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By zaystories_

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! TW: violenza, abuso sessuale, morte/omicidio, dipendenze, disturbi psichici, aborto, autolesionismo. «Non m... More

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Informazioni e TW
Playlist
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
EXTRA - La lettera di Nate Cross
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30 (pt. I)
Capitolo 30 (pt. II)
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
EXTRA - Ava
Capitolo 37
Capitolo 38
EXTRA - Nora (pt. I)
EXTRA - Nora (pt. II)
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
EXTRA - Lewis
Capitolo 44
EXTRA - Dom
Capitolo 45
Capitolo 46
EXTRA - Lydia
Capitolo 47
Epilogo
Ringraziamenti
Tematiche trattate
Notizia importante!
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Capitolo 27

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By zaystories_

Blake

La mattina successiva a quella notte tediosa fui risvegliato dai caldi raggi solari che, insistenti, battevano sul parabrezza del pick-up e iniziavano a intiepidire l'abitacolo. Così, la prima cosa che feci fu allungare appena il braccio per abbassare il finestrino tramite la manovella.

Non sapevo che ora fosse, ma l'alba era sicuramente già passata da un po'. Il silenzio, tuttavia, era il solo protagonista: quell'area di Worcester taceva e godeva di un'inconsueta tranquillità.

Rylee stava ancora dormendo seduta sulle mie gambe. Con il capo adagiato sulla mia spalla, i capelli arruffati e le mie braccia a cingerle dolcemente la vita sotto la coperta, era riuscita a riposarsi dopo tre lunghe notti insonni. Accorgendomi della prima calura della giornata, però, la liberai subito del plaid, che abbandonai stropicciato sui sedili posteriori. Lei si mosse come se avesse percepito quel cambiamento repentino, ma non aprì gli occhi. Era ancora appisolata, con la serenità dipinta in volto e i respiri lenti, cheti rispetto a quelli delle ore precedenti. Dormiva con le labbra appena schiuse, rosee e piene, che indirizzavano il fiato caldo sul mio collo. Io, dal canto mio, non potei fare a meno di continuare a stringerla a me.

Non mi sarei privato della vicinanza dei nostri corpi neanche sotto tortura.

Era presto per affermare con certezza che quella ragazza mi stesse mandando in cortocircuito il cervello, impedendo il corretto funzionamento del mio senno, ma la mia mente, in fondo, se ne rendeva già conto. Anch'io, riservandole delicate carezze e rassicurazioni, ero riuscito a stare meglio con me stesso. Il modo in cui la nostra situazione si era evoluta stava cancellando ogni mia paura, rimpiazzandola con vere e proprie fonti di forza.

L'istinto più potente che mi ero imposto di seguire era quello di prendermi cura di lei, anche badando alle piccolezze.

Quel giorno, infatti, non la svegliai per farla arrivare in tempo al lavoro. Era una scelta moralmente scorretta, perché il turno mattutino al Kenmore spettava a lei e parecchi lavoratori gradivano le sue colazioni per pochi spiccioli, ma in quelle ore la tavola calda si limitava a essere un locale buio e silenzioso, privo della sua presenza. Ero consapevole delle ipotetiche conseguenze, ma lei necessitava del sano riposo che le stavo concedendo; era fondamentale per far sì che riprendesse in mano la sua vita, dopo tutto quello che stava accadendo fra noi.

Tutti quei pensieri affollarono la mia mente, stimolati dal silenzio circostante. In lontananza, solo il rombo delle auto che sfrecciavano sulla sopraelevata che gettava ombre su quel piccolo agglomerato di palazzine. Ancora assonnato e appesantito dalle riflessioni, quindi, socchiusi le palpebre e lasciai ciondolare il capo; la mia guancia entrò a contatto con il capo di Rylee. Il sole mi cullò con i suoi raggi e io approfittai della quiete di mezza estate.

La tranquillità, però, non durò a lungo. Fu interrotta da un bussare cadenzato e seccante, che mi fece riaprire gli occhi. Nel mio campo visivo fece capolino la figura di Lewis, con un'espressione sul viso tanto neutra da spaventarmi, che colpiva ripetutamente il parabrezza in cerca di attenzioni. Quando le ottenne, infatti, smise seduta stante. Ciò che non cessò di fare fu guardarmi.

La sua persona iniziava a non andarmi a genio. Stando al racconto di Rylee di due giorni prima, lui aveva agito impulsivamente per la sua gelosia e stava per percuoterla, e io non potevo accettare un trattamento così egoista nei confronti della ragazza che stavo stringendo contro il mio corpo.

«Dovrebbe andare al lavoro» esalò all'improvviso quando si accorse delle mie attenzioni, e additò la sua vecchia amica. «Anzi, dovrebbe essere là già da un po'» precisò saccente.

«Era stanca», la giustificai. Cercai di non cedere a un accenno d'ira che rimontava in me e gli risposi con la massima calma. Con un movimento che non la disturbasse, poi, le sistemai le gambe per farle assumere una posizione più comoda. «Lo sai che ultimamente non sta dormendo bene, vero?» lo interrogai.

Lui scosse il capo in segno di negazione. Ignorava il suo stato d'animo e questo mi fece capire quanto lui la stesse evitando, in seguito alla discussione. «Non ne sapevo nulla», ammutolì per un istante. Si guardò intorno e perlustrò il vasto parcheggio, forse poco volenteroso di instaurare uno scambio di sguardi con il sottoscritto, poi riportò la sua attenzione su di me. «Resta il fatto che dovrebbe lavorare, qualsiasi cosa succeda. Il turno della mattina spetta a lei». Con quell'affermazione, si rimise in riga dopo una lieve dimostrazione di vulnerabilità indesiderata.

«Lewis» mi infiltrai, con il tono che assunse durezza. La mia interruzione lo fece accigliare. «Ha passato una notte infernale. Mi ha chiamato dopo un incubo e non so nemmeno cos'abbia sognato, ma stava male. Preoccuparti avrebbe dovuto essere il tuo compito, prima ancora di essere il mio, dato che la conosci da sempre» puntualizzai. «Per favore», lo implorai, «lasciala riposare».

«Tu la stai sottraendo ai suoi obblighi», obiettò. Anche lui iniziò ad adirarsi e assottigliò lo sguardo, gli occhi ora ridotti a due fessure. «Le fai saltare gli allenamenti e ieri sera l'hai portata tardi al lavoro, Blake» inveì. «Se avesse davvero dei problemi che mi riguardano da vicino, me lo direbbe».

«Lei non ha molto da dirti», mi opposi alle sue dichiarazioni. «Dal momento che le stavi addirittura mettendo le mani addosso» aggiunsi. Sfruttai quell'informazione a mio vantaggio, appoggiandomi alla veridicità delle parole di Rylee.

«Non dire stronzate, non mi conosci nemmeno» replicò, iroso. «Non le alzerei mai le mani».

«Sono state le sue parole», feci spallucce.

«Allora i miei complimenti, ti sei innamorato di una fottuta bugiarda», sputò.

Quelle critiche fecero divampare un incendio distruttivo in me, tale da ridurre in cenere ogni briciolo di autocontrollo. La tensione dei miei muscoli mi portò ad aumentare la presa sulla vita di Rylee che, infastidita, si mosse appena nel sonno ormai alleggerito dalle chiacchiere in sottofondo.

«Io mi fido di ciò che mi ha detto lei», lo rimbeccai, «e non di te». La ragazza che reggevo in grembo emise un lamento, e strinse le sue braccia attorno al mio collo per accoccolarsi e stare più comoda. «Hey, tranquilla...» le sussurrai, portando la mia attenzione su di lei.

«Che ore sono...?» Il suo biascicamento risuonò adorabile al mio orecchio, e abbozzai un impercettibile sorriso causa di tanta dolcezza.

Gettai un'occhiata all'orologio allacciato intorno al mio polso, i cui puntini centrali lampeggiavano fra i numeri.

«Le dieci e un quarto» la informai.

Allarmata, rizzò la spina dorsale e sgranò gli occhi ora incollati al mio viso. Quelle iridi scure poste sopra le guance rosee riuscivano a rendere tenera anche la sua espressione preoccupata.

«Blake...» esordì. Voleva sicuramente rimproverarmi per non averla destata, quindi mi obbligai a fermarla.

«Lo so», la precedetti. «Ma era necessario che tu ti riposassi un po'. Riposarti per davvero, intendo».

«Sì, ma...» cercò di obiettare.

«Rylee, non ora» la interruppi, e alzai appena la mano per indicare il suo amico che sostava ancora appoggiato al mio pick-up.

Quando si voltò, i suoi crucci tramutarono in un'evidente seccatura. Di tutti i suoi desideri, la presenza di Lewis era l'ultimo della lista; forse, secondo una verità per lei inconfessabile, non avrebbe neanche voluto vederlo lì.

«Ciao» proferì incerta e, lenta, spezzò il contatto delle sue dita con il mio corpo. Si raddrizzò per guardarlo meglio, e io soffrii subito per la grave mancanza da lei lasciata. Il profilo della sua gola fu scosso da un movimento quando ingerì il groppo delle sue titubanze. «C-Che ci fai qui?»

«Sono sceso per buttare la spazzatura, ho visto il Kenmore chiuso e poi ti ho trovata qui» rispose lui, e additò la ragazza, «a comportarti da troia, invece di lavorare».

«Lewis», pronunciai a denti stretti.

«Rylee, tutto questo ti sta dando alla testa» continuò imperterrito, ma lei non si interessò a rispondergli.

«Lewis, smettila», e strinsi i pugni fino a rendere bianche le mie nocche. «Ti ho detto che non stava bene» mi accanii.

«Hey» esalò lei, imprigionata in quello scambio d'ira. Incastrata fra due entità che si stavano scontrando sfoderando l'arma più pericolosa di tutte - le parole -, si ritrovò costretta a intromettersi per smorzare la tensione, e quindi prese la parola, con gli occhi concentrati su di me. La sua mano atterrò morbida sul mio petto, come a calmare il cuore i cui battiti iniziavano ad accelerare per la furia. «Stai tranquillo», mi rassicurò, «non preoccuparti».

«Allora?» insistette Lewis, che ora tamburellava le dita sulla carrozzeria scura del veicolo. «Hai intenzione di aprire il locale o vuoi perdere altro tempo?»

Il sole stava iniziando a battere sull'asfalto e l'afa, di conseguenza, si stava sollevando dalla strada, inondando il quartiere. L'abitacolo stava diventando fin troppo stretto per accogliere me e Rylee senza farci soffocare, così feci scattare la portiera e la aprii verso l'esterno, favorendo il passaggio di una brezza pressoché inesistente ma tanto desiderata.

La ragazza, per la seconda volta, spezzò il contatto che ci univa e si voltò verso il biondo che sostava all'esterno. Lo guardò per un caduco istante, ma quei decimi di secondo non bastarono ad ammorbidire l'espressione che regnava sul volto dell'amico.

«Lewis» cominciò, munendosi di una calma e una pazienza di cui io non compresi l'origine. Come poteva agire così serenamente dinanzi a colui che le impartiva ordini come se lei avesse dovuto obbedirvi a priori? «Mi dispiace. Mi devi veramente scusare», si mortificò. «Ma stanotte non ho dormito granché» aggiunse, e i suoi occhi scuri non smisero di scrutarlo. Lui, dal canto suo, era portatore di un'espressione colma di vacuità. «E va avanti così da qualche giorno, ormai. Ti chiedo solo di capire» lo implorò. Con l'aiuto della forza delle sue braccia, si sorresse e scese dal veicolo, ritrovandosi faccia a faccia con il suo interlocutore. Non ebbe paura di guardarlo negli occhi, né tantomeno esitò nell'affrontarlo nonostante la fatica che la prostrava. «Domani posso coprire anche il tuo turno, se questo può sistemare le cose» si offrì.

Mi risultava difficile comprendere il motivo di tanta bontà nei confronti del biondo che, muto, la osservava e ascoltava le sue scuse. Ogni frase che quella mattina era uscita dalla sua bocca aveva simboleggiato una cattiveria indirizzata a noi e alla nostra situazione.

Diventò arduo anche il mantenimento del mio autocontrollo. Nervoso e adirato al contempo, intrecciai le dita per concentrare su di loro quell'immenso quantitativo di tensione. Era un'ira che ribolliva, ma che si rifiutava di palesarsi: parte del mio cervello, infatti, non voleva ricadere nella profondità della rabbia pericolosa che mi aveva divorato durante l'intero periodo dell'alcolismo.

Fui tuttavia accecato dall'obbligo morale di proteggere Rylee e di schermarla dalle infamie dell'amico che, congelato su due piedi, stazionava dinanzi a lei senza replicare. Pareva fatto di pietra, freddo come il marmo in una giornata d'inverno. Mosso da quell'impulso, fui costretto a uscire dal veicolo per affiancare la ragazza e farle percepire a pieno la mia presenza in quello scontro passivo.

«C'è una cosa che non capisco, Rylee» dichiarò solenne. «Ti stai allontanando da tutto. Da me, dalle tue responsabilità. Non ti riconosco più».

«Sto cercando di lasciarmi andare e di essere felice, una volta tanto». Issò il tono, lo indurì e assottigliò lo sguardo. «Ma ti posso assicurare che quella che hai davanti è sempre la stessa persona».

«No, ti sbagli», rise amaro. «Quella che ho davanti è una puttana che ha iniziato a farsela con gente poco raccomandabile» sputò.

Lei sgranò gli occhi, la dimensione delle sclere raddoppiò. Incassò il colpo senza gemere per il dolore inferto, ma lo sconvolgimento le ornava il volto e non ci fu modo di celare il guizzo dei suoi muscoli tesi. Stava bruciando di furia, ma non voleva rischiare di incendiare il ragazzo che stava inveendo contro di lei.

«Non azzardarti a darle un'altra volta della troia, Lewis» pronunciai, la voce grave per la mascella serrata, che mi impediva di parlare chiaramente, ma nel frattempo mi garantiva il controllo sui miei istinti animaleschi. Un lento passo in avanti, una ventina di centimetri guadagnati. Torreggiavo sulla sua chioma bionda e sugli occhiali adagiati sul naso, e lo studiai dall'alto con le braccia conserte. «Non provarci».

Sbatté un pugno sul mio petto e serrò le dita attorno al tessuto della mia maglietta, che assunse delle pieghe disordinate, e mi strattonò per farmi coprire gli ultimi sprazzi di distanza che ci dividevano. Tra le palpebre semichiuse a formare due fessure, scorsi tutta l'iracondia che gli dipingeva le iridi e gli infuocava l'espressione. «Taci, pezzo di merda» sbottò. «È colpa tua se siamo in questa situazione».

All'improvviso, la nostra vicinanza fu spezzata. Mi ritrovai con la schiena aderente alla carrozzeria calda del pick-up, con Lewis distante almeno un metro da me. La rabbia lasciò il posto al disorientamento sul volto di entrambi, confusi nel cercare di capire cosa fosse successo, prima di renderci conto dell'intervento repentino di Rylee.

«Cristo, troppo testosterone» ironizzò, dura. Ci studiò entrambi, con le pupille che ci concepivano come due calamite: prima su di me, poi sul biondo, per poi atterrare di nuovo sulla mia persona. «Calmatevi» ci intimò. «Blake», e accompagnò il mio nome con un cenno del capo, indicante il veicolo alle mie spalle, «sali in macchina» ordinò.

Fui impotente, vittima della legge che dettò, e potei solo piegarmi al suo volere per non peggiorare la tensione che aleggiava mischiata all'afa estiva. Così, obbligai il mio corpo pesante a montare sul pick-up e a occupare il posto dinanzi al volante.

«Tu sei fuori di testa» continuò imperterrita, ora guardando Lewis. E da quell'insieme di vocaboli che avrebbe potuto significare qualsiasi cosa, evinsi la sua intenzione di prendere le mie parti. «Ne ho fin sopra i capelli di questa storia, ora basta» decretò. «Domani copro tutti i turni», sentenziò, «e non voglio sentire nessuna lamentela da parte tua».

«Andate al diavolo, tutti e due» ringhiò in tutta risposta. «Goditi questa luna di miele finché durerà, Rylee, ma non venire a piangere da me quando ti si ritorcerà contro».

Non aspettò alcun tipo di reazione dalla ragazza. Girò sui tacchi e, dopo una decina di passi, sparì nell'androne del palazzo e risalì lesto i gradini. Alla sua sparizione, fu per me spontaneo rilasciare un sospiro intriso dello stress accumulato in quella che poteva essere una sola mezz'ora di discussione. Furono i trenta minuti più lunghi e insopportabili della mia vita.

Approfittai di quel silenzio per far slittare in avanti il sedile grazie alla levetta sottostante, e accorciare la distanza tra me e il volante. Non riuscii a proferire un singolo lemma, né tantomeno a concepire un'ipotetica conversazione nel mio cervello.

Avevo solo una certezza: io, a Lewis, non sarei mai piaciuto e non ne comprendevo il motivo. Lui ignorava tutti i problemi che avevo avuto in passato e, anche se li avesse conosciuti nei minimi dettagli, nessuno di questi avrebbe potuto rendere negativa la sua opinione di me. Tra le possibili ragioni, quindi, rimaneva solo quella legata a un attaccamento morboso e una gelosia malata.

Rylee salì sul veicolo, in cui la temperatura non cessò di salire. I gradi si accumularono e l'umidità divenne palpabile, ma quello diventò il minore dei problemi. A nessuno dei due parve importare. Chiuse la portiera, che emise un tonfo assordante, e si lasciò cadere sullo schienale. Con la coda dell'occhio vidi il suo petto sgonfiarsi, un lungo respiro accarezzarle le labbra socchiuse che avrei solo voluto baciare per riprendermi da quella discussione indesiderata e inaspettata.

«Andiamo al poligono». Quella che proferì non fu una semplice proposta, ma una decisione che prese senza girarci intorno e che mi lasciò esterrefatto. Non mi voltai per guardarla, o avrei corso il rischio di afferrarle il viso tra le mani e unire le nostre bocche fino allo sfinimento, ma fissai, attonito, la strada che si estendeva dinanzi a me.

«A-Al poligono...? Sei sicura?» le chiesi incerto. La sua determinazione cozzava contro tutte le forme più disparate della mia insicurezza.

Ora che conoscevo ciò che celava dietro i suoi occhi scuri sempre colmi di gioia e i sorrisi degni dell'ingenuità di una bambina, faticavo a figurarla, nei meandri della mia mente, mentre reggeva un'arma da fuoco puntata a un bersaglio. La sua scelta, così improvvisa, mi mandò in confusione.

«Sì, Blake, al poligono. Voglio che tu mi insegni a sfogarmi come si deve».

Alzai le mani in segno di resa, per poi abbassarle e serrare le dita attorno alla pelle consumata che fasciava il volante. Le chiavi del pick-up, durante la notte che avevamo trascorso insieme, non erano mai state rimosse dal loro vano e, con un gesto celere, misi in moto il veicolo che si azionò con un rombo. «Agli ordini, capo. Ma non ti nasconderò che mi stai spaventando» scherzai, e risi nella speranza di alleviare l'agitazione che soggiornava nel suo animo.

Spinsi sull'acceleratore e lasciammo la sua palazzina alle nostre spalle. Imboccai, dopo un incrocio, una delle strade principali di Worcester, che risaliva fino ai margini della cittadina dove, in una zona dal silenzio desertico, si ergeva il poligono dei Mitchell.

«Mi dispiace» esalò, senza premurarsi di rispondere alla mia battuta. «Non so cosa gli sia preso. Mi sta facendo impazzire».

«Posso farti una domanda?» Sguardo fermo sulla carreggiata, i miei dubbi presero voce in automatico.

La vidi annuire attraverso il suo riflesso nello specchietto retrovisore.

«Tutto questo è per gelosia?»

«Gli piaccio», confessò. La risata che emise, spenta e finta, fu solo una dimostrazione della sua incredulità. «Trai le tue conclusioni».

Sembrò che il senso di fastidio radicato in me avesse sostituito il sangue per scorrermi in tutte le vene del corpo. Strinsi forte il volante e le nocche diventarono bianche a vista d'occhio; la pelle strideva contro quel materiale sintetico e i palmi sudavano per l'intensità della presa.

Rylee si accorse di quella reazione impossibile da mascherare e si voltò appena sul sedile. I suoi occhi attenti indagarono sul mio viso, che sperai assumesse l'espressione più neutra di cui ero capace, mentre alle sue spalle scorrevano indefiniti tutti gli edifici della piccola Worcester.

Smisi di pensarci quando la sua mano arrivò a sfiorare il dorso della mia. Ciò scaturì un brivido che mi scosse la spina dorsale, seminando un campo di pelle d'oca ben visibile.

«Stai tranquillo», fu la sua ennesima rassicurazione. «A me, di questo, non importa».

«Odio il suo atteggiamento. Mi dà sui nervi» ammisi. «Crede che ti porterò sulla cattiva strada e nemmeno mi conosce».

Lei non fece in tempo a replicare, perché giungemmo dinanzi al poligono. Fermai il pick-up una volta raggiunto il parcheggio sterrato, il cui terreno si produsse in una polvere fastidiosa al mio passaggio, ed estrassi le chiavi. Quando Rylee notò che mi stavo apprestando a scendere dal veicolo, poi, compì dei movimenti identici e l'unico rumore presente fra noi fu quello delle portiere chiuse.

Aggirai la vettura e mi avvicinai a lei, incapace di starle lontano perché annebbiato dall'immagine di noi, a dormire insieme, stretti in un abbraccio protratto per ore. La sua presenza nella mia vita stava diventando magnetica. Non potevo fare a meno di carezzarle ogni lembo di pelle, di sentirla fisicamente vicina, e allo stesso tempo non potevo negare a me stesso il beneficio della forte intesa che si era venuta a creare fra noi.

Eravamo entità duplici, che ragionavano per mezzo di corpo e mente. Né con uno e né con l'altra, però, ci sentivamo in grado di mantenere una tangibile distanza fra noi. Ci chiamavano; nella testa di entrambi, i nostri nomi si ripetevano in un'eco infinita.

«Beh, benvenuta nel mio regno» proclamai teatralmente. Le circondai le spalle con un braccio e abbozzai un sorriso, che, con mia sorpresa, fu la causa anche del suo. «Un regno un po' decadente, ma di cui sono comunque il sovrano».

La mano libera perlustrò le mie tasche in cerca della chiave che aprisse la porta dell'edificio, e, quando la trovai, feci scattare la serratura per poi spingere la porta verso l'interno. Tra le mura spesse della struttura, la calura creava uno spesso strato di insopportabilità, ma la presenza della ragazza che vi accolsi riuscì a rendere accettabili anche le seccature.

La prima stanza che vide fu l'ufficio, che si apriva dinanzi alla porta d'ingresso. Si guardò intorno incuriosita dalla grande foto di famiglia incorniciata e appesa alla parete di fondo, e poi fece saettare le pupille fino alle poche coppe esposte, premi di competizioni vinte da me, mio padre e mio nonno quando ancora la mia vita godeva di un andamento pressoché normale.

Quando ancora non ero comandato dalle paure, dall'alcol, da Nora e dal terrore di perdermi nella soffocante unione di tutto ciò.

«Allora» esordii, pregando che il mio tentativo di parlare supplisse i pensieri. La liberai dall'abbraccio, così che lei potesse vagare e studiare l'ambiente circostante. «Questa è di gran lunga la parte più noiosa del mio impero».

«Non era un regno?» si intromise, e, per la prima volta in quella mattinata, rise di puro gusto.

«Regno, impero... Che differenza fa?» ridacchiai anch'io. «Ma il divertimento comincia dietro questa porta...» proferii. Mi avvicinai all'uscio che ci collegava alla zona adibita al tiro e lo spalancai. «Dopo di te, sventurata».

Flemmatica, si addentrò. I suoi occhi studiarono ogni particolare di quella stanza, ben più grande dell'ufficio, e curiosarono in tutti gli angoli. La vidi mentre si focalizzava sulle carabine esposte, appoggiate sui gancetti di plastica affissi alle pareti bianche, e sulle pistole che giacevano sulle superfici delle postazioni. Ammirò i bersagli distanti, alcuni più forati di altri, finché non si voltò verso di me.

«E quindi, Mitchell, parte della tua vita la passi qui...» proferì, e sul suo volto si dipinse un sorriso. Compì dei passi nella mia direzione, il suo gesticolare pressoché teatrale. «Sono curiosa di imparare sul serio. Hai detto che è liberatorio... dimostramelo». Trattenne un risolino divertito, causa della sfida scherzosa che mi lanciò. Le braccia conserte, lo sguardo fisso sul mio viso: quella combinazione mi trafisse in pieno il petto.

Amai lo scambio di battute che si instaurò, tanto da abbozzare un sorriso per il diletto. «Ti do l'opportunità di scegliere» sentenziai. «Carabina o pistola?»

In attesa della sua risposta, mi distaccai dall'attenzione che proveniva dalle sue pupille perforanti e sfilai dinanzi alle postazioni di tiro.

«Carabina» dichiarò decisa. «Così potrò dire di averle provate entrambe», e io colsi il riferimento alla prima sera in cui si era presentata al luna park. La notte dei nostri primi sfioramenti.

«Carabina sia, allora». Il sorriso che non smetteva di campeggiare sulle mie labbra si ampliò, consapevole di essere pronto ad affidarle l'arma che ritenevo un'estensione di me. I movimenti un po' più lesti, la concentrazione un po' più puntata al mio obiettivo: sollevandolo con le mani, prelevai il fucile dal suo supporto e sorressi il suo peso. L'incisione che recitava il mio nome in corsivo brillava sotto i raggi solari, che penetravano dalle piccole finestrelle e mi seguirono nel riavvicinarmi a Rylee. «Questa è la mia personale, trattala a dovere» mi raccomandai. Lei spalancò un palmo dinanzi ai miei occhi, e io scossi il capo, che ancora palesava un ghigno. «Con due mani, signorina. È pesante» le indicai.

Un'altra cinquina di dita si aprì davanti ai miei occhi. «Non perdere tempo», mi ammonì. Quando ricevette l'arma, le sue falangi si chiusero attorno a essa: un gruppo sulla canna metallica, l'altro intorno al calcio.

«Scegli una postazione», le dissi.

Lei non indugiò. Spedita, imboccò la via verso il bersaglio più vicino, e si piazzò nel punto che le concedeva di tenere la giusta distanza da esso.

Decisi di avvicinarmi senza attendere una sua esplicita richiesta. Dopo pochi passi, mi ritrovai a torreggiare su di lei; il mio petto fu contro la schiena e le onde disegnate dai suoi capelli mi sfiorarono il collo.

Sollevò il fucile e puntò la canna di quest'ultimo al bersaglio. La immaginai strizzare un occhio, rendere salda la presa attorno al calcio, lambire il grilletto nell'attesa di premerlo e liberare il colpo nell'aria. E, figurandomela, non riuscii a privarmi dei nostri contatti improvvisi e inaspettati, tanto che, con una scusa, mi concessi di carezzarle le spalle. Lei, ignara delle mie intenzioni, trasalì e un piccolo respiro le si mozzò in gola.

«Non alzare le spalle», la istruii. «Ricorda: la postura è tutto. Se il corpo è nella giusta posizione, è più facile fare centro». Le mie parole furono pronunciate in un sussurro roco, con il fiato che le sfiorò l'orecchio. Altro errore non voluto, altra regola da impartire: i miei palmi viaggiarono lenti lungo le sue braccia nude e raggiunsero le sue mani, intente a stringere il calcio ligneo. «La presa dev'essere salda, altrimenti l'arma trema».

Nel silenzio, udii i suoi tentativi di prendere fiato, che si rincorrevano celeri e si spezzavano a metà come ramoscelli fragili. Ansava e non voleva metterlo in luce.

«Regola i respiri» continuai. Il tono di voce calò ancora, riducendosi a una serie di consigli riservati a lei e a lei soltanto. Provò a rallentare il ritmo con cui il suo petto si alzava e si abbassava, e dopo qualche secondo parve raggiungere la sua massima flemma. «Capisco che a primo impatto la carabina possa sembrare pesante e difficile da gestire, quindi, se vuoi una mano...»

Mi permise di scorgere il solo cenno del capo che fece per annuire, accogliendo e accettando il mio ausilio. La mia mano destra si modellò secondo la posizione della sua, il mio dito raggiunse il suo sul grilletto.

«Allinea il mirino con il centro del bersaglio» proseguii.

«Ci sono», sussurrò.

Il colpo esplose nell'aria e seguì le uniche due parole che spiccicò durante quella lezione improvvisata. Il pallino andò a infilarsi nell'area del bersaglio più vicina al punto centrale, a segnare gli otto punti guadagnati per il tiro da dieci metri di distanza.

«Molto meglio rispetto a quella sera al luna park», commentai. «Otto punti su dieci... sono piacevolmente sorpreso». Con un movimento della mano che si spostò in avanti, poi, abbassai il fucile e lo feci aderire alla superficie che ci divideva dall'area dei bersagli. La carabina disponeva ancora di alcuni colpi, ma la mia mente era ottenebrata dall'agitazione accumulata nella mattinata e l'unico modo di tenerla a bada era soddisfare i miei istinti. Quindi, accecato dall'impulso e dal desiderio, cinsi i fianchi di Rylee e la feci voltare verso di me. Mi ritrovai - con mio grande piacere - a una distanza quasi inesistente dalle sue labbra schiuse. «Suppongo che tu abbia sentito tutto lo stress andarsene, dopo quel colpo», sussurrai. Il mio fiato si infranse sulla sua bocca rosea, e lei si sentì costretta ad abbassare lo sguardo sulla mia. Nel pieno delle situazioni intense, lei non riusciva a fronteggiarmi. Ironico come, per me, funzionasse alla stessa maniera.

Annuì in una sequenza di movimenti svelti ed effimeri. Era pietrificata, e io scongelai quel corpicino mozzafiato muovendo un passo in avanti, tanto da costringerla tra me e il parapetto. Le mie braccia la circondarono e i palmi lasciarono i suoi fianchi per atterrare sulla superficie lignea che aveva alle spalle.

In me si stava risvegliando quanto di più ignoto e straniero potesse destarsi. Una sensazione che mi incendiava e mi colmava di scariche elettriche, che mi scuotevano a tal punto da mandarmi in tilt. Un senso di ardore tale da seccarmi la gola e rendere il mio corpo bisognoso dell'aria che non sarebbe riuscito a incamerare, se non avesse instaurato un contatto con il suo seduta stante.

Così, catturato dall'impulsività bollente di quel attimo, le mie labbra cercarono le sue e le trovarono, beandosi del loro consenso immediato. Lei fece tutto tranne che respingermi: i suoi polpastrelli si arrampicarono fino al mio collo, mi carezzarono la mandibola e si serrarono attorno alla mia nuca, attirandomi verso di lei con un'insistenza che non le era propria, ma che palesò in seguito al mio gesto avventato e sfacciato.

La sua bocca si muoveva lesta sulla mia, chiedendo di più a ogni millimetro che ne conquistava, e io le concessi tutto ciò che potevo darle: volontà, desiderio, pura e viva fiamma. Sognai così tanto i centimetri inesplorati del suo corpo da riportare le mani su di esso, alzare la t-shirt e sfiorarle i fianchi per poi rammentare, in un momento di folle estasi, che non aveva avuto occasione di sistemarsi dopo la notte trascorsa insieme.

Dio, sotto quella maglietta non indossava neanche il reggiseno.

I palmi scivolarono fino alle sue cosce, lasciate nude e coperte in parte solo dagli shorts striminziti. Affogai le dita nel mare della sua morbidezza ed esplorai quella terra mai visitata fino ad afferrarla e sollevarla dal suolo. Per lei fu istintivo allacciarmi le gambe attorno alla vita, sottomettersi al mio comando inaspettato: non ero io ad agire, ma l'incendio appiccato dalla discussione della mattinata ormai trascorsa.

La feci sedere sulla superficie lignea che divideva la postazione di tiro dall'area dei bersagli. Sussultò quando la canna gelida del fucile posto lì accanto le sfiorò la pelle nuda, non coperta dagli shorts, e dalle sue labbra uscì un gemito che io intrappolai nelle mie, nella danza sfrenata delle nostre lingue che si abbracciavano senza sosta.

Il mio bacino spinse contro il suo; tutto il suo candore contrastava con la ruvidezza del tessuto dei miei jeans, accentuata dalla mia sporgenza. Le sfiorai le gambe con i polpastrelli fino a giungere all'incavo delle ginocchia, che carezzai costringendo il suo corpo a stare quanto più possibile vicino al mio.

La stavo respirando, assaporando, vivendo. E, dinanzi a quella consapevolezza, tutto il nervosismo accumulato a causa del litigio con Lewis si dissolse nel nulla, abbandonando il mio cervello in balia di un'incontenibile brama.

Mi colmai del vuoto quando lei ruppe il nostro contatto. La sua bocca smise di comunicare con me tramite quei movimenti lenti e non ponderati che mi mandavano in visibilio e, a pochi centimetri da me, con il petto ansante e il respiro accelerato, aprì gli occhi: il luccichio del puro desiderio abbelliva ancora di più le sue iridi scure.

«Hey, hey...» sussurrò e, dannazione, sorrise. Le sue mani scesero fino a lambirmi lo sterno e i pettorali, muovendosi verso le costole. «La calma era la tua virtù migliore, fino a ieri...» ridacchiò.

«L'atteggiamento del tuo amichetto mi ha fatto incazzare» confessai. Anch'io stavo ansimando, e non mi premurai di nasconderlo. «Avevo bisogno di smaltire lo stress».

«Dai», e i suoi palmi risalirono fino a toccare le mie spalle. Ogni sua carezza era una benedizione, ogni vuoto che lasciava era una condanna. «Non dirmi che sparare non ti avrebbe aiutato» scherzò.

La vista sulla dolcezza dei lineamenti del suo volto acquietò anche i miei impulsi, che zampillavano come la lava del vulcano in cui mi trasformavo in sua presenza. Accadde a tal punto che la mia mano risalì, passò dalla sua gamba al suo viso, e ne carezzò la gota arrossata.

«Parola di un tiratore» cominciai, «amo sparare, ma preferisco di gran lunga passare i miei minuti così... Baciandoti», e le mie labbra incontrarono la sua fronte, «ovunque tu...» ora la punta del suo naso, «me lo conceda...» ora la sua bocca morbida.

Lei mi accolse e mi coinvolse in un bacio che non presentava l'insistenza e la fame che poco prima avevamo l'uno dell'altra, ma pregno di quella magia rara che ci aveva unito dal primo momento in cui ci eravamo scambiati uno sguardo diverso, quando avevamo compreso che il nostro rapporto non si muoveva più sul binario dell'amicizia, ma su quello di un'innegabile attrazione.

Nessuno dei miei sensi sembrava funzionare a dovere. Avevo isolato i rumori circostanti, mi ero discostato da ogni elemento di distrazione. Ogni mia facoltà era riservata a lei.

Mi ubriacavo del suo profumo e mi rendevo ebbro dei piccoli mugolii che faceva sfuggire al suo controllo. Tutto, di lei, mi induceva a cadere in una pericolosa dipendenza. Mi portava a perdere la testa fino a morirci, per quelle carezze.

«Sapevo che ti avrei trovato qui, dato che mi sono svegliata e non c'eri». Una risata e dei passi leggeri seguirono quell'affermazione, mentre la voce di Ava si diffondeva tra le mura del poligono. Mi separai da Rylee, che a sua volta tentò di non scoppiare a ridere, ma fu troppo tardi per allontanarsi quando mia sorella, alle mie spalle, pronunciò, nel pieno dell'imbarazzo: «Oh, beh, buongiorno... e buon appetito».

«Buongiorno a te» la salutai, senza avere il coraggio di voltarmi e guardarla negli occhi. Strinsi Rylee fra le braccia, e soffocai il suo risolino bloccandole la testa contro il mio petto.

«Rylee, guarda che non ti faccio niente, anche se ti fai ritrovare coinvolta in atti osceni con mio fratello» rise Ava, cercando la sua amica.

«È solo colpa sua» mi prese in giro, la voce che risuonò ovattata. «È partito in quarta».

«Stai zitta» la ammonii, e, divertito, le lasciai un bacio sulla testa per poi scompigliarle i capelli. «Tu non mi sei sembrata in disaccordo, per la cronaca».

«Piccioncini, sapete che San Valentino è tra sette mesi, vero? Basta fare gli smielati davanti a me» rise. «Dandomi le spalle, perlopiù» rettificò. «Vado un attimo in bagno, spero di non tornare qui e scoprire di essere diventata zia».

A quella battuta, però, Rylee non rise. Non dubitavo del fatto che Ava fosse a conoscenza del suo passato, perché lei stessa mi aveva detto di andarci piano. Era tuttavia vero che poteva capitare a chiunque di dare voce a frasi di cattivo gusto, senza farle precedere dalle giuste riflessioni. Mia sorella non l'avrebbe mai fatto con cattiveria, non nei confronti dell'unica vera amica che possedeva a Worcester.

Qualche secondo dopo, Ava scomparve. I suoi passi si allontanarono verso l'ufficio, e, successivamente, sfumarono nel silenzio quando lei si trincerò nel bagno. Fu allora che mi divincolai da Rylee. Lei non mi tenne più stretto al suo corpo stringendomi il bacino con le gambe, e io posi la giusta distanza fra noi.

«Tutto okay?» le chiesi, notando subito la sua espressione rabbuiata. Le sfiorai la guancia con i polpastrelli, nella speranza di catturare un suo sguardo fugace, ma lei era concentrata sul nulla.

Si limitò ad annuire con un impercettibile cenno.

«Non ci ha pensato, prima di dirlo. Non l'avrebbe mai fatto con cattive intenzioni» la rassicurai, prendendo le parti di mia sorella.

«Lo so, lo so» si affrettò a replicare. Fece dondolare le gambe, a penzoloni vista la sua altezza da terra, e poi si sforzò di riprendere la parola: «Non preoccuparti».

«Hey» la richiamai. Lambendole il mento, le sollevai il capo e la invitai a guardarmi. «Dimmi che stai bene».

«Sto bene». Vedendomi ancora titubante, poi, abbozzò un sorriso. «Davvero, Blake».

E io, quel sorriso, non potei evitare di baciarlo. Fugacemente, in un istante che mi riempì di gioia. «Mi fido» le dissi, «ma qualsiasi cosa ti faccia stare male, ti prego di dirmelo. Intesi?»

«Intesi».

Sancita la promessa, mi allontanai da lei in via definitiva. Agguantai il fucile che giaceva silenzioso al suo fianco e, dopo aver compiuto qualche passo, lo riposi sugli appositi supporti.

Udii i movimenti di Rylee, che scese dalla superficie su cui sedeva e si riavvicinò a me. A quel gesto, l'idea che i nostri corpi fossero una calamita l'uno per l'altro si consolidò e diventò una ferma convinzione. Ancora di più quando mi abbracciò da dietro, e io mi ritrovai le sue piccole mani unite all'altezza del mio stomaco, la sua guancia spalmata sulla mia schiena.

«Grazie, per stanotte» sussurrò.

«Non devi ringraziarmi, sventurata». Le carezzai le dita serrate. «È il minimo che io possa fare».

«Porca puttana, la deve smettere!» urlò la voce di mia sorella.

Quel ringhio improvviso mi allarmò, così mi divincolai dalla salda presa di Rylee e percorsi la distanza tra noi e l'ufficio ad ampie falcate. La beccai intenta a tirarsi i capelli in preda all'esasperazione. Ciò che mi cristallizzò seduta stante fu un pezzo di carta, che tremolava stretto fra il suo pollice e il suo indice.

«Adesso mi dici che cazzo vuole questa troia!» continuò a strillare, e compì dei passi pesanti per raggiungerli. Mi schiaffò l'ennesimo biglietto all'altezza del petto, con un colpo che mi fece trasalire, e io lo afferrai seppur indugiante. «Perché se inizia a scriverti nella sua fottutissima lingua per farsi capire solo da te, io vado a strozzarla con le mie stesse mani, Blake».

Fui scosso dall'ansia, nel sentire ed elaborare le parole di mia sorella. La guardai negli occhi e per un attimo fuggente ci rividi me stesso, con tutte le mie debolezze, una per ogni screziatura di verde presente nelle nostre iridi.

Abbassai il bigliettino tanto da permettermi di leggerlo. Il corsivo elegante, l'inchiostro che non ammetteva sbavature di alcuna sorta. La sua firma maledetta, l'iniziale del suo cognome. Elementi a cui avevo fatto l'abitudine, ma che ancora destavano i brividi lungo la mia spina dorsale.

"Estamos siempre màs cerca y màs lejos al mismo tiempo.
¿Por qué, mi amor?
¿Por qué no vuelves a mi?
- S" *

Dinanzi a quelle parole, la mia mente rivisse ogni scena come fossero state i fotogrammi di un film cruento. Nora ebbe l'occasione di conoscermi appena giunse negli Stati Uniti, fuggendo dalla Colombia e dai suoi problemi di cui io non avevo mai saputo niente; la sua cadenza ispanica, che nulla toglieva alla correttezza del suo inglese, fu il primo elemento a colpirmi, quando non sapevo a cosa stavo andando incontro. Con il passare del tempo, poi, quando il nostro rapporto ancora godeva di un equilibrio - per quanto precario esso fosse -, aveva insegnato lo spagnolo anche a me.

Era vero, quel biglietto era stato scritto affinché solo io lo capissi. Aveva tagliato fuori mia sorella e Rylee, perché era astuta come una volpe e aguzzava la vista come un'aquila: era conscia del fatto che loro avrebbero potuto ostacolare i suoi intenti, e non avrebbe mai permesso che ciò accadesse.

«Allora?» mi incalzò Ava. Nel frattempo, la sua amica ci raggiunse, spuntando alle mie spalle, ma ancora non si intromise. «Posso sapete qual è la minaccia del giorno?» Con le braccia conserte, la sua espressione subì un indurimento.

«Non è nulla di importante», tentai.

«Nulla di importante, a me, non lo dici. Cristo santo, Blake, ti ricordi cosa ti ha fatto quella stronza? Te lo ricordi, vero?» insistette.

La sua violenza era marchiata a fuoco nei meandri della mia memoria. Rammentavo ogni sigaretta spenta sul petto e sul collo, il divieto di piangere e di mostrarmi debole dinanzi a lei, i rapporti sessuali a cui ero costretto. E, destando quel ricordo, mia sorella riuscì a irrigidirmi.

«Ragazzi» s'infiltrò Rylee, in un mormorio ben distante dalla sua solita determinazione. Lenta, mi si affiancò. «Che succede?»

«Stanne fuori, Lee. Per il tuo bene» replicò l'amica.

«Ma se posso aiutare...» provò ancora.

«Va' a prendere un po' d'aria» la invitai. Le cinsi la vita con il braccio libero e la avvicinai a me per stamparle un bacio sulle labbra. Nel mio piccolo, sperai che ciò potesse alleviare la sua preoccupazione. Agitarla dopo la nottata che aveva passato mi sembrava scorretto nei suoi confronti. «Dopo, magari, ne parliamo. Okay?»

Impiegò qualche secondo a interrompere il nostro contatto visivo, ma lo fece annuendo. Seppur tentennante, quindi, infilò la porta e uscì all'esterno.

Solo allora notai lo sguardo di Ava, che aveva fissato la figura della sua amica fin quando quest'ultima non era scomparsa dal suo campo visivo. Quella che le campeggiava sul volto era un'espressione preoccupata e al contempo affaticata da tutta quell'ira che non le era propria.

«Adesso mi dici che cosa c'è scritto» riprese. Nonostante l'accenno di vulnerabilità, il suo tono non perse la durezza.

«Vuole che io torni da lei», riassunsi. «E dice che è sempre più vicina a me».

«No...» scosse il capo e rise, ma la risata fu spenta e scaturita dal nervosismo. «Non esiste, non si avvicinerà a te. Non di nuovo» sentenziò.

«Me la vedrò io», dichiarai. «Se deve prendersela con qualcuno, nel momento in cui si rifarà viva, che lo faccia con me».

«Col cazzo, Blake, smettila!» imprecò ancora, e la sua voce stentorea rimbalzò tra le pareti sottili dell'ufficio. «Deve prima ammazzarmi, se vuole arrivare a te. Non le permetterò di farti del male, lo capisci?» A quel quesito, le parole le morirono in gola e le sclere si velarono di un luccichio. «Non finirai di nuovo in ospedale».

«Ava...»

«Se non vuoi farlo per me, fallo almeno per Rylee. Ti scongiuro» supplicò.

«Anche Rylee deve stare fuori da tutto questo. Tu e lei non c'entrate niente».

«Dio, sei incredibile» lamentò. Puntellò le mani sui fianchi, stizzita. «Proprio non lo vuoi capire, eh?»

«Spiegami quello che non so, avanti» la invitai. «Devo capire che mi sta cercando? Che è ancora ossessionata da me? Me ne rendo conto, Ava».

«Lei non solo ti sta cercando, è questo che non capisci!» Per l'ennesima volta, alzò la voce. «Ti riprenderà con la forza, se non glielo concederai. La conosci» mi ricordò. «E, peggio ancora, più stai con lei», e additò la porta, indicando colei che sostava oltre quest'ultima, «e più la metti in pericolo».

Ciò bastò a raggelarmi.

***

* "Estamos siempre màs cerca y màs lejos al mismo tiempo. ¿Por qué, mi amor? ¿Por qué no vuelves a mi?" = "Siamo sempre più vicini e al contempo più lontani. Perché, amore mio? Perché non torni da me?"

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