'altra volta...» balbettò, «se dovesse succedere... Non riuscirebbe a uscirne ancora, non è abbastanza forte, Rylee, non ce la fa». Le sue negazioni si susseguirono a raffica, una dopo l'altra, interrotte solo dalle prese di fiato che, di tanto in tanto, si concedeva.

Sapevo riconoscere gli attacchi di panico, e Ava ne stava avendo uno bello e buono, legato a un grande trauma del passato. La capivo, la compativo, e quell'abbraccio che mi aveva dato immediatamente non le permetteva di respirare nella giusta maniera. Quindi, a malincuore, la separai da me e le tenni le mani tremanti.

«Ava» la richiamai, nel disperato tentativo di riportarla con i piedi per terra. «Guardami» le suggerii, dolce, mentre concatenavo il mio sguardo con il suo. «Respira» continuai a istruirla, e presi dei lenti respiri nella speranza di farla adattare al mio ritmo calmo. Solo così poteva far smettere al suo cuore di battere all'impazzata, mangiato dall'ansia. Lei socchiuse le palpebre e iniziò a regolarizzare il fiato, fin quando quest'ultimo non si normalizzò. «Tuo fratello sta bene e starà bene. Non gli succederà niente, okay? Ti aiuterò a stargli accanto, stai tranquilla» le sussurrai. «Ti fidi di me, vero?» le chiesi, e chiusi le mani a coppa sulle sue guance. Strofinai i pollici per spazzare via quella valle di lacrime, e sperai che il mio gesto amichevole potesse rilassarla.

Non fece altro che annuire con il capo. Così le sfiorai le rime cigliari, e le goccioline salate mi scesero giù per le dita; la mia pelle, ora, custodiva gelosamente il dolore e la paura da cui volevo liberarla.

«Adesso andiamo a casa, così cerco di parlargli e di tranquillizzarlo» continuai. «Non sei più da sola contro i suoi demoni, hai capito? Non sei sola» sottolineai, scandendo bene le mie ultime parole. «Dai, lui non vorrebbe vederti piangere» la incoraggiai. «E sei più bella quando non lo fai» aggiunsi sorridendole.

La nascita del suo sorriso fu inaspettata, anche se era una felicità spenta, forse forzata, che lei mi concesse solo per non farmi agitare. Quello, tuttavia, fu una tacita dimostrazione di gratitudine che mi scaldò il cuore.

«Adesso possiamo andare a casa o vuoi rimanere ancora per un po'?» mi chiese, e tentennò per qualche secondo.

«Il tempo di prendere le cose che abbiamo lasciato in pista e partiamo, non preoccuparti» replicai. Le lasciai le mani, e mossi qualche passo flemmatico verso l'uscita dello spogliatoio. «Andiamo?» la invitai.

Lei, catapultandosi fuori dal suo stato di trance, si decise a seguirmi e insieme varcammo la soglia, intente a tornare nella parte principale dell'edificio.

Non parlammo, mentre eravamo impegnate a raccogliere le nostre cose. Misi i pattini nella loro sacca e badai a non rovinarli, vecchi com'erano, e Ava si fece carico del suo borsone che nemmeno aveva aperto, quel giorno. Nonostante il suo mutismo, però, la mia amica sembrava sollevata rispetto a pochi minuti prima, complice la mia disponibilità nell'aiutarla il più possibile.

Quando ci recammo finalmente all'uscita, venimmo inondate da un sole ancora più aranciato, a segnare un principio di tramonto, tipico delle giornate appena più brevi di fine luglio. L'estate stava volgendo al termine, e in cuor mio sperai che ciò non portasse solo ulteriori problemi.

Ava conosceva la mia auto, così vi si diresse nell'immediato. Quel catorcio di lamiere graffiate, carrozzeria rovinata e tappezzeria logora era il mio fidato bolide da quando avevo ricevuto la patente, e sì, aveva fatto i capricci, ma non mi aveva mai abbandonata.

Feci scattare la portiera del posto di guida ed entrai, lanciando la sacca dei pattini sui sedili posteriori. Sbloccai anche quella del passeggero, e Ava, replicando i miei movimenti, si sistemò al mio fianco.

Misi quindi in moto il veicolo, e l'abitacolo si riempì di una melodia allegra e sconosciuta emessa dall'autoradio. Il volume basso faceva da perfetto sottofondo, soprattutto quando mi immisi sulla carreggiata, guidata da Ava per non sbagliare strada.

«Non so che cosa consigliarti di fare», fu l'interruzione attuata dal suo flusso di coscienza.

«Che intendi?» la interrogai, concentrata sull'asfalto bollente che scorreva dinanzi ai miei occhi.

«Che Blake, quando c'è lei, cambia completamente» sospirò. «E io non so mai come comportarmi, né cosa aspettarmi».

Stretta salda attorno al volante ustionante, nocche bianche, un respiro che mozzai.

Non volevo conoscere un Blake diverso da quello dolce e premuroso, che aveva preso una strada più lunga pur di farmi riposare dopo notti insonni e che si preoccupava per me sotto ogni punto di vista, senza chiedere nulla in cambio.

Mi era impossibile dimenticare quell'immagine perfetta, oltremodo idilliaca e pressoché onirica che era stata effigiata nella mia mente.

Ma più ci avvicinavamo al quartiere dove abitavano i gemelli, e più sentivo lo stomaco in subbuglio. Un soqquadro animato dal terrore nei confronti del cambiamento che proprio non sapevo accettare.

Forse, però, avrei dovuto ascoltare Ava e addirittura me stessa: una flebile e remota voce del mio cervello mi ripeteva, per mezzo di una vocina fastidiosa e onnipresente, che quello sarebbe stato solo l'inizio di una ripida discesa.

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